IL RISVEGLIO DEL CADUCEO DORMIENTE: la vera genesi dell'Homo sapiens

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VIDEO SINOSSI DELL'UOMO KOSMICO

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Con questo libro Marco La Rosa ha vinto il
PREMIO NAZIONALE CRONACHE DEL MISTERO
ALTIPIANI DI ARCINAZZO 2014
* MISTERI DELLA STORIA *

con il patrocinio di: • Associazione socio-culturale ITALIA MIA di Roma, • Regione Lazio, • Provincia di Roma, • Comune di Arcinazzo Romano, e in collaborazione con • Associazione Promedia • PerlawebTV, e con la partnership dei siti internet • www.luoghimisteriosi.it • www.ilpuntosulmistero.it

LA NUOVA CONOSCENZA

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GdM

mercoledì 31 ottobre 2018

I MISTERI NAUTICI DEL MAR NERO



Negli abissi del Mar Nero il relitto intatto più antico al (Foto: Black Sea Map/EEP Expeditions)

È una nave di epoca greca e si stima abbia circa 2400 anni. È rimasta praticamente in ottime condizioni poco a largo della costa del mar Nero grazie a circostanze ambientali particolarissime
Da circa due millenni e mezzo giaceva indisturbata sul fondo del Mar Nero, a duemila metri di profondità e pochi chilometri dalla costa bulgara. Ed è rimasta praticamente intatta, in virtù del fatto che l’acqua marina, in quella regione, è particolarmente povera di ossigeno. Il che ha impedito la proliferazione di batteri che l’avrebbero corrosa e deteriorata. Si tratta di una nave commerciale di oltre venti metri di lunghezza, di epoca classica, usata probabilmente per trasportare merci dalla Grecia alle colonie elleniche sulla costa del Mar Nero.

A scoprirla, pochi giorni fa, un’équipe di archeologi anglo-bulgari per il Black Sea Maritime Archeology Project (Map), coordinati dal professor John Adams, comprensibilmente entusiasti del ritrovamento: “È una scoperta unica nel suo genere”, ha raccontato alla Bbc Helen Farr, una delle partecipanti alla spedizione. “Si tratta del relitto intatto più antico mai trovato. È come aprire una finestra su un altro mondo: quando abbiamo esaminato il video e abbiamo visto apparire la nave, così perfettamente conservata, ci siamo sentiti come se avessimo fatto un viaggio indietro nel tempo”.

ALBERO, TIMONI, PANCHE E MERCI
La particolarità del relitto, come si diceva, sta nel fatto che è perfettamente conservato. Sono pressoché intatti l’albero maestro, i timoni, le panche utilizzate dai rematori e addirittura, sembra, anche parte del contenuto della stiva – che però è ancora sconosciuto: gli archeologi dicono che servirà una nuova spedizione per scoprirlo, anche se con ogni probabilità si tratta di anfore e vasi. Forma e dimensione dell’imbarcazione, tra l’altro, ricordano molto da vicino un profilo disegnato sul Siren Vase, un’anfora conservata al British Museum di Londra datata intorno al 480 a.C., che ritrae Ulisse legato all’albero maestro di una nave mentre ascolta il canto mortifero delle Sirene.


Nella loro spedizione, gli scienziati si sono serviti di due robot sottomarini, i cosiddetti Rov (Remote operated vehicle), che hanno scandagliato il fondo marino, ricostruito un’immagine tridimensionale della nave e prelevato un campione per eseguire la radio datazione al carbonio. In particolare, gli archeologi hanno utilizzato la fotogrammetria, una tecnica complessa che, combinando precise misurazioni delle dimensioni del relitto da diversi angoli e migliaia di fotografie, permette di creare un’immagine tridimensionale composita super-dettagliata.

MAR NERO, UN TESORO ARCHEOLOGICO
Quello di questi giorni non è il primo rinvenimento importante nelle acque del Mar Nero. Negli anni scorsi, gli scienziati del Map (che avevano intrapreso il progetto di ricerca per studiare l’impatto del cambiamento del livello del mare sulle società preistoriche) hanno rinvenuto circa 60 relitti nella stessa regione, il che fornisce una sinistra spiegazione dell’appellativo “mare ostile” con cui nell’antichità classica ci si riferiva a queste acque. Tra i ritrovamenti degni di nota, una nave dell’impero bizantino, un’imbarcazione ottomana e diversi natanti veneziani, probabilmente affondati intorno al XIII secolo, tutti in sorprendente stato di conservazione.

https://www.repubblica.it/scienze/2018/10/23/news/scoperto_nel_mar_nero_il_relitto_intatto_piu_vecchio_al_mondo-209760343/

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lunedì 29 ottobre 2018

LA VITA: CASUALITA' O...PROGETTO INTELLIGENTE?


La scintilla della vita generata dagli urti tra polveri interstellari… e poi?


“La scintilla della vita può essere partita dallo spazio. Le pressioni generate dai potentissimi urti tra le polveri interstellari possono infatti aver innescato la formazione dei 'mattoni della vita', come gli amminoacidi e i loro precursori, che possono essere arrivati sulla Terra con gli asteroidi. Lo spiega sull'Astrophysical Journal Letters uno studio italiano, coordinato da Giovanni Cassone, dell'Accademia delle scienze della Repubblica Ceca, in collaborazione con il Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) di Messina e l'Istituto nazionale di astrofisica (Inaf). Sull'origine della vita e i meccanismi chimico-fisici alla base della formazione dei suoi mattoni fondamentali "sono state fatte varie ipotesi - spiega all'Ansa il coautore dello studio Franz Saija - una è quella del brodo primordiale, l'altra è che alcuni elementi fondamentali siano arrivati sulla Terra dallo spazio su comete e asteroidi. Il nostro studio aggiunge un altro tassello a questa teoria". Per farlo hanno usato il computer come un microscopio teorico, con cui hanno analizzato i processi dinamici alla base delle reazioni chimiche delle molecole più semplici e complesse. "Abbiamo simulato l'impatto delle polveri interstellari, che si trovano nelle zone protoplanetarie, cioè le zone di formazione dei nuovi sistemi planetari - continua Saija - e abbiamo così visto che questi urti provocano delle pressioni enormi, che hanno fatto da innesco alla formazione di molecole da quelle più semplici a quelle più complesse". In particolare, hanno visto che alcune molecole molto semplici e comuni, come l'acido isocianico (la molecola più semplice che contiene i quattro 'elementi della vita') e l'idrogeno (la molecola più abbondante nell'Universo), se sottoposte all'effetto di intense onde di pressione, dovute ai violenti urti fra grani di polvere interstellare, danno luogo a molecole organiche, tra cui la glicina e i precursori di 7 dei 20 aminoacidi costituenti la vita. "E' un altro tassello - conclude - di come la sulla Terra possa essere nata da elementi semplici, formatisi sul pianeta stesso ma anche nello spazio".

DOMANDA:
E l’aggregazione in successive forme di vita complesse?

RISPOSTA:
Ovviamente questa è tutta un’altra storia che nemmeno i nostri quattro “eoni” (1) possono spiegare senza… un progetto intelligente! (ndr – MLR).

(1)   EONE: L'eone è un'unità geocronologica utilizzata in geologia. È la categoria di rango superiore tra le suddivisioni della scala dei tempi geologici; la categoria di rango immediatamente inferiore è l’era.
Gli eoni nella storia della Terra sono quattro: (dal più recente al più antico)
Fanerozoico (iniziato 545 milioni di anni fa)
Proterozoico (tra 2500 e 545 milioni di anni fa)
Archeano o Criptozoico (tra 3800 e 2500 milioni di anni fa)
Adeano o Azoico (prima di 3800 milioni di anni fa)

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sabato 27 ottobre 2018

MARTE: OSSIGENO E ...ACQUA SALATA, INGREDIENTI PER LA VITA?



SEGNALATO DAL DR. GIORGIO PATTERA (BIOLOGO)

C'è ossigeno per la vita nell'acqua salata su Marte

C'è ossigeno sufficiente per ospitare la vita nell'acqua salata che si trova nel sottosuolo di Marte, compreso il lago scoperto dal radar italiano Marsis, della sonda europea Mars Express. Lo indica la ricerca del California Institute of Technology (Caltech) pubblicata sulla rivista Nature Geoscience. I calcoli fatti dal gruppo di Vlada Stamenković indicano che l'ossigeno potrebbe sostenere la vita di microrganismi e animali più complessi, come spugne.

Finora, forme di vita in grado di respirare ossigeno su Marte si ritenevano impossibili, perché l'atmosfera del pianeta è poverissima di questo gas. Adesso, invece, lo scenario cambia completamente: significa che sul pianeta aumenta la probabilità che ci siano le condizioni per ospitare microrganismi il cui metabolismo è basato sull'ossigeno, perché trovano il gas disciolto nell'acqua salata. I ricercatori lo hanno dimostrando calcolando la quantità di ossigeno che può essere disciolto nell'acqua salata sotto le varie condizioni di pressione e temperatura nel sottosuolo di Marte, compreso il lago scoperto a una profondità di 1,5 chilometri.

Scoperto su Marte un lago di acqua salata

A un chilometro e mezzo sotto i ghiacci del Polo Sud di Marte c'è un grande lago di acqua liquida e salata che ha tutti i requisiti per ospitare la vita: lo ha scoperto il radar italiano Marsis della sonda Mars Express.
«I nostri calcoli indicano - scrivono gli studiosi nell'articolo - che in un serbatoio d'acqua salata di questo tipo ci potrebbero essere elevate concentrazioni di ossigeno disciolto». Secondo lo studio, inoltre, le concentrazioni di ossigeno sono particolarmente elevate nel sottosuolo delle regioni polari. «Non sappiamo - concludono gli autori - se Marte abbia mai ospitato la vita», ma «i nostri risultati» estendono la possibilità di cercarla, indicando che le forme di vita basate sull'ossigeno sul pianeta rosso potrebbero essere possibili, a differenza di quanto immaginato finora. Questo estende anche l'opportunità per la caccia alla vita su altri pianeti e lune che ospitino sacche di acqua salata o oceani sotterranei, come la luna di Saturno Encelado.
L'astrobiologa Daniela Billi, dell'Università di Roma Tor Vergata, ha commentato: «I requisiti per l'abitabilità delle brine su Marte si arricchiscono ora della possibile presenza di ossigeno, indispensabile però alle sole forme di vita che lo utilizzano per la respirazione. Questa possibilità amplia i possibili metabolismi presenti su Marte». Finora, infatti, si riteneva che sul Pianeta Rosso potessero vivere soltanto microrganismi simili ai batteri che sulla Terra vivono in ambiente privi di ossigeno, chiamati metanogeni, che utilizzano l'idrogeno molecolare anziché l'ossigeno come fonte di energia.


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giovedì 25 ottobre 2018

IL CERVELLO E…LA MORTE: QUANTI MISTERI ANCORA DA SVELARE



Un caso clinico avvenuto in Canada ha messo in luce la scarsa conoscenza scientifica che abbiamo a disposizione sulla morte cerebrale

Quando muori il cervello funziona ancora?

Non è detto che accada a tutti, ma è certo che alcuni scienziati sono rimasti sbalorditi quando si sono accorti che il cervello di una persona deceduta ha continuato a funzionare per ben dieci minuti dopo essere stata considerata clinicamente morta. In quel momento, tutti i supporti vitali erano stati disattivati ed era praticamente impossibile che ci fosse ancora vita in quel corpo. Ma allora, come è possibile che l’attività cerebrale funzionasse ancora alla perfezione? Gli scienziati hanno provato a fornire una risposta.

Il cervello non muore?

Per essere considerato clinicamente morto un soggetto non deve mostrare più attività cerebrale o cardiaca. Ma alcuni casi strani che si sono presentati negli ultimi anni stanno rendendo fragili tutte le fondamenta della scienza che riguardano quel filo sottile che divide la vita dalla morte. L’anno scorso, per esempio, i medici di un’unità di terapia intensiva canadese, si sono imbattuti in un caso che ancora oggi non sanno spiegare: dove aver disattivato il supporto vitale a un malato terminale, ormai giudicato morto, l’attività cerebrale ha continuano a funzionare per ben 10 minuti e 38 secondi. È importante sottolineare che i medici, poco prima avevano notato una totale assenza di polso e una mancanza di reattività a livello pupillare.

Un sonno profondo?

Gli scienziati si sono resi conto che, in seguito alla sua morte, il paziente ha registrato un’anomala attività cerebrale pressochè identica a quella che si verifica quando dormiamo profondamente. Vi era, cioè, una predominanza di onde delta. Il fenomeno è totalmente diverso da quello ritenuto normale, in cui si evidenziano quelle che vengono conosciute come le onde della morte. Oggi la scienza sa che può accadere il contrario, ovvero che il cuore può battere ancora un po’ dopo la morte cerebrale, ma il contrario non era mai stato evidenziato.

Onde persistenti

«In un paziente, singole raffiche di onda delta persistevano in seguito alla cessazione del ritmo cardiaco e della pressione arteriosa (ABP)», hanno dichiarato i ricercatori dell'Università del Western Ontario in Canada, in riferimento a un caso accaduto a marzo del 2017. In realtà, gli scienziati si sono resi conto del fatto che di quattro pazienti analizzati, nessuno mostrava le stesse registrazioni elettroencefalografiche. «C'era una differenza significativa nell'ampiezza EEG tra il periodo di 30 minuti prima e il periodo di 5 minuti dopo la cessazione di ABP per il gruppo». Un po’ come se ogni persona avesse il suo personale modo di morire.

Esperienza pre-morte?

E’ possibile che vi siano altri casi simili mai registrati con precisione, ma le teorie in merito si sprecano e già si parla di esperienze pre-morte. In realtà, nessuno studioso è ancora riuscito a comprendere cosa accada immediatamente prima e immediatamente dopo una morte (scientificamente) accertata. La medicina, infatti, non spiega ancora come sia possibile che un cervello funzioni anche in assenza di battito cardiaco. «È difficile stabilire una base fisiologica per questa attività EEG dato che si verifica dopo una prolungata perdita di circolazione», spiegano i ricercatori.

Cervello e cuore

Un altro studio, condotto nel 2011, ha mostrato come il cervello e il cuore non sempre agiscono in maniera sincronizzata quando si parla di morte. Decapitando alcuni topolini, per esempio, i ricercatori hanno notato che un minuto dopo la decapitazione sono state evidenziate delle onde anomale, suggerendo che il cervello e il cuore hanno diversi momenti di morire. «Sembra che l'onda massiccia che può essere registrata circa 1 minuto dopo la decapitazione rifletta il confine ultimo tra la vita e la morte», spiegano gli studiosi dell'Università Radboud. Tuttavia, è importante sottolineare che nei pazienti canadesi non è mai stato registrato niente di simile. Ma non solo: altri studi hanno dimostrato che migliaia di geni sono ancora attivi alcuni giorni dopo la morte. I risultati dello studio sono stati pubblicati sul The Canadian Journal of Neurological Sciences.

Una novità?

Ciò che è accaduto al paziente canadese potrebbe, in parte, essere spiegato da un altro studio condotto dai neurologi della Charité-Universitätsmedizin di Berlino e pubblicato su Annals of Neurology. Durante la ricerca, gli autori hanno monitorato il cervello di nove pazienti grazie all’uso di particolari elettrodi. Hanno quindi scoperto che anche dopo che il cuore ha smesso di battere, le cellule e i neuroni nel cervello continuavano a funzionare. La loro attività sembrava non cessare mai finché non sopraggiungeva la depressione diffusa, una condizione che si verifica solo alcuni minuti dopo che il cuore ha smesso di pompare sangue. La scoperta, a detta degli scienziati, potrebbe rendere possibile resuscitare il cervello anche 3-5 minuti dopo che il cuore ha smesso di battere.


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lunedì 22 ottobre 2018

I MISTERI DEL LAGO BAIKAL




Circondata di mistero, intrisa di leggende e abitata da creature misteriose questa superficie d’acqua si trova nella Siberia meridionale, tra la regione di Irkutsk Oblast e la repubblica di Buriazia. Comunemente chiamato “il Mare” o “il Vecchio Uomo”, il Baikal è conosciuto per i suoi svariati record. Questo lago siberiano è infatti la riserva d’acqua dolce più grande del mondo e rappresenta ben il 23 percento di acqua dolce presente sul pianeta Terra (escluse le calotte polari e i ghiacciai). Detiene anche il primato per la sua profondità presentando una depressione massima di 1600 metri. Inoltre la sua età geologica vi lascerà senza fiato: 25 milioni di anni portati benissimo. Le sue acque sono tra le più limpide al mondo e consentono una visibilità fino a 40 metri di profondità; un vero e proprio paradiso per migliaia di esseri viventi. Infatti, nonostante il clima proibitivo e i gelidi venti del Nord, il lago Baikal è uno dei laghi più ricchi di biodiversità al mondo ospitando più di 3000 specie tra piante e animali. Benché sia stato posto sotto la tutela dell’Unesco nel 1996 e faccia parte delle 7 meraviglie della Russia, il lago Baikal ha sfortunatamente risentito negli ultimi anni della civiltà e dello sviluppo. Il forte inquinamento sta infatti provocando la morte delle spugne, necessarie alla biofiltrazione, e minaccia la scomparsa di alcune specie animali. Nonostante la battaglia tra natura e civiltà, questa riserva d’acqua con i suoi 25 milioni di anni rimane di una bellezza mozzafiato soprattutto in inverno quando i venti del Nord provocano onde alte fino a 5 metri che si ghiacciano all’istante, creando giochi di movimento, di luci e trasparenze.


Lago Baikal: i misteri

Nel caso del lago Baikal, la potenza della natura incontrollata si rinforza intrecciandosi a leggende e circondandosi di misteri. Per cominciare, il folklore vuole che i laghi russi e il mare a nord della Russia siano infestati da creature aggressive e pericolose descritte come metà uomini e metà squali, gli highlander. A rafforzare la tradizione, alcune antiche credenze popolari e religiose narrano dell’esistenza del Pesce Drago, un mostro che si nasconderebbe in queste gelide, chiare acque siberiane. Il Baikal è uno dei luoghi più conosciuti al mondo per avvistamenti di strane luci nel cielo simili ad UFO, oggetti non identificati che ne sorvolano le acque. Nel 1982, 7 sommozzatori russi si avventurarono nelle profondità del lago per un’esercitazione militare. 3 di questi morirono durante l’immersione a causa di un’embolia per la mancata decompressione. I 4 sopravvissuti raccontarono in seguito di essersi imbattuti in esseri lunghissimi, di circa 3 metri, che non indossavano mute subacquee ma solo degli strani caschi in testa. Il lago Baikal sembra inoltre essere caratterizzato de zone anomale in cui le condizioni climatiche possono cambiare repentinamente e in cui la scomparsa di imbarcazioni diventa sempre più frequente. L’ultima misteriosa sparizione è quella del giugno 2011 quando una nave con un equipaggio di quattro esperti scomparve nel nulla senza lasciar traccia. Infine nell’ultimo ventennio si è studiato il fenomeno dei cerchi sul ghiaccio; veri e propri cerchi perfetti che appaiono in zone diverse del lago e in periodi differenti. Per quanto biologi ed esperti abbiano cercato di dare delle spiegazioni a queste bizzarre apparizioni, ancora non se ne conoscono le vere cause e origini. Per visitare il Baikal è consigliato arrivare in aereo (o in Transiberiana) fino ad Irkutsk, città fondata dai cosacchi nel 1661, caratteristica per le sue casette in legno con finestre colorate. Da lì si può tranquillamente affittare una macchina per continuare il viaggio fino al lago. È raccomandabile usare un veicolo alto da terra e dotato di quattro ruote motrici per affrontare serenamente le strade erose dal rigido tempo siberiano. Incontrerete strade semivuote e vi scorderete dello stress del traffico cittadino; le vie per raggiungere il Baikal sono poche e ben segnalate, quindi la traversata in macchina è più che consigliata.


Una volta arrivati a destinazione non fate prendervi dall’emozione gettandovi in acqua. Tenete bene a mente che è assolutamente vietato attraversare il lago senza i dovuti permessi e le relative precauzioni in quanto non è raro perdersi a causa di mancanza di riferimenti e assenza di segnale telefonico. Vi lascio immaginare quali ne sarebbero le conseguenze… Fate ben attenzione però, prima di partire, a procurarvi tutto il necessario per poter affrontare al meglio le proibitive condizioni climatiche siberiane. Prendete contatti e organizzate le tappe del vostro itinerario per poter godere appieno della vostra permanenza in Siberia. Informatevi su visti e documenti utili ma soprattutto non scordatevi di mettere in valigia la vostra migliore macchina fotografica. Chissà se sarete proprio voi i “fortunati” ad essere testimoni dell’esistenza del Pesce Drago o ancor meglio, ad avvistare qualche…UFO.

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giovedì 18 ottobre 2018

IL MISTERO DELLA MANTIDE RELIGIOSA



Una mantide religiosa è stata osservata pescare, per più notti di fila

Per cinque notti consecutive, un maschio adulto ha agguantato e divorato alcuni pesciolini d'acqua dolce, tornando ogni volta con precisione sul luogo di caccia. È la prima volta che si documenta questo comportamento in natura.

La fama di cacciatrici spietate accompagna da sempre le mantidi religiose: lascia quasi sconcertati il fatto che un insetto possa uccidere e consumare - oltre al maschio - piccoli topi, lucertole, serpenti, tartarughe, persino colibrì. Mai prima d'ora, però, le si era osservate pescare: a colmare questa lacuna hanno pensato due biologi e un entomologo, che hanno descritto la scoperta sul Journal of Orthoptera Research.

Un maschio di mantide gigante asiatica (Hierodula tenuidentata) lungo 5,6 cm è stato filmato e fotografato, a marzo 2017, mentre pescava alcuni guppy (Poecilia reticulata: un piccolo pesce d'acqua dolce) nello stagno di un giardino pensile di Karnataka, in India. Testimone della scena è stato il conservazionista Rajesh Puttaswamaiah, che ha coinvolto il collega Niyak Manjunath e l'italiano Roberto Battiston, entomologo ai Musei del Canal di Brenta, che ha coordinato lo studio.
 A sorprendere non sono tanto le dimensioni della preda, più piccola di altre vittime della mantide. Piuttosto, stupisce il fatto che l'animale sia tornato nello stesso luogo più volte, per cinque sere di seguito: «Come una volpe che caccia i polli di una fattoria», spiega Battiston. L'insetto ha sfruttato le ninfee come piattaforme di pesca e si è portato fino al centro del laghetto. Ha atteso che i pesci affiorassero e li ha afferrati ed uccisi. In cinque sere, ne ha consumati nove, quasi due per sessione di pesca. Il giardino era pieno di insetti volanti che la mantide avrebbe potuto catturare. La scelta dello stagno «sembra essere una precisa strategia di caccia, non una decisione casuale», chiarisce Battiston. Fino ad ora, le immagini di mantidi nutrite con pesciolini vivi erano frutto di situazioni forzate dall'uomo, e non di un'iniziativa spontanea dell'animale. Il fatto che il cacciatore si sia recato più volte nel luogo di pesca fa inoltre pensare possa essere capace di apprendimento complesso, la capacità cioè di usare vari elementi (come l'abbondanza di prede, la velocità di cattura, l'alto valore nutrizionale) per formulare un comportamento vantaggioso e ripeterlo in modo sistematico. Finora, sapevamo soltanto che le mantidi sanno apprendere da esperienze negative: evitano per esempio di gettarsi più volte su una preda che sanno essere amara. Infine, lasciano sconcertati le capacità visive dell'animale, noto per essere un predatore diurno: non solo la mantide ha cacciato di notte, ma anche attraverso una barriera visiva come l'acqua non sempre limpida di uno stagno. L'ipotesi è che la coda appariscente del guppy abbia ricordato all'insetto il guizzo di una preda volante. Tutte queste osservazioni riguardano tuttavia un singolo esemplare. Prima di estendere il discorso all'intera "categoria" occorrerà osservare altre mantidi in azione.




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lunedì 15 ottobre 2018

VERSO UNA CURA PER LA SLA?



Smascherate le cellule responsabili della SLA. Si potrà arrivare a una cura

Ricerca italiana individua e osserva per la prima volta le azioni delle molecole responsabili della SLA. Gli scienziati ritengono sia la via per arrivare a una cura della grave malattia.

I ricercatori dell’Istituto Italiano di Tecnologia e dell’Università La Sapienza di Roma hanno sviluppato una nuova tecnica non invasiva, al microscopio, grazie alla quale è stato possibile individuare e osservare come e perché gli aggregati di proteine alla base della SLA, la sclerosi laterale amiotrofica, si formano dentro le cellule nervose. L’eccezionale scoperta, che si è fregiata della pubblicazione sulla prestigiosa rivista scientifica Communications Biology, apre la strada a una possibile cura di questa devastante malattia e di cui a oggi non esiste cura.

La ricerca:

A coordinare il team di ricerca che ha sviluppato la procedura è stato il dottor Giuseppe Antonacci dell’IIT. La tecnica si basa su un’analisi eseguita attraverso un microscopio ottico ad altissimo contrasto, che permette di osservare strutture molecolari di dimensioni di molto inferiori a quelle che erano visibili fino a oggi. Per mezzo di questa tecnica, è stato possibile osservare le cellule danneggiate dalla SLA, i motoneuroni che trasportano il segnale del movimento dal cervello ai muscoli. Qui, gli scienziati, hanno identificato la proteina che sta dietro alla malattia – chiamata FUS – individuando le strutture in cui essa è attiva. Da questo si è poi arrivati a osservare che quando la proteina FUS è mutata, le strutture cellulari diventano più rigide e viscose.

I ‘colpevoli’ della malattia

Nelle cellule sono dunque stati trovati i ‘colpevoli’ della SLA. Sarebbero pertanto essi a far sì che nei motoneuroni dei pazienti con la SLA si formino degli aggregati presumibilmente tossici che portano alla morte di questo genere di cellule che sottendono al movimento. Il ruolo di questi aggregati tossici era fino a oggi sconosciuto e oggetto soltanto di ipotesi mai confermate.

Nuove diagnosi

Grazie alla scoperta dei ricercatori italiani potrà essere possibile fare nuove, più precise e mirate diagnosi. E, avendo in mano maggiori informazioni circa i meccanismi dannosi che portano alla morte dei motoneuroni, si potrà sperare in una cura che a oggi manca. Questa nuova tecnologia, «consentirà di studiare da una nuova prospettiva i granuli cellulari, che sembrano giocare un ruolo chiave nell’insorgenza di malattie neurodegenerative – sottolinea il dott. Alessandro Rosa, dell’Università La Sapienza – Si tratta del primo passo per programmare in futuro terapie farmacologiche più mirate contro questa malattia». Speriamo sia davvero così e che si possa dare una concreta speranza alle persone affette da questa terribile malattia.


PER APPROFONDIMENTI:






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