IL RISVEGLIO DEL CADUCEO DORMIENTE: la vera genesi dell'Homo sapiens

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VIDEO SINOSSI DELL'UOMO KOSMICO

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Con questo libro Marco La Rosa ha vinto il
PREMIO NAZIONALE CRONACHE DEL MISTERO
ALTIPIANI DI ARCINAZZO 2014
* MISTERI DELLA STORIA *

con il patrocinio di: • Associazione socio-culturale ITALIA MIA di Roma, • Regione Lazio, • Provincia di Roma, • Comune di Arcinazzo Romano, e in collaborazione con • Associazione Promedia • PerlawebTV, e con la partnership dei siti internet • www.luoghimisteriosi.it • www.ilpuntosulmistero.it

LA NUOVA CONOSCENZA

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GdM

venerdì 30 novembre 2018

MEDICINA SPAZIALE: IL CERVELLO UMANO E LA GRAVITA'



La permanenza nello spazio porta ad una riduzione del volume del cervello umano.

Secondo un recente studio condotto dall'Università di Antwerp, passare troppo tempo nello spazio provocherebbe una riduzione del volume del cervello umano.
Da tempo siamo a conoscenza del fatto che la permanenza dell’uomo nello spazio modifica la morfologia del corpo umano, portando ad esempio all’atrofia muscolare e alla riduzione della densità ossea. Un recente studio, pubblicato sul New England Journal of Medicine e condotto da un team di neuroscienziati dell’Università di Antwerp, ha dimostrato che passare dei lunghi periodi di tempo nello spazio avrebbe anche effetti negativi sul cervello. Il cervello subirebbe infatti una riduzione di volume che perdura anche a distanza di mesi dal termine della missione.

Lo studio:

Quanto dimostrato è il risultato dello studio del cervello di dieci cosmonauti, con età media di 44 anni, che avevano trascorso una media di 189 giorni a bordo della Stazione Spaziale Internazionale. Il cervello è stato misurato, tramite risonanza magnetica, sia prima che al termine della missione, a distanza di 9 giorni dal ritorno. Dalla risonanza si sono osservati cambiamenti significativi sia nella materia bianca che in quella grigia del cervello. La materia grigia si è ridotta a seguito dei viaggi, ma gli esami hanno dimostrato che si era ritirata solo temporaneamente. Invece la materia bianca ha mostrato diminuzioni più significative e anche permanenti, o comunque molto più durature. Le immagini evidenziano anche uno spostamento verso l’alto del cervello e un restringimento dello spazio presente tra la parte superiore del cervello e il cranio. Tali cambiamenti sarebbero causa di un aumento della pressione intracranica e di problemi di vista sperimentati da alcuni astronauti. Il professor zu Eulenburg ha dichiarato: “Presi nel loro complesso, i nostri risultati indicano dei cambiamenti prolungati nello schema di circolazione del fluido cerebrospinale per un periodo di almeno sette mesi dopo il ritorno sulla Terra. Tuttavia non è ancora chiaro se queste estese alterazioni evidenziate nella materia grigia e bianca possano avere delle conseguenze anche sull’aspetto cognitivo”. Per ulteriori conferme serviranno ulteriori studi sulle missioni di lunga durata.


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martedì 27 novembre 2018

FRAMMENTI DI EVOLUZIONE...SCOMODA




Neanderthal, denti fossili di 450 mila anni fa trovati in Italia riscrivono l’evoluzione


Scoperte a Fontana Ranuccio, nei pressi di Anagni (Frosinone) e a Visogliano (Trieste) le più antiche testimonianze dell’evoluzione umana mai trovate in Italia. Si tratta di denti di uomini di Neanderthal risalenti a 450.000 anni fa nel Pleistocene, le cui caratteristiche sono visibilmente diverse dagli altri denti noti di quell’epoca in Eurasia. Dai risultati del nuovo studio, pubblicato sulla rivista Plos One, le scansioni Micro-CT e le analisi morfologiche dei denti del Pleistocene rivelano caratteristiche simili a quelle di Neanderthal rispetto ad altre specie umane ma presentano marcate differenze con i denti dell’uomo moderno. “Possiamo collocare gli uomini di Neanderthal tra i 100mila e i 40mila anni fa, la dinastia neanderthaliana prima di quel periodo non è ben conosciuta”, ha detto Clément Zanolli dell’Università Touluse III. “La struttura interna della dentatura somiglia anche a quella degli antichi abitanti della Sierra di Atapuerca in Spagna, anch’essi della linea evolutiva dei Neanderthal, ritrovata nel sito di Sima de los Huesos. Ciò indica che un modello morfologico dentale generalmente neanderthaliano si era preconfigurato nell’Europa Occidentale in un periodo almeno tra 430 e 450mila anni fa”, ha osservato Zanolli.


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domenica 25 novembre 2018

PESI E MISURE: PERCHE' CAMBIANO?



Perché cambiano le definizioni di pesi e misure?

Segnalato dal Dott. Giuseppe Cotellessa  (INMRI – ENEA)

La Conferenza generale dei pesi e delle misure riunita a Versailles ha rivoluzionato il Sistema internazionale delle unità di misura, cambiando sette definizioni fondamentali. Ecco come (e perché)Due pesi e due misure. Anzi: sette pesi e sette misure. Nuove di zecca. Gli esperti della Conferenza generale dei pesi e delle misure (Cgpm), riuniti in sessione plenaria a Versailles – erano presenti i delegati di 62 paesi di tutto il mondo – hanno appena approvato il nuovo Sistema internazionale delle unità di misura (Si), ridefinendo de facto le definizioni di sette unità di misura fondamentali: chilogrammo, metro, secondo, ampere, kelvin, mole e candela. Le novità sono state presentate il 20 novembre a Roma, nella conferenza stampa Innovation in Measurement – Diamo il benvenuto al nuovo Sistema internazionale delle unità di misura, tenuta dagli esperti dell’Istituto nazionale di ricerca metrologica (Inrim), l’ente italiano che contribuisce a realizzare, mantenere e sviluppare i campioni nazionali di riferimento delle unità di misura del Sistema internazionale, garantendo così la riferibilità di ogni misurazione al sistema stesso. Si tratta, dicono i promotori dell’iniziativa, di un cambiamento epocale nella metrologia (la scienza che, per l’appunto, studia la misurazione delle grandezze fisiche e sceglie i sistemi di unità di misura più appropriati), perché lega le definizioni delle unità fondamentali a costanti fondamentali della fisica e non a oggetti materiali (come per esempio il campione del chilogrammo conservato a Sèvres) soggetti a cambiamento nel tempo.“Mi emoziona parecchio seppellire il vecchio chilogrammo”, ha commentato in proposito Stephan Schlamminger, fisico dello Us National Institute of Standards and Technology (Nist), “Mi sento un po’ nostalgico e triste, ma so che il nuovo sistema sarà migliore del vecchio”.

Pesi e misure, un po’ di storia

Per comprendere portata e motivi del cambiamento è necessario anzitutto ripercorrere le tappe fondamentali della definizione delle grandezze fondamentali e delle unità di misura. Il Sistema internazionale è nato a opera della Conférence générale des poids et mesures e del Bureau international des poids et mesures (Bipm), istituiti nel 1875 in seno alla cosiddetta Convenzione del metro. Nel corso della prima conferenza, che si tenne nel 1889, fu istituito il sistema Mks, che comprendeva le unità fondamentali di lunghezza(metro), peso (chilogrammo) e tempo (secondo). Bisognerà aspettare quasi mezzo secolo per il primo ampliamento: nel 1935, su proposta del fisico italiano Giovanni Giorgi al sistema fu aggiunto l’ohm, unità di misura della resistenza elettrica; successivamente, nel 1946, l’ohm fu sostituito dall’ampere, unità di misura della corrente elettrica. Con la decima conferenza generale dei pesi e delle misure, nel 1954, furono aggiunti il kelvin, per la misura della temperatura, e la candela, per la misura dell’intensità luminosa. Nel 1972, infine, la quattordicesima conferenza sancì l’aggiunta della mole, per la misura della quantità di sostanza, completando così le sette grandezze fisiche fondamentali e le corrispondenti unità di misura in uso ancora oggi.

Grandezze fondamentali e grandezze derivate

Dalle grandezze fondamentali si ricavano poi le cosiddette grandezze derivate, ossia tutte quelle che si possono esprimere come loro prodotto o rapporto. L’energia, per esempio, che nel Sistema internazionale si misura in joule, dimensionalmente equivalente al prodotto di chilogrammo per metro al quadrato diviso secondo al quadrato. O la potenza, che si misura in watt ed equivale dimensionalmente al rapporto tra joule e secondo. La resistenza, che originariamente era stata inclusa nelle grandezze fondamentali, è espressa oggi nel Sistema internazionale come rapporto tra il potenziale elettrico (a sua volta rapporto tra energia e corrente) e corrente elettrica. E così via.

Basta campioni in cassaforte

Dato un sistema apparentemente così coerente e preciso, da dove viene allora la necessità di modificarlo e aggiornarlo? Il problema è di precisione, stabilità e riproducibilità, tre caratteristiche che, va da sé, sono fondamentali nella definizione di un sistema di unità di misura. “Prendiamo per esempio il secondo, unità di misura del tempo”, ci racconta Marco Pisani, metrologo e ricercatore Inrim. “Storicamente, il secondo era definito come una frazione [1/86400, per la precisione, nda] del giorno solare medio”. Tuttavia, poiché a causa di diversi fattori (interazione gravitazionale Terra-Luna, forza delle maree, fusione dei ghiacciai alle alte latitudini), il giorno solare medio si sta impercettibilmente ma inesorabilmente allungando, una definizione siffatta non può certo dirsi universale, tanto che nel 1956 la Cgpm ridefinì l’unità di misura in termini di rivoluzione terrestre attorno al Sole nel 1900 (“la frazione di 1/31556925,9747 dell’anno tropico per lo 0 gennaio 1900 alle ore 12 tempo effemeride”). Fino ad arrivare, nel 1967, a una definizione finalmente svincolata dal movimento terrestre e legata invece alla radiazione emessa da un isotopo del cesio, un intervallo temporale misurabile con estrema precisione grazie agli orologi atomici. “Stesso discorso per il metro, che in passato era definito come una frazione del meridiano terrestre e poi è stato invece legato alla velocità della luce”, prosegue Pisani. “Il senso delle nuove definizioni è proprio questo: riferire tutte le unità di misura delle grandezze fondamentali a costanti della fisica, che abbiamo stabilito con estrema precisione, anziché a campioni materiali, più soggetti a incertezza e a cambiamenti nel corso del tempo”, dice Pisani. Quello che è appena avvenuto con il chilogrammo è l’esempio più lampante: finora l’unità di peso era definita attraverso un campione conservato a Sèvres, al quale tutti gli enti metrologici nazionali dovevano fare riferimento per la realizzazione del proprio campione. Da maggio 2019, quando entreranno in vigore le misure appena votate a Versailles, il chilogrammo sarà invece definito considerando il valore numerico della costante di Planck h, fissato a 6,626070040×10-34joule per secondo. “Per gli scienziati, comunque”, ci tiene a precisare Pisani, “non cambierà nulla dal punto di vista operativo perché il valore delle unità non cambia, cambia solo il metodo per realizzarle. L’impatto di questo cambiamento sarà principalmente il fatto che le unità di misura potranno essere realizzate da chiunque in qualunque parte del mondo e permetterà in prospettiva di effettuare misure sempre più precise e quindi favorire lo sviluppo di nuove scoperte e nuove tecnologie”.

Così cambiano le definizioni

Ecco, nello specifico, come cambieranno le definizioni delle sette unità di misura fondamentali:

Chilogrammo

Prima. La massa del cilindro di platino-iridioconservato all’Ufficio internazionale dei pesi e delle misure a Sèvres.
Dopo. Sarà ridefinito in termini della costante di Planck, sarà realizzato attraverso una speciale bilancia detta bilancia di Kibble e non sarà più necessario riferirsi al campione di Sèvres.

Ampere

Prima. L’intensità di corrente che, se mantenuta in due conduttori lineari paralleli di lunghezza infinita e sezione trascurabile, posti a un metro di distanza l’uno dall’altro nel vuoto, produce tra questi una forza pari a 2×10^-7 newton per ogni metro di lunghezza.

 Dopo. L’ampere sarà definito dal valore numerico della carica elementare fissato a 1,602176634×10^-19 coulomb e sarà realizzato attraverso speciali circuiti che contano gli elettroni.

Kelvin

Prima. La frazione pari a 1/273,16 della temperatura assoluta del punto triplo dell’acqua

Dopo Definito a partire dal valore numerico della costante di Boltzmann k, ovvero 1,38064852×10^-23 joule su kelvin.

Mole

Prima. La quantità di sostanza di un sistema che contiene un numero di entità pari al numero degli atomi presenti in 12 grammi di carbonio-12.

Dopo. La mole sarà legata alla costante di Avogadro: contiene esattamente 6,022214076×10^23 entità elementari (atomi, molecole e così via).

Metro

Il metro è già oggi definito a partire dal valore numerico fissato della velocità della luce nel vuoto pari a 299.792.458 metri al secondo.

Candela

La candela è già oggi definita dal valore numerico fissato dell’efficacia luminosa di una radiazione monocromatica di frequenza 540×10^12 hertz, fissato a 683 quando espresso in lumen per watt (eguale a una candela steradiante per watt).

Secondo

Il secondo è già oggi definito dal valore numerico fisso dell’inverso della frequenza di transizione tra due livelli iperfini del cesio-133, pari a 9192631770 hertz.

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venerdì 23 novembre 2018

IL SALTO QUANTICO



Cronometrato il salto quantico, in attosecondi

Misurata per la prima volta la durata precisa dell'effetto fotoelettrico, quando gli elettroni, colpiti dai fotoni, acquisiscono energia e riescono a "saltare", venendo espulsi dalla superficie. I risultati su Nature

Il salto quantico, fenomeno alla base dell’effetto fotoelettrico utilizzato in innumerevoli applicazioni tecnologiche, avviene quando un elettrone che ruota intorno al nucleo di un atomo viene colpito dalla luce e cambia stato energetico, passando in una diversa orbita. Ma in quanto tempo l’elettrone compie il salto? A Rispondere oggi, a oltre un secolo dalla prima spiegazione del fenomeno da parte di Albert Einstein, è un gruppo di ricerca guidato dall’Università Tecnologica di Vienna, che ha misurato con una precisione mai raggiunta il tempo del salto quantico.

Salto quantico ed effetto fotoelettrico

Il primo ad intuire e a spiegare il fenomeno del salto quantico fu Albert Einstein, nel 1905, quando introdusse il concetto da lui chiamato dei quanti di luce (oggi più noti come fotoni). L’atomo è un sistema complicato in cui gli elettroni, particelle elementari indivisibili e senza struttura interna, ruotano intorno a un nucleo centrale molto concentrato e denso. La loro rotazione non è casuale ma segue orbite specifiche e differenti: ciascun elettrone ne segue una a seconda dell’energia che possiede. Ma se viene colpito dalla luce (fotoni), l’elettrone può compiere un salto quantico e cambiare orbita. Questo fenomeno è alla base dell’effetto fotoelettrico, per cui l’elettrone colpito dal fotone viene emesso dalla superficie del materiale



Questione di attosecondi

Il salto quantico avviene in frazioni di secondo talmente esigue che finora non era stato possibile rilevarle. Diversi tentativi di misurarne la durata si erano scontrati con la difficoltà di misurare con precisione l’attimo in cui i fotoni colpivano il materiale studiato. Mediante specifiche tecnologie (particolari telecamere e tecniche di interferometria) i ricercatori dell’Università di Vienna sono riusciti a stabilirlo con una accuratezza dell’ordine di attosecondi, miliardesimi di miliardesimo di secondo.

In una fase iniziale, l’effetto fotoelettrico è stato misurato su atomi di elio, un elemento dalla struttura molto semplice, per cui il processo di fotoemissione può essere studiato agevolmente. In un secondo esperimento, questi dati sono stati comparati con quelli rilevati su atomi di iodio. Infine, tutti dati sono stati confrontati con quelli ottenuti su una superficie di tungsteno, un elemento chimico molto più complesso. “Nel tungsteno la durata di questo processo può essere studiata particolarmente bene perché l’interfaccia del materiale può essere determinata con una precisione molto elevata”, spiega Florian Libisch, coautore dello studio pubblicato su Nature, che spiega come la superficie di questo atomo sia ottima per studiare la fotoemissione di elettroni.

Dall”analisi dei dati è emerso che la durata di un salto quantico dipende dallo stato iniziale degli elettroni. Si va dai 100 attosecondi (10 milionesimi di miliardesimo di secondo) per gli elettroni che sono più vicini al nucleo dell’atomo di tungsteno ai 45 attosecondi per gli elettroni più esterni, che in media raggiungono il punto finale del proprio percorso – dunque vengono espulsi dall’orbita – più velocemente.

Dalla fibra ottica ai panelli solari

I risultati dei ricercatori viennesi permettono di studiare meglio l’effetto fotoelettrico, un fenomeno che trova numerose e importanti applicazioni in svariati campi della tecnologia: per fare un esempio, è alla base della conversione dei dati del cavo di fibra ottica in segnali elettrici nelle celle solari. “Il nostro è un campo entusiasmante che fornisce nuove idee”, commenta Joachim Burgdörfer, coautore dello studio. “Ci dà l’opportunità di studiare importanti processi fisici con una precisione che soltanto pochi anni fa non sarebbe stata neanche pensabile”.


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martedì 20 novembre 2018

LA PAPAVERINA E...IL CANCRO



Un farmaco di 150 anni fa, potrebbe aiutare nella lotta contro il cancro

Un farmaco conosciuto da oltre 150 anni potrebbe essere la chiave per combattere più efficacemente le cellule tumorali aumentando l’efficacia della radioterapia e diminuendo allo stesso tempo i dannosi effetti collaterali.



Vediamo come:

La papaverina contro il cancro

Purtroppo, al momento, la scienza non ha disposizione farmaci che siano sia sufficientemente sicuri che efficaci, quando si tratta di cancro. Fatta eccezione per le nuove terapie immunotropiche e la tecnica car-t cell, infatti, la radioterapia e chemioterapia – seppur leggermente migliorate – sembrano ancora imperare durante i trattamenti anticancro. Inutile dire che si tratta di medicinali che provocano effetti devastanti sulle persone e prolungano la vita solo di qualche anno. D’altro canto, anche le terapie più classiche potrebbero migliorare grazie all’uso di un antichissimo farmaco miorilassante, conosciuto da ben 150 anni. Stiamo parlando della papaverina, una sostanza che sembra essere un’ottima candidata come coadiuvante

I limiti della radioterapia

Come ben sappiamo, la radioterapia ha molti limiti. Si tratta infatti di una terapia che è in grado di distruggere le cellule cancerose danneggiando in maniera irreversibile il loro DNA e producendo una vasta quantità di radicali liberi. Tuttavia, non riesce a essere sufficientemente efficace nelle cellule maligne che si trovano in tessuti eccessivamente privi di ossigeno. La carenza di ossigeno causa sacche di cellule necrotiche circondate da aree ipossiche. Le cellule tumorali che si trovano in tali sedi, possono così sfuggire alla chemioterapia e diventare resistenti alla radioterapia. E questo è un grave problema, considerando che la privazione di ossigeno è abbastanza comune nelle masse tumorali. «Sappiamo che l'ipossia limita l'efficacia della radioterapia, e questo è un problema clinico serio perché più della metà di tutte le persone con cancro ricevono radioterapia a un certo punto della loro cura», spiega Nicholas Denko, un ricercatore di microambienti tumorali e metabolismo presso la Ohio State University.

Superare la barriera

Grazie a Denko – che ha coordinato il team di ricerca per dieci anni - da ora in poi potrebbe essere possibile superare la barriera dell’ipossia grazie alla papaverina. Le cellule cancerose, devono consumare alti livelli di ossigeno per crescere bene. E spesso il loro desiderio di nutrimento supera l’offerta di sangue del momento. Si innesca così l’ipossia e le cellule cancerose sono protette dalla chemioterapia e radioterapia. «Se le cellule maligne nelle aree ipossiche di un tumore sopravvivono alla radioterapia, possono diventare una fonte di recidiva. È fondamentale trovare metodi per superare questa forma di resistenza al trattamento», continua Denko.

Aumentare l’ossigeno?

Studi recenti hanno tentato di ovviare al problema fornendo più ossigeno nella sede tumorale. Tuttavia, i risultati sono stati scarsi, perché in questo modo i tumori crescono troppo velocemente. Ecco il motivo per cui Denko ha provato a muoversi diversamente. «Abbiamo utilizzato l'approccio opposto. Piuttosto che tentare di aumentare l'apporto di ossigeno, abbiamo ridotto la richiesta di ossigeno». Come? Utilizzando la papaverina.

Il ruolo della papaverina

Tale sostanza agisce inibendo la respirazione dei mitocondri – sia delle cellule nostre che di quelle tumorali – i quali consumano ossigeno e creano energia. In questo modo viene ridotta la quantità di ossigeno consumata dalle cellule tumorali e si assiste a una riduzione dell’ipossia e dell’efficacia delle radiazioni. Ma ciò che è più interessante è che il farmaco non interagisce negativamente con il tessuto sano. «Abbiamo scoperto che una dose di papaverina prima della radioterapia riduce la respirazione mitocondriale, allevia l'ipossia e migliora notevolmente le risposte dei modelli di tumore alle radiazioni», continua Denko. «Forniamo prove genetiche – si legge nell’estratto dello studio - che l'inibizione complessa della papaverina è direttamente responsabile della maggiore ossigenazione e della maggiore risposta alle radiazioni. Inoltre, descriviamo derivati ​​della papaverina che hanno il potenziale per diventare radiosensibilizzatori clinici con potenzialmente meno effetti collaterali. È importante sottolineare che questa strategia di radiosensibilizzazione non sensibilizzerà il tessuto normale ben ossigenato, aumentando così l'indice terapeutico della radioterapia», concludono gli scientiziati. I risultati sono stati pubblicati su Proceedings of the National Academy of Sciences.

Fonti scientifiche:

[1] Papaverine and its derivatives radiosensitize solid tumors by inhibiting mitochondrial metabolism - Martin Benej, Xiangqian Hong, Sandip Vibhute, Sabina Scott, Jinghai Wu, Edward Graves, Quynh-Thu Le, Albert C. Koong, Amato J. Giaccia, Bing Yu, Shih-Ching Chen, Ioanna Papandreou, and Nicholas C. Denko - PNAS October 16, 2018 115 (42) 10756-10761; published ahead of print September 10, 2018 https://doi.org/10.1073/pnas.1808945115 - Edited by Gregg L. Semenza, Johns Hopkins University School of Medicine, Baltimore, MD, and approved August 10, 2018 (received for review May 24, 2018)

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domenica 18 novembre 2018

I VIAGGI DEI ROMANI IN AMERICA


Per gli Antichi l'Oceano era un mare noto e navigato in ogni sua direzione. Le prove sono contenute nell'ultimo saggio di Elio Cadelo "L'Oceano degli Antichi - I viaggi dei Romani in America" per l'editrice goriziana LEG (p.480, euro 28).


La gran quantità di testimonianze archeologiche e letterarie prodotte da Elio Cadelo, studioso e divulgatore scientifico, confermano la presenza in America dei Romani. Infatti, frutti come l'ananas, piante come il mais o fiori come il girasole, tutte di origine americana non sono giunte in Europa dopo il 1492, l'anno cui tradizionalmente si attribuisce la scoperta dell'America, ma erano già note al tempo di Roma tanto da essere raffigurate in affreschi, mosaici e sculture. Non solo piante, i Romani importarono dall'America anche animali tra i quali pappagalli, in particolare il pappagallo Ara, raffigurato in affreschi di ville romane. In questo volume vengono presentate numerose prove di scambi tra il Vecchio e il Nuovo continente in epoca romana, tra le quali vi sono le analisi del dna compiute sui farmaci fitoterapici rinvenuti in un relitto romano del primo secolo d.C. davanti alle coste toscane. "Su quella nave viaggiava anche un medico e questo gli archeologi lo deducono dal fatto che sono state ritrovate fiale, bende, ferri chirurgici e scatolette sigillate contenenti pastiglie composte da numerosi vegetali, preziosissime per la conoscenza della farmacopea nell'antichità classica" dice Cadelo. Ma tracce della presenza di Roma in America sono state rinvenute in una tomba azteca: una testa marmorea con acconciatura romana di età imperiale nota come "la testina di Toluca", oltre ai numerosi reperti esposti nel museo di Comalcalco, città maya sulla costa sud-occidentale del Messico. Tra le diverse prove nel saggio di Elio Cadelo viene pubblicata per la prima volta una lettera di Cristoforo Colombo indirizzata ai re di Spagna nella quale l'ammiraglio spiega che per giungere alle Indie da occidente avrebbe seguito la stessa rotta già percorsa dal Romani.

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venerdì 16 novembre 2018

CAMBIARE DNA: E' POSSIBILE?



Usa, scienziati tentano esperimento per cambiare Dna umano

Si saprà solo fra 3 mesi se il trattamento è riuscito o meno. La tecnica verrà testata per anche altre malattie, inclusa lʼemofilia.

Scienziati americani hanno reso noto di avere provato per la prima volta a modificare i geni di una persona direttamente all'interno del suo corpo per cambiarne il Dna in modo permanente. L'obiettivo è quello di curare una rara malattia metabolica di cui è affetto il 44enne Brian Madeux. Si saprà solo fra 3 mesi se il trattamento è riuscito o meno. La tecnica verrà testata per anche altre malattie, inclusa l'emofilia.

L'esperimento è stato realizzato lunedì ad Oakland (California). La tecnica usata è diversa dalla Crispr, il cosiddetto "taglia e incolla" del Dna introdotto di recente. Su Madeux è stato sperimentato un sistema chiamato "nucleasi delle dita di zinco". Sono forbici molecolari che cercano e tagliano uno specifico pezzo di Dna.

Le istruzioni per intervenire sul Dna sono poste in un virus che viene alterato per non causare infezioni e per portare le informazioni dentro le cellule. Miliardi di copie di questo vengono iniettate in vena. Il virus viaggia fino al fegato, dove le cellule usano le istruzioni per costruire le "dita di zinco" e preparare il gene correttivo. Le dita tagliano il Dna, permettendo al nuovo gene di inserirsi.
Questo poi fa sì che la cellula produca l'enzima che manca al paziente. Solo l'1% delle cellule del fegato devono essere corrette per trattare con successo la malattia, ha detto il capo dell'equipe che cura Madeux, il dottor Paul Harmatz dell'ospedale di Oakland. "Voglio assumermi questo rischio - ha detto il paziente, che viene da Phoenix in Arizona - Spero che aiuterà me e altre persone".

La sindrome di Hunter colpisce meno di 10.000 persone al mondo. La maggior parte dei malati muoiono giovani. Chi ne soffre manca di un gene che produce un enzima che scinde certi carboidrati. I malati vanno incontro a frequenti raffreddori e otiti, paresi facciali, perdita di udito, problemi cardiaci, respiratori e dell'apparato digerente, patologie alla pelle e agli occhi, problemi alle ossa e alle articolazioni, disturbi al cervello.

Finora è stato modificato in laboratorio il Dna di singole cellule, che sono poi state iniettate nei pazienti. Ma queste tecniche possono essere usate solo per poche malattie, a volte sono di breve durata o non permettono di inserire il gene nel punto voluto. Se questa nuova tecnica funziona, sarà come mandare dentro il corpo un micro-chirurgo che inserisca il gene esattamente dove deve andare.


PER APPROFONDIMENTI:






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