DA:
Raptor è il motore appositamente
sviluppato dall'azienda californiana per il progetto Starship. Come funziona?
Potrebbe rivelarsi la chiave di volta per l'esplorazione umana di Marte?
A Maggio 2020, il progetto
Starship di SpaceX progredisce rapidamente. Arrivati ormai al quarto prototipo,
un nome è divenuto via via più comune tra gli appassionati e sui siti
specializzati: Raptor.
Sebbene a molti queste sei
lettere possano riportare alla mente un professore di Hogwarts, in ambito
aerospaziale significano una cosa e una sola: il motore sviluppato da SpaceX
per Starship.
L’obiettivo di questo
approfondimento è fornire una trattazione semplificata, ma non semplicistica,
del principio di funzionamento del motore Raptor e, in generale, dei motori
spaziali. Dettagliare le caratteristiche di ogni componente richiederebbe
probabilmente un intero libro, ma soprattutto trascenderebbe l’obiettivo di
questo articolo e di AstroSpace in generale: la divulgazione. In sostanza: se
siete alla ricerca di una risposta alla domanda “come funziona il Raptor?”
siete nel posto giusto.
Il principio fondamentale:
Tutti i motori spaziali si basano
sul medesimo principio, espresso dalla terza legge di Newton.
Ad ogni azione corrisponde una
reazione uguale e contraria.
Un motore e la struttura
circostante che costituisce il razzo, riflettono esattamente questo principio:
un getto orientabile nella direzione desiderata.
Il getto è composto da gas a
temperature e pressioni elevatissime. Questi vengono indirizzati nell’ugello,
la parte inferiore del motore dalla caratteristica forma a campana, dove la
differenza di pressione tra l’interno e l’esterno genera una forza in direzione
assiale: la spinta. Quando un razzo si innalza dalla rampa di lancio,
all’azione dei gas caldi dentro l’ugello del motore corrisponde una reazione
uguale e contraria che lo spinge verso l’alto. Da dove provengono i gas caldi?
La risposta va cercata nelle viscere del motore.
Rocket Engine
L’origine dei gas caldi:
Motori come il Raptor di
Starship, l’F1 del Saturn V e l’RS-25 dello Space Shuttle, generano spinta
mediante l’espansione in un ugello di un’immensa quantità di gas caldi ad alta
pressione. Questi gas trovano origine in camera di combustione, mediante
l’accensione di combustibile ed ossidante ad alta pressione in arrivo dalle turbopompe.
Le turbopompe sono
sostanzialmente dei compressori per liquidi, in grado di accrescere la
pressione del fluido che le attraversa. Nei motori spaziali sono fondamentali e
ne sono necessarie due: una per il combustibile, l’altra per l’ossidante. Hanno
però bisogno di un’enorme quantità di energia, che il motore deve essere in
grado di produrre autonomamente.
I metodi di alimentazione delle
turbopompe sono noti come cicli, e ne esistono di due tipi: cicli aperti e
cicli chiusi.
Open Cycle:
Schema di un Open Cycle, con il
preburner e relativo scarico in rosso. Credits: Everyday Astronaut
Procediamo per gradi e partiamo
dai primi, i più semplici. In un ciclo aperto, non tutto il propellente entra
in camera di combustione e contribuisce alla spinta. Per alimentare le
turbopompe, si rende infatti necessario sacrificare piccole parti di
combustibile ed ossidante, bruciate in un apposito componente – il preburner –
e successivamente espulse. Nel dettaglio, i gas caldi derivanti dal preburner
muovono una turbina sul cui albero sono presenti anche le turbopompe.
La diminuzione di efficienza
viene ripagata da una relativa semplicità costruttiva, in certi casi
preferibile. Due esempi sono i motori Merlin, montati da SpaceX sui Falcon 9, e
gli F1 adottati per il Saturn V.
Motore Merlin:
Un motore Merlin in fase di test.
Il fumo nero a destra è lo scarico del preburner. Credits: SpaceX
Per ovviare alla bassa efficienza
del meccanismo appena descritto, negli anni sono stati progettati, testati e
raffinati i motori a ciclo chiuso. Qui, al fine di incrementare spinta ed
efficienza, quanto fuoriesce dal preburner non viene espulso, bensì recuperato
e iniettato in camera di combustione, dove subìsce un secondo ciclo di
combustione.
Motori di questo tipo, come i
BE-4 del New Glenn o gli RS-25 dello Space Shuttle, si dicono “a combustione
stadiata”.
Full Flow Staged Combustion Cycle:
Schema di un Full Flow Staged
Combustion Cycle. l due preburner del combustibile, in arancio, e
dell’ossidante, in viola, scaricano entrambi in camera di combustione. Credits:
Everyday Astronaut
Se pensate che SpaceX si sia
accontentata di progettare, assemblare, testare e far volare un “semplice”
motore a combustione stadiata, vi sbagliate.
L’azienda californiana ha portato
questa filosofia all’ennesima potenza, sfruttando un ciclo chiuso in cui la
totalità del propellente passa attraverso due preburner: uno per il
combustibile, l’altro per l’ossidante.
Il vantaggio? Un’efficienza
ancora superiore, al prezzo di una mostruosa complessità.
Nel dettaglio, il preburner che
muove la turbopompa di ossidante opera con una miscela ricca di ossidante,
mentre l’altro utilizza una miscela arricchita di combustibile. Il primo è
mostrato in arancione nell’animazione sopra, il secondo in viola. Motori di
questo tipo prendono il nome di Full Flow Staged Combustion, o FFSC, e sono
considerati il Sacro Graal della propulsione spaziale. Basti pensare che in
tutta la storia ne sono stati costruiti solo tre modelli, e l’unico a volare è
stato il Raptor.
StarHopper, in occasione dei due
“saltelli” effettuati la scorsa estate, ha infatti permesso a SpaceX di
appropriarsi del titolo di “primo utilizzatore di un motore FFSC”.
Quindi, alla luce di quanto
detto, possiamo affermare il Raptor è il miglior motore mai costruito? Dipende,
in senso assoluto no, vediamo perché.
Un Raptor costruito attorno al
razzo, e viceversa:
Ora che il funzionamento di
massima è stato descritto, è giunto il momento dei numeri.
L’attuale versione del Raptor è
in grado di generare circa 200 tonnellate di spinta, vale a dire circa il
doppio di un Merlin e più o meno quanto un motore dello Space Shuttle.
Tanto? Poco? Il giusto: un valore
del genere consente di equipaggiare Starship con un numero adeguato di motori,
tre per il volo atmosferico e tre per lo spazio. Queste due tipologie
differiscono principalmente per le dimensioni dell’ugello: quelli ottimizzati
per lo spazio hanno un ugello molto più grande, in grado di estrarre dai gas
ogni briciolo di spinta e di abbassare la loro pressione fino quasi al vuoto
dello spazio esterno. Impossibile da ottenere in atmosfera. Un elevato numero
di motori sarebbe difficile da controllare, basti pensare ai grattacapi che i
ventisette Merlin del Falcon Heavy hanno provocato agli ingegneri di SpaceX.
Pochi motori, invece, porrebbero dei problemi di affidabilità. Un guasto,
magari in fase di rientro atmosferico su Marte, avrebbe conseguenze
catastrofiche. Qualcosa di poco auspicabile, quando ci si trova a qualche
decina di milioni di kilometri dalla Terra.
C’è però un argomento che,
finora, abbiamo trattato solo in maniera generica: il propellente.
Il Raptor è alimentato da una
miscela nota come METHALOX: metano ed ossigeno liquidi. Una scelta alquanto
insolita per un motore spaziale, ma anche in questo caso, SpaceX non ha
semplicemente pescato ad occhi chiusi da una boccia di vetro.
Le ragioni che si celano dietro
questa scelta sono molteplici, ma per comprenderle dobbiamo introdurre i suoi
avversari: il kerosene, anche noto come RP-1 ed usato sul Falcon 9, e
l’idrogeno liquido, adottato ad esempio per lo Space Shuttle.
Per una combustione ottimale,
combustibile ed ossidante vanno miscelati nelle giuste quantità, come
ingredienti di una ricetta. Questo rapporto, naturalmente, si rifllette sulle
dimensioni dei serbatoi, che occupano la stragrande maggioranza del volume di
un razzo.
Tramite rapidi conti si scopre
che, se si ricorre alla formula RP-1/LOX, il serbatoio del kerosene dovrà avere
un volume pari alla metà di quello dell’ossigeno, o LOX. Nel caso della miscela
HYDROLOX, il volume di idrogeno sarà sei volte quello dell’ossigeno. E per il
metano? Per ogni litro di ossigeno occorrono 0.73 litri di metano.
Ciò significa che Starship potrà
affidarsi a due serbatoi di dimensioni quasi identiche, massimizzando dunque la
capacità di carico. Inoltre, il fatto che metano ed ossigeno siano liquidi a
temperature molto simili e relativamente poco basse (stiamo comunque parlando
di 150 gradi sotto zero), pone molti meno problemi di isolamento, che ad
esempio affliggevano lo Space Shuttle. Questo è un vantaggio non trascurabile
nel caso di viaggi interplanetari.
Raptor_Engine:
Un Raptor immortalato poco prima
di essere montato sul prototipo SN4 di Starship. Credts: BocaChicaGal
Veniamo ora al discorso
efficienza, tanto propagandato prima. Occorre innanzitutto distinguere due tipi
di efficienza. Il primo è quello trattato in precedenza: l’efficienza del
ciclo. In questo caso non ci sono appelli, il Full Flow Staged Combustion vince
a mani basse.
Vi è però un altro tipo di
efficienza, che riguarda il propellente usato, il cosiddetto impulso specifico.
Senza addentrarci troppo nei tecnicismi, vi basti sapere che è l’equivalente
dei kilometri al litro che un’autovettura è in grado di percorrere; per i
motori spaziali è espresso in secondi. Qui il vincitore assoluto è il motore
dello Shuttle, forte del fatto che l’idrogeno liquido è il miglior combustibile
esistente. Eppure, come abbiamo appena visto, si porta dietro non pochi
grattacapi ingegneristici.
Ultimo, ma non meno importante:
la produzione. Musk non ha mai nascosto che il fine ultimo di SpaceX è la
conquista di Marte, e Starship sarà il mezzo che, sperabilmente, lo permetterà.
Il Pianeta Rosso non è però dietro l’angolo: il viaggio di andata è lungo e
costoso in termini di propellente. E per tornare a casa?
Il piano di Musk è fattibile solo
a patto di essere in grado di rifornire Starship su Marte. Non sono stati
svelati molti dettagli a riguardo, ma non dubitiamo che orde di ingegneri e
chimici stiano affrontando il problema al quartier generale di SpaceX. L’intero
processo si basa sulla reazione di Sabatier, che partendo da anidride carbonica
e idrogeno produce metano e acqua.
L’anidride carbonica costituisce
il 95% dell’atmosfera di Marte, mentre l’acqua arriverebbe dai depositi
glaciali del sottosuolo. Facile a dirsi, molto difficile da realizzare su un
altro corpo celeste, ma diamo per certo che anche in questa sfida SpaceX
butterà tutta se stessa.
Per quanto tutt’altro che facile,
produrre metano e ossigeno su Marte è di gran lunga la soluzione più sensata.
L’idrogeno presenterebbe enormi problematiche di stoccaggio, mentre il kerosene
richiederebbe un’intera raffineria.
Il giusto compromesso, sotto ogni
aspetto:
Tornando alla domanda di prima,
il Raptor non è il miglior motore mai costruito. Non è il più potente, non è
nemmeno quello che utilizza al meglio il propellente a disposizione. Però
svolge egregiamente il proprio compito, ed incorpora i migliori compromessi,
che gli permetteranno lunghe permanenze nello spazio o su altri corpi celesti,
oltre alla possibilità di essere riutilizzato.
SpaceX non aveva bisogno di un
motore potente, ma di un oggetto affidabile, riutilizzabile e in grado di
essere rifornito facilmente. Aveva bisogno di un motore come il Raptor, ma
nulla di simile esisteva, nessuno era mai nemmeno stato in grado di farlo volare.
Ci sono voluti sei anni, hanno sbagliato, riprovato e sbagliato ancora, ma ora
il Raptor è realtà.
Solo il tempo ci dirà se dovremo
ringraziare questa tonnellata di metallo per averci permesso di diventare una
civiltà interplanetaria.
DA:
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