di: Marco La Rosa
Cercare informazioni in rete su questo grande “scoglio”, più che vera e propria isola dell’arcipelago hawaiano, è praticamente un’impresa.
Per lo più, vi compaiono informazioni su un’omonima isola
caraibica paradiso di miliardari e coincidenza curiosa (o forse no ?) ,
diverse informazioni sui siti megalo-preistorici della valle del fiume Neckar,
affluente della riva destra del Reno.
Ciò detto, vado a spiegare perché parlo di mistero. Mistero,
ma forse non troppo, perché quest’isoletta è stata oggetto di studio ed è anche
menzionata da Hertha von Dechend nel “Mulino di Amleto”, saggio sul mito e
sulla struttura del tempo, scritto insieme al “grande” Giorgio de Santillana.
Il contesto ovviamente è quello dei “miti” polinesiani, su
cui Hertha von Dechend preparò una parte della sua tesi di abilitazione:
“il secondo capitolo
era dedicato a Tane/Kane polinesiano: ma avevo appena terminato di batterlo a
macchina che il mio disagio si mutò in disperazione , perché in realtà non
avevo compreso neppure una sillaba delle oltre diecimila pagine di miti
polinesiani che avevo letto. Ci si doveva forse sentire seriamente autorizzati
a supporre che i più grandi navigatori della terra tramandassero ai loro
primogeniti come sapere “sacro”, spesso da imparare a memoria e da non rivelare
ai non iniziati, un cumulo di piacevoli storielle? O non era piuttosto doveroso
porre il problema del significato di queste tradizioni?”.
Qui entra in gioco l’archeologo Kenneth Pike Emory, grande
studioso delle civiltà dell’emisfero australe, fu artefice insieme a Thor
Heyerdahl , con il progetto Kon-Tiki, della dimostrazione che gli antichi
marinai polinesiani erano in grado di solcare l’oceano pacifico senza problemi,
spostandosi non solo tra le isole, ma anche tra i continenti.
“Nella vaga speranza
di trovare una qualche indicazione, mi misi a leggere tutte le pubblicazioni di
cui potevo disporre sull’archeologia dell’arcipelago, e fu cosi che mi imbattei
nell’isola Necker, appartenente al gruppo delle Hawaii, ma distante 500 km dall’isola
più vicina. Su quest’isoletta a forma di amo, lunga circa un chilometro, non
crescono alberi, ma solo rade erbe e qualche cespuglio.
Dato che l’acqua dolce
è estremamente scarsa, l’isola è abitata non da uomini ma da migliaia di
uccelli. Ciò nonostante sull’isola Necker sono stati rinvenuti 33 luoghi di
culto megalitici. Oltre ad alcuni terrazzamenti e a figure umane di pietra.
Questi
stupefacenti ritrovamenti posero a Kenneth Emory, l’archeologo che se ne
occupò, i seguenti problemi: chi poteva
aver edificato questo complesso? E a quali altri complessi cultuali lo si
poteva maggiormente assimilare? (non tanto agli heiau delle grandi isole
hawaiane, quanto piuttosto ai marae rinvenuti all’interno di Tahiti e nelle
isole nord-occidentali dell’arcipelago Tuamotu). Non venne posto invece il
problema di trovare un motivo sufficiente a dar ragione di quel fenomenale
slancio edificatorio, per di più su un’isoletta praticamente inabitabile ed evidentemente
visitata ogni tanto: ma questa fu la naturale conseguenza di un principio
dominante, da me battezzato “complesso di Parsifal”: a costui infatti la madre
Herzeleide aveva insegnato fin da piccolo a non chiedere assolutamente mai “ perche?”.
Indubbiamente ci troviamo di fronte a grandi navigatori che
si spostavano disinvoltamente per tratte lunghissime, ed esportavano oltre al carico propriamente
commerciale, anche quello “culturale” e quindi “cultuale”. Ma per essere grandi
navigatori bisognava anche essere provetti “astronomi”.
“L’isola Necker si
trova quasi esattamente sul tropico del cancro. Questa circostanza mi spinse a
considerare quale fosse la situazione lungo il Tropico del Capricorno.
Vicinissime a questo si trovano le isole Tubuai e Raivavae. Ed entrambe le
isole sono parimenti costellate di resti di marae, oltre a ciò, l’isola Tubuai
svolge nella cosmogonia tahitiana un ruolo importante ed enigmatico: le braccia
tentacolari del Polpo – corrispondente polinesiano del rgvedico Vrta – che tenevano
saldamente uniti il cielo e la terra, dopo che questi fu ucciso da Tane, vennero
tagliate via da Maui, caddero e andarono a formare l’isola Tubuai. Esattamente
sulla linea dell’equatore non ci sono isole, ma le più vicine (Fanning, Malden,
Christmas) sono ricche di resti di marae. Era
(ed è ) come se i polinesiani avessero segnato l’orbita percorsa dal
sole con il massimo di precisione consentita dalle condizioni geografiche”.
Ma non solo, osservando meglio la mitologia polinesiana
troviamo anche un eroe in viaggio da poco più di due anni, che ogni tanto
veniva costretto ad invertire il cammino, cadeva nello spazio e deviava dal suo
giusto corso. Cosa rappresenta?
“Non c’erano molte
possibilità di soluzione: i racconti contenevano parecchi indizi del fatto che
in molti dei e in molti eroi si dovevano in realtà riconoscere dei pianeti; nel
caso particolare dello hawaiano Aukele-nui-a-iku il paneta era Marte”.
Da dove proveniva tutto questo bagaglio di conoscenza?
“Poiché, nonostante l’immensa
stima per questi maestri della navigazione, non potevo credere che i
Polinesiani avessero escogitato da soli la tecnica che consentiva loro di calcolare i movimenti dei corpi
celesti, come non potevano aver inventato
da soli la suddivisione del cielo in “tre vie”, ritornai alla “fonte”
alla quale avevano attinto tutte le culture appartenenti alla cerchia delle “civiltà superiori”: L’Oriente
antico; mi misi cioè a consultare un testo di F.X.Kugler, dove l’autore afferma
tra l’altro che a partire dal VII secolo a.C. Babilonia conobbe “un’astronomia
scientifica”, cioè un’astronomia posizionale, mentre contemporaneamente i testi
non mostravano la benché minima “coloritura” astrologica o mitologica”…completamente
diverse prima del VII secolo a.C. invece, dove tutta l’astronomia era
impregnata di rappresentazioni mitologiche. In altre parole prima, gli
astronomi comunicavano in “mitico”. Il percorso ulteriore si delineò poi quasi
da sé, tanto che in Platone avevo trovato la seconda istanza di controllo, la
prima restando quella dell’astronomia mesopotamica”.
Si apre sempre di più la porta della comprensione su quell’umanità
mitizzata che, invece, era davvero depositaria di incredibili capacità e conoscenze.
E’ proprio vero, la storia è ancora in gran parte da riscrivere.
Bibliografia:
IL MULINO DI AMLETO –
G. De Santillana & H.von Dechend – Adelphi 2000
STERKUNDE UND
STERNDIENST IN BABEL – Franz Xaver Kugler – Aschendorff 1907
2 commenti:
Grazie Marco.
Grazie a te !
Ho recuperato dal cassetto della mia memoria questo post perchè parlando con l'amico Emilio Spedicato, possiamo dire di aver recuperato un altro "tassello", tra gli innumerevoli, che si incastra perfettamente in quell'immenso puzzle che è l'astronomia antica legata alle religioni. Gli studi storico - astronomici di Spedicato e Barbetta, a questo punto, diventano fondamentali.
MLR
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