Non voglio e
non devo fare una presentazione di Italo Calvino. Sarebbe una grave mancanza di
rispetto ad un gigante della letteratura, ma soprattutto ad un grande uomo,
patriota, intellettuale davvero “democratico” e precursore dei tempi. Un
letterato che aveva previsto questo momento ed oltre…
Quindi confido
che tutti coloro i quali leggeranno questo post, lo conoscano non solo per
nome.
Diversamente, sono
sicuro che dopo aver letto le righe successive, andranno a “conoscerlo” e lo
ameranno.
MLR
“un paese che distrugge la sua scuola non lo
fa mai solo per soldi, perché le risorse mancano o i costi sono eccessivi. Un
paese che demolisce l’istruzione è già governato da quelli che dalla diffusione
del sapere hanno solo da perdere”.
Italo Calvino
Apologo sull’onestà nel paese dei
corrotti.
di: Italo Calvino
da Repubblica, 15 marzo
1980 e in “Romanzi e racconti, volume terzo, Racconti e apologhi sparsi”,
Meridiani, Mondadori.
“C’era un paese che si reggeva
sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non
fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma
questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno
di mezzi finanziari smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a
disporre di molti soldi non si è più capaci di concepire la vita in altro modo)
e questi mezzi si potevano avere solo illecitamente cioè chiedendoli a chi li
aveva, in cambio di favori illeciti. Ossia, chi poteva dar soldi in cambio di
favori in genere già aveva fatto questi soldi mediante favori ottenuti in
precedenza; per cui ne risultava un sistema economico in qualche modo circolare
e non privo d’una sua armonia.
Nel finanziarsi per via illecita,
ogni centro di potere non era sfiorato da alcun senso di colpa, perché per la
propria morale interna ciò che era fatto nell’interesse del gruppo era lecito;
anzi, benemerito: in quanto ogni gruppo identificava il proprio potere col bene
comune; l’illegalità formale quindi non escludeva una superiore legalità
sostanziale. Vero è che in ogni transizione illecita a favore di entità
collettive è usanza che una quota parte resti in mano di singoli individui,
come equa ricompensa delle indispensabili prestazioni di procacciamento e
mediazione: quindi l’illecito che per la morale interna del gruppo era lecito,
portava con se una frangia di illecito anche per quella morale. Ma a guardar
bene il privato che si trovava a intascare la sua tangente individuale sulla
tangente collettiva, era sicuro d’aver fatto agire il proprio tornaconto
individuale in favore del tornaconto collettivo, cioè poteva senza ipocrisia
convincersi che la sua condotta era non solo lecita ma benemerita.
Il paese aveva nello stesso tempo
anche un dispendioso bilancio ufficiale alimentato dalle imposte su ogni
attività lecita, e finanziava lecitamente tutti coloro che lecitamente o
illecitamente riuscivano a farsi finanziare. Perché in quel paese nessuno era
disposto non diciamo a fare bancarotta ma neppure a rimetterci di suo ( e non
si vede in nome di che cosa si sarebbe potuto pretendere che qualcuno ci
rimettesse) la finanza pubblica serviva a integrare lecitamente in nome del
bene comune i disavanzi delle attività che sempre in nome del bene comune
s’erano distinte per via illecita. La riscossione delle tasse che in altre
epoche e civiltà poteva ambire di far leva sul dovere civico, qui ritornava
alla sua schietta sostanza d’atto di forza (così come in certe località
all’esazione da parte dello stato s’aggiungeva quella d’organizzazioni gangsteristiche
o mafiose), atto di forza cui il contribuente sottostava per evitare guai
maggiori pur provando anziché il sollievo della coscienza a posto la sensazione
sgradevole d’una complicità passiva con la cattiva amministrazione della cosa
pubblica e con il privilegio delle attività illecite, normalmente esentate da
ogni imposta.
Di tanto in tanto, quando meno ce lo
si aspettava, un tribunale decideva d’applicare le leggi, provocando piccoli
terremoti in qualche centro di potere e anche arresti di persone che avevano
avuto fino a allora le loro ragioni per considerarsi impunibili. In quei casi
il sentimento dominante, anziché la soddisfazione per la rivincita della
giustizia, era il sospetto che si trattasse d’un regolamento di conti d’un
centro di potere contro un altro centro di potere. Cosicché era difficile
stabilire se le leggi fossero usabili ormai soltanto come armi tattiche e
strategiche nelle battaglie intestine tra interessi illeciti, oppure se i
tribunali per legittimare i loro compiti istituzionali dovessero accreditare
l’idea che anche loro erano dei centri di potere e d’interessi illeciti come
tutti gli altri. Naturalmente una tale situazione era propizia anche per le
associazioni a delinquere di tipo tradizionale che coi sequestri di persona e
gli svaligiamenti di banche (e tante altre attività più modeste fino allo
scippo in motoretta) s’inserivano come un elemento d’imprevedibilità nella
giostra dei miliardi, facendone deviare il flusso verso percorsi sotterranei,
da cui prima o poi certo riemergevano in mille forme inaspettate di finanza
lecita o illecita.
In opposizione al sistema
guadagnavano terreno le organizzazioni del terrore che, usando quegli stessi
metodi di finanziamento della tradizione fuorilegge, e con un ben dosato
stillicidio d’ammazzamenti distribuiti tra tutte le categorie di cittadini,
illustri e oscuri, si proponevano come l’unica alternativa globale al sistema.
Ma il loro vero effetto sul sistema era quello di rafforzarlo fino a diventarne
il puntello indispensabile, confermandone la convinzione d’essere il migliore
sistema possibile e di non dover cambiare in nulla. Così tutte le forme
d’illecito, da quelle più sornione a quelle più feroci si saldavano in un
sistema che aveva una sua stabilità e compattezza e coerenza e nel quale
moltissime persone potevano trovare il loro vantaggio pratico senza perdere il
vantaggio morale di sentirsi con la coscienza a posto. Avrebbero potuto dunque
dirsi unanimemente felici, gli abitanti
di quel paese, non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di
cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti.
Erano costoro onesti non per qualche
speciale ragione (non potevano richiamarsi a grandi principi, né patriottici né
sociali né religiosi, che non avevano più corso), erano onesti per abitudine
mentale, condizionamento caratteriale, tic nervoso. Insomma non potevano farci
niente se erano così, se le cose che stavano loro a cuore non erano
direttamente valutabili in denaro, se la loro testa funzionava sempre in base a
quei vieti meccanismi che collegano il guadagno col lavoro, la stima al merito,
la soddisfazione propria alla soddisfazione d’altre persone. In quel paese di
gente che si sentiva sempre con la coscienza a posto loro erano i soli a farsi
sempre degli scrupoli, a chiedersi ogni momento cosa avrebbero dovuto fare.
Sapevano che fare la morale agli altri, indignarsi, predicare la virtù sono
cose che trovano troppo facilmente l’approvazione di tutti, in buona o in
malafede. Il potere non lo trovavano abbastanza interessante per sognarlo per
sé (almeno quel potere che interessava agli altri); non si facevano illusioni
che in altri paesi non ci fossero le stesse magagne, anche se tenute più
nascoste; in una società migliore non speravano perché sapevano che il peggio è
sempre più probabile.
Dovevano rassegnarsi all’estinzione?
No, la loro consolazione era pensare che così come in margine a tutte le
società durante millenni s’era perpetuata una controsocietà di malandrini, di
tagliaborse, di ladruncoli, di gabbamondo, una controsocietà che non aveva mai
avuto nessuna pretesa di diventare la società, ma solo di sopravvivere nelle
pieghe della società dominante e affermare il proprio modo d’esistere a
dispetto dei principi consacrati, e per questo aveva dato di sé ( almeno se
vista non troppo da vicino) un’immagine libera e vitale, così la controsocietà
degli onesti forse sarebbe riuscita a persistere ancora per secoli, in margine
al costume corrente, senza altra pretesa che di vivere la propria diversità ,
di sentirsi dissimile da tutto il resto, e a questo modo magari avrebbe finito
per significare qualcosa d’essenziale per tutti, per essere immagine di
qualcosa che le parole non sanno più dire, di qualcosa che non è stato ancora
detto e ancora non sappiamo cos’è”.
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