In morte di Gabriel Garcia Marquez
di Giulietto Chiesa
“Molti anni dopo, di
fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendìa si sarebbe
ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a
conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla
e di canna selvatica, costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane, che
rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova
preistoriche”.
“Durante il fine
settimana gli avvoltoi s’introdussero attraverso i balconi della casa
presidenziale, fiaccarono a beccate le maglie di filo di ferro delle finestre e
smossero con le ali il tempo stagnato nell’interno, e all’alba del lunedì la
città si svegliò dal suo letargo di secoli con una tiepida e tenera brezza di
morto grande e di putrefatta grandezza”.
Sono gl’incipit rispettivamente di “Cent’anni di solitudine”
(1967) e de “L’autunno del patriarca” (1975). Quando lessi il primo e il
secondo – due indimenticabili momenti della mia giovinezza, complessivamente
molto priva di grande letteratura – non sapevo ancora che Gabriel Garcia
Marquez avesse “inventato” il “realismo magico”. Ma quando incontrai, per la
prima volta, quel termine, non ricordo più in quale critica letteraria, lo
trovai perfettamente corrispondente ai miei sentimenti. Che non erano riusciti
fino a quel momento a capire come mai uno scrittore impregnato di un ferreo
realismo potesse condurre con tanta, ripetuta, fantastica continuità, ad
atmosfere di sogno, di rutilante immaginazione. Appunto una realtà sempre
magica.
Come me milioni di lettori e di critici trovarono quella
definizione perfettamente aderente alla scrittura di Marquez. Fino a che
scoprii che c’era stato, prima di lui, uno scrittore cubano, Alejo Carpentier,
che aveva usato l’espressione di “real maraviglioso” per dire della sua propria
poetica. Non importa: anche una “realtà meravigliosa” può andare bene per
descrivere Gabo. Che dalla realtà “magica”, o “meravigliosa”, riusciva a fare
emergere uomini, e soprattutto donne, le cui dimensioni superano, di gran
lunga, tutte quelle della geometria euclidea e di quella einsteniana.
Credo di avere compreso qualcosa della dimensione umana,
completa e multipla, precisa e
incontenibile in ogni schema, solo leggendo Marquez.
Gli devo dunque il meglio di quello che sono riuscito ad
essere.
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