"Caro Marco,
Lo stimolo per proporre questo post mi è venuto dopo aver
assistito per ben due volte al film “Hannah Arendt” trasmesso nel Canale CULT
della televisione brasiliana in occasione della ricorrenza del GIORNO DELLA
MEMORIA".
RIFLESSIONE DEL DOTT. MIGUEL LUNETTA…
“OLOCAUSTO NAZISTA DI SEI MILIONI
DI INNOCENTI”
Il film di Margarethe Von Trotta dedicato alla grande filosofa ebrea
Hannah Arendt.
"Il film dedicato alla grande filosofa, storica e scrittrice
tedesca emigrata negli States, racconta un episodio cruciale della sua vita,
quello in cui Hannah Arendt fu testimone e cronista d’eccezione a Gerusalemme,
al processo per crimini contro l’umanità ad Adolf Eichmann, l’ingegnere
dell’Olocausto. La Von Trotta ha vissuto a lungo in Italia dove ha raccolto
consensi e premi come il Leone d’Oro conquistato a Venezia nel 1981 con “Anni
di Piombo” ed è molto attenta alle figure femminili come risulta dalla sua
ricca filmografia che comprende pellicole come Rosa L., Vision, Rosenstrasse,
Lucida Follia e per questo “Hannah Arendt” si affida ancora una volta alla
bravissima Barbara Sukowa nella parte della filosofa concentrata sull'analisi
dei crimini nazisti elaborata da Arendt in
“La banalità del male”. (Eichmann
in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil). Arendt si era recata di
persona a Gerusalemme, inviata dalla rivista The New Yorker per riferire del
processo al criminale nazista Adolf Eichmann.
Credeva di incontrare un mostro e invece si trova davanti
una persona sana di mente, un grigio burocrate che aveva collaborato
all'olocausto "senza pensarci". Adolf Eichmann, che aveva
eseguito con precisione assoluta
l’ordine hitleriano della "soluzione finale del problema ebraico", si
era nascosto come altri criminale nazisti in Argentina. Nel 1960 un commando
dell’intelligence israeliano, giunto a Buenos Aires in modo rocambolesco lo
sequestrò e lo portò in Israele. Al processo, le cui riprese restano memorabili
(e in alcune parti compaiono anche nel film della von Trotta), Eichmann ammise,
da freddo ingegnere privo d’emozioni, ogni colpa descrivendo qualsiasi minimo
dettaglio, da come dovevano funzionare i forni alla quantità di gas Zyklone-B
usata ogni volta.
Fu condannato a morte e impiccato. “Hannah Arendt” è il
ritratto del genio che sconvolse il mondo, grazie alla sua scoperta della
“banalità del male”. Dopo aver assistito al processo al nazista Adolf Eichmann,
svoltosi a Gerusalemme, la Arendt osò scrivere dell’Olocausto con parole che
non si erano mai sentite prima. Il suo lavoro provocò immediatamente uno
scandalo, ma la Arendt non ritrattò, nonostante gli attacchi di amici e nemici.
In quanto ebrea tedesca emigrata, lei aveva difficoltà a recidere i suoi legami
dolorosi con il passato e il film mette in mostra il suo affascinante mix di
arroganza e vulnerabilità, rivelando un’anima formata e sconvolta dall’esilio.
Parlando di come furono accolti “La
banalità del male” e la sua autrice
Margarethe von Trotta, nella recente intervista al quotidiano Der Tagesspiegel, ricorda:
«Molta gente a sinistra allora la schivò, la evitò, perché lei pronunciò verità scomode, già nel 1951 nel suo libro sul totalitarismo
paragonò i crimini nazisti con quelli del comunismo sovietico, e a noi di
sinistra ciò suonava sospetto. Ancora oggi, – continua von Trotta – ci sono
persone che rifiutano il pensiero di Hannah Arendt perché analizzò entrambi i
totalitarismi».
Nel film non manca un accenno alla relazione che legò la
allora giovane studentessa al filosofo Martin Heidegger, lei non riusciva a
troncare il rapporto con Heidegger nonostante lui avesse aderito al partito nazionalsocialista
nel 1933. Questi flashback sono importanti per capire il passato della Arendt,
ma il film è incentrato soprattutto sulla sua vita a New York assieme al marito
Heinrich Blücher che lei aveva incontrato quando era esule a Parigi, ai suoi amici
tedeschi e americani, soprattutto l’autrice Mary McCarthy, e al suo amico di
lunga data, il filosofo ebreo tedesco Hans Jonas. (“Gnosi e spirito tardo
antico ….”).
Nel film quando la filosofa si difende davanti ad un vasto pubblico di
studenti e insegnanti dall’accusa di aver criticato i capi del movimento
ebraico per non aver attuato una decisa resistenza al nazismo, emerge
la forza spirituale della Arendt, convinta, come Antigone nella risposta data
al tiranno Creonte, (“Outoi sunecqein, alla sumfilein
efun. Son nata per amar, non per odiare”), che la legge dell’anima sia
quella dell’amore e non della vendetta e dell’odio. Una donna ed una
pensatrice che rifiutò di essere omologata all’interno di una ideologia, di un
partito, di una comunità religiosa ed il cui pensiero risulta ancora oggi
innovativo e rivoluzionario.
“La mia sensazione è di aver inavvertitamente toccato la parte ebraica
di quello che i tedeschi chiamano il loro "passato irrisolto" (die
unbewältigte Vergangenheit). Ora mi sembra che questo problema fosse
comunque destinato a presentarsi e che il mio resoconto l'ha cristallizzato
agli occhi di quelli che non leggono grossi libri probabilmente anche
accelerandone la sua tematizzazione in un discorso pubblico”. Hannah Arendt
http://www.ognisette.it/cultura/cultura-2014/cultura-febbraio-2014/nel-giorno-della-memoria-e-arrivato-201channah-arendt201d-l2019atteso-film-di-margarethe-von-trotta
"È lapidaria, Margarethe Von Trotta, quando spiega perché ha
scelto di portare sullo schermo un personaggio difficile come HannahArendt, la
filosofa ebrea tedesca naturalizzata americana: “Faccio film su persone che mi interessano”. Ed è probabilmente in
questa risposta che sta il fascino assoluto di un film che riporta l'attenzione
su una persona certamente scomoda, che ha avuto il coraggio di non accettare
compromessi, di andare a fondo per cercare di comprendere totalmente quello che
stava vedendo, e ascoltando. Il film racconta infatti il periodo fra il1960 e
il 1964, quando la cinquan-tenne Hannah Arendt, ormai riconosciuta come uno dei
grandi pensatori del mondo occidentale, riesce a farsi mandare dal New Yorker a
seguire il processo Eichmann a Gerusalemme. “It is my responsibility to
understand” ribadisce più volte nel film, girato in inglese e tedesco, quel
tedesco che usa con i vecchi amici fuggiti come lei dall'Europa, che si fa
strada prepotente ogni volta che le discussioni diventano importanti, a provare
un legame fortissimo con una lingua, con una cultura da cui hanno dovuto
fuggire. Il film non è doppiato, ma solo sottotitolato, ed è possibile rendersi
conto del grande lavoro fatto sul linguaggio degli esuli tedeschi in America.
La Arendt è un riferimento per gli intellettuali newyorkesi, è amata dai suoi
studenti, e universalmente stimata. Ma l'esperienza a Gerusalemme si rivela
durissima. Parte aspettandosi di assistere al processo di un essere quasi
demoniaco e di trova di fronte un burocrate, un uomo grigio e mediocre,
un“fantasma col raffreddore”. Un personaggio completamente diverso da
quell'incarnazione del male che si aspettava. Vuole capire come è stato
possibile, le ragioni, il perché. Perché un uomo simile, responsabile della
morte di un numero impensabile di esseri umani continua a sostenere di non aver
ucciso nessuno, di aver solo eseguito degli ordini? Una volta tornata negli
Stati Uniti lotta, anche con se stessa, per capire non solo come sia possibile
tutto ciò, ma anche come raccontarlo. Nonostante i suoi amici cerchino di
dissuaderla non cede perché, come spiega Margarethe Von Trotta, “la Arendt
crede ancora nell’utopia del pensiero,nella forza della filosofia, che può dare
voce ai testimoni perché rimanga una traccia indelebile nella storia del loro vissuto,
del dramma personale, della sofferenza di milioni di uomini, donne e bambini
che l'alba, citando Primo Levi, “colse come un tradimento”. Un tradimento che coinvolse
le comunità ebraiche di tutta Europa e portò alle deportazioni di massa, alle
esecuzioni sommarie, alla distruzione nei campi di concentramento, alla Shoah.
Realtà come quella di Rodi, piccola comunità ebraica
dell'isola greca (allora parte dello Stato italiano), furono spazzate via dalla
furia nazifascista. E proprio sulle vicende di Rodi, nella sua peculiarità così
come nel suo essere un esempio del tragico destino che accomunò milioni di
persone, si è soffermata la cinepresa del regista Ruggero Gabbai. Attraverso la
voce, i ricordi, le emozioni di Sami Modiano, Gabbai, assieme agli storici
Marcello Pezzetti, direttore del Museo della Shoah di Roma, e Liliana Picciotto
(Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea), ha ricostruitola
vita e la tragica cancellazione della comunità rodiota nel documentario “Il
viaggio più lungo. Rodi-Auschwitz”. “Abbiamo voluto far rivivere attraverso la
voce dei testimoni, di Sami così come di Alberto Israel e Stella Levi, una
storia italiana oramai praticamente dimenticata”. Un documentario che ha fatto
conoscere da New York - dove è stato presentato in anteprima lo scorso anno –
al Sud Africa, la storia della Rodi ebraica: affiancati dalla troupe e dallo
storico Pezzetti, Alberto, Sami e Stella tornano nell'isola della loro
infanzia. Le immagini si intrecciano ai ricordi, con la rievocazione di quella
che un tempo era una realtà viva e fiorente, scontratasi poi con la violenza
nazifascista. Le leggi razziali impedirono a Sami e agli altri ragazzi ebrei di
frequentare le scuole, i diritti calpestate fino al definitivo strappo dell'estate
del 1944: il 24luglio 1820 persone vengono imbarcate dai nazisti su navi
mercantili, condotti ad Atene e dà lì deportati ad Auschwitz. Solo 150 ebrei di
Rodi sopravvissero. “La storia è molto forte – spiega Gabbai a Pagine Ebraiche
– era da tempo che volevamo raccontarla. Con Marcello e Liliana avevamo portato
avanti già diversi progetti, dal documentario Memoria (del1997, che ha ottenuto
diversi riconoscimenti e fu visto in prima serata su Rai 2 da 7 milioni di
spettatori) a quello sul campo di Fossoli. Abbiamo sempre voluto al centro la
testimonianza, e così è accaduto anche per Rodi: siamo andati sull'isola con
Sami per ricostruire attraverso le parole e le immagini la storia di un passato
dimenticato”. Alle testimonianza di Modiano, si affiancano quelle di Levi e Israel,
testimonianze diverse di un comune destino tragico. Sono loro i protagonisti,
loro raccontano la realtà di quanto accaduto. “Mi fa paura romanzare le storie
della Shoah – afferma il regista, spiegando la scelta di usare sempre il
documentario come strumento del racconto –ognuno fa le sue scelte ma nella mia
visione, più attiguo alla tradizione ebraica, ho voluto dare spazio alla voce
diretta dei sopravvissuti. Con Il viaggio più lungo, come ci hanno detto in
molti, abbiamo voluto rendere giustizia alle vittime, colmando una lacuna della
cultura italiana”.Un lavoro apprezzato entro i confini nazionali e non solo,
con la proiezione il 26 gennaio su Rai 1 della pellicola, selezionata per il
30esimo Festival del cinema di Gerusalemme. “In America c'è molto interesse
per le storie degli ebrei europei e a New York abbiamo ricevuto critiche molto positive,
presentando uno spaccato dell'ebraismo italiano altrimenti sconosciuto. Ed è
accaduto anche in Sud Africa, dove abbiamo trovato grande interesse nel pubblico”.
Sulla gestione delle riprese Gabbai sottolinea poi la sua filosofia nel
trattare il tema della Shoah. “Possiamo definirla sensibilità di sottrazione.
Non voglio che vi sia retorica all'interno di questo tipo di documentari, anzi
in generale credo che la retorica sia nemica dell'arte. Ma tornando al nostro progetto,
al centro abbiamo posto le testimonianze a cui poi abbiamo affiancatole
immagini, seguendo dunque un doppio filone narrativo che si intreccia per fare emergere
un unico quadro storico che vuole emozionare senza d'altro canto sacrificare la
verità storica. È come scrivere una partitura musicale, deve esserci armonia”.
Attraverso la proiezione sulla rete nazionale, sottolinea il regista, Il
viaggio più lungo” avrà una diffusione ampia e la tragica storia degli ebrei di
Rodi potrà essere conosciuta dal grande pubblico".
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