IL RISVEGLIO DEL CADUCEO DORMIENTE: la vera genesi dell'Homo sapiens

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Con questo libro Marco La Rosa ha vinto il
PREMIO NAZIONALE CRONACHE DEL MISTERO
ALTIPIANI DI ARCINAZZO 2014
* MISTERI DELLA STORIA *

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LA NUOVA CONOSCENZA

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GdM

sabato 9 marzo 2013

IL MISTERO MEGALITICO DELL’ISOLA "NECKER"


di:  Marco La Rosa


Cercare informazioni in rete su questo grande “scoglio”, più che vera e propria isola dell’arcipelago hawaiano, è praticamente un’impresa.
Per lo più, vi compaiono informazioni su un’omonima isola caraibica paradiso di miliardari e coincidenza curiosa (o forse no ?) , diverse informazioni sui siti megalo-preistorici della valle del fiume Neckar, affluente della riva destra del Reno.
Ciò detto, vado a spiegare perché parlo di mistero. Mistero, ma forse non troppo, perché quest’isoletta è stata oggetto di studio ed è anche menzionata da Hertha von Dechend nel “Mulino di Amleto”, saggio sul mito e sulla struttura del tempo, scritto insieme al “grande” Giorgio de Santillana.
Il contesto ovviamente è quello dei “miti” polinesiani, su cui Hertha von Dechend preparò una parte della sua tesi di abilitazione:

“il secondo capitolo era dedicato a Tane/Kane polinesiano: ma avevo appena terminato di batterlo a macchina che il mio disagio si mutò in disperazione , perché in realtà non avevo compreso neppure una sillaba delle oltre diecimila pagine di miti polinesiani che avevo letto. Ci si doveva forse sentire seriamente autorizzati a supporre che i più grandi navigatori della terra tramandassero ai loro primogeniti come sapere “sacro”, spesso da imparare a memoria e da non rivelare ai non iniziati, un cumulo di piacevoli storielle? O non era piuttosto doveroso porre il problema del significato di queste tradizioni?”.

Qui entra in gioco l’archeologo Kenneth Pike Emory, grande studioso delle civiltà dell’emisfero australe, fu artefice insieme a Thor Heyerdahl , con il progetto Kon-Tiki, della dimostrazione che gli antichi marinai polinesiani erano in grado di solcare l’oceano pacifico senza problemi, spostandosi non solo tra le isole, ma anche tra i continenti.

“Nella vaga speranza di trovare una qualche indicazione, mi misi a leggere tutte le pubblicazioni di cui potevo disporre sull’archeologia dell’arcipelago, e fu cosi che mi imbattei nell’isola Necker, appartenente al gruppo delle Hawaii, ma distante 500 km dall’isola più vicina. Su quest’isoletta a forma di amo, lunga circa un chilometro, non crescono alberi, ma solo rade erbe e qualche cespuglio.


 Dato che l’acqua dolce è estremamente scarsa, l’isola è abitata non da uomini ma da migliaia di uccelli. Ciò nonostante sull’isola Necker sono stati rinvenuti 33 luoghi di culto megalitici. Oltre ad alcuni terrazzamenti e a figure umane di pietra.

 Questi stupefacenti ritrovamenti posero a Kenneth Emory, l’archeologo che se ne occupò, i seguenti  problemi: chi poteva aver edificato questo complesso? E a quali altri complessi cultuali lo si poteva maggiormente assimilare? (non tanto agli heiau delle grandi isole hawaiane, quanto piuttosto ai marae rinvenuti all’interno di Tahiti e nelle isole nord-occidentali dell’arcipelago Tuamotu). Non venne posto invece il problema di trovare un motivo sufficiente a dar ragione di quel fenomenale slancio edificatorio, per di più su un’isoletta praticamente inabitabile ed evidentemente visitata ogni tanto: ma questa fu la naturale conseguenza di un principio dominante, da me battezzato “complesso di Parsifal”: a costui infatti la madre Herzeleide aveva insegnato fin da piccolo a non chiedere assolutamente mai  “ perche?”.


Indubbiamente ci troviamo di fronte a grandi navigatori che si spostavano disinvoltamente per tratte lunghissime,  ed esportavano oltre al carico propriamente commerciale, anche quello “culturale” e quindi “cultuale”. Ma per essere grandi navigatori bisognava anche essere provetti “astronomi”.

“L’isola Necker si trova quasi esattamente sul tropico del cancro. Questa circostanza mi spinse a considerare quale fosse la situazione lungo il Tropico del Capricorno. Vicinissime a questo si trovano le isole Tubuai e Raivavae. Ed entrambe le isole sono parimenti costellate di resti di marae, oltre a ciò, l’isola Tubuai svolge nella cosmogonia tahitiana un ruolo importante ed enigmatico: le braccia tentacolari del Polpo – corrispondente polinesiano del rgvedico Vrta – che tenevano saldamente uniti il cielo e la terra, dopo che questi fu ucciso da Tane, vennero tagliate via da Maui, caddero e andarono a formare l’isola Tubuai. Esattamente sulla linea dell’equatore non ci sono isole, ma le più vicine (Fanning, Malden, Christmas) sono ricche di resti di marae. Era  (ed è ) come se i polinesiani avessero segnato l’orbita percorsa dal sole con il massimo di precisione consentita dalle condizioni geografiche”.

Ma non solo, osservando meglio la mitologia polinesiana troviamo anche un eroe in viaggio da poco più di due anni, che ogni tanto veniva costretto ad invertire il cammino, cadeva nello spazio e deviava dal suo giusto corso.  Cosa rappresenta?

“Non c’erano molte possibilità di soluzione: i racconti contenevano parecchi indizi del fatto che in molti dei e in molti eroi si dovevano in realtà riconoscere dei pianeti; nel caso particolare dello hawaiano Aukele-nui-a-iku il paneta era Marte”.

Da dove proveniva tutto questo bagaglio di conoscenza?

“Poiché, nonostante l’immensa stima per questi maestri della navigazione, non potevo credere che i Polinesiani avessero escogitato da soli la tecnica che consentiva  loro di calcolare i movimenti dei corpi celesti, come non potevano aver inventato  da soli la suddivisione del cielo in “tre vie”, ritornai alla “fonte” alla quale avevano attinto tutte le culture appartenenti  alla cerchia delle “civiltà superiori”: L’Oriente antico; mi misi cioè a consultare un testo di F.X.Kugler, dove l’autore afferma tra l’altro che a partire dal VII secolo a.C. Babilonia conobbe “un’astronomia scientifica”, cioè un’astronomia posizionale, mentre contemporaneamente i testi non mostravano la benché minima “coloritura” astrologica o mitologica”…completamente diverse prima del VII secolo a.C. invece, dove tutta l’astronomia era impregnata di rappresentazioni mitologiche. In altre parole prima, gli astronomi comunicavano in “mitico”. Il percorso ulteriore si delineò poi quasi da sé, tanto che in Platone avevo trovato la seconda istanza di controllo, la prima restando quella dell’astronomia mesopotamica”.

Si apre sempre di più la porta della comprensione su quell’umanità mitizzata che, invece, era davvero depositaria di incredibili capacità e conoscenze.
E’ proprio vero, la storia è ancora in gran parte da riscrivere.


Bibliografia:

IL MULINO DI AMLETO – G. De Santillana & H.von Dechend – Adelphi 2000

STERKUNDE UND STERNDIENST IN BABEL – Franz Xaver Kugler – Aschendorff  1907


2 commenti:

Unknown ha detto...

Grazie Marco.

Marco La Rosa ha detto...

Grazie a te !

Ho recuperato dal cassetto della mia memoria questo post perchè parlando con l'amico Emilio Spedicato, possiamo dire di aver recuperato un altro "tassello", tra gli innumerevoli, che si incastra perfettamente in quell'immenso puzzle che è l'astronomia antica legata alle religioni. Gli studi storico - astronomici di Spedicato e Barbetta, a questo punto, diventano fondamentali.

MLR