DA: DOTT. GIUSEPPE
COTELLESSA (ENEA)
Trasparenza della ricerca: a che punto siamo?
http://www.scienzainrete.it/contenuto/articolo/vittorio-bertele-guido-bertolini-silvio-garattini/trasparenza-della-ricerca-che
L’articolo di Sergio Harari sul Corriere della Sera del 22
dicembre 2013 sulla trasparenza nella ricerca scientifica è una buona occasione
per riflettere su uno degli argomenti più importanti che attraversa oggi il
dibattito scientifico internazionale. Harari ha salutato con entusiasmo la
notizia secondo cui una grande multinazionale del farmaco, GlaxoSmithKline
(GSK), avrebbe deciso di mettere tutti i dati dei suoi studi clinici (nessuno
escluso) a disposizione di chiunque avesse desiderato condurre su di essi nuove
analisi e approfondimenti, previa naturalmente l’approvazione di un comitato
scientifico indipendente. Condividiamo pienamente l’entusiasmo di Harari.
Una simile iniziativa rappresenterebbe una svolta
significativa non solo per il progresso della medicina ma anche per la sua
stessa credibilità. Ma perché un’azione così semplice avrebbe un effetto tanto
importante?
Marcia Angell, la prima donna a ricoprire il ruolo di
direttore responsabile del New England Journal of Medicine, una delle più
prestigiose riviste medico-scientifiche al mondo, così si pronunciava nel 2009
in un articolo di giornale: “Semplicemente non è più possibile credere a gran
parte della ricerca clinica pubblicata, o fare affidamento sul giudizio di
medici stimati o di linee guida autorevoli. Non traggo alcun piacere da questa
conclusione, che ho elaborato lentamente e controvoglia nel corso dei due
decenni in cui ho lavorato come editor al New England Journal of Medicine.”
Questo clamoroso atto di sfiducia, ormai sempre più
condiviso non solo nel mondo scientifico ma addirittura fra la gente comune, è
il risultato dei numerosissimi scandali, più o meno fragorosi, che hanno
costellato la storia recente e meno recente della ricerca clinica. Abbiamo
infatti troppe volte scoperto che dietro la riservatezza delle informazioni
scientifiche sullo sviluppo di farmaci e presidi medici, concessa per tutelare
i giusti interessi commerciali di chi ha investito in ricerca e innovazione per
la tutela e la promozione della salute, si sono nascoste truffe, frodi e
addirittura reati gravi. Si va dall’occultamento di seri effetti collaterali
(anche mortali) dei farmaci, alla modifica fraudolenta dei dati a favore del
proprio prodotto, per citare solo i più comuni.
Sono molte le multinazionali del farmaco che si sono
macchiate di questo tipo di azioni. Contrastare una simile corruttela è
purtroppo impresa ardua. Sicuramente la via giudiziaria si è rivelata del tutto
inefficace. Da un lato c’è da pensare che solo una minima parte delle frodi
venga portata alla luce.
Dall’altro, anche quando ciò accade, le super multe
comminate non hanno alcun peso per chi le riceve.
Il New York Times ha riportato tempo fa come la multa record
che proprio la (apparentemente) virtuosa GSK ha accettato di pagare poco più di
un anno fa (3 miliardi di dollari!) per aver occultato informazioni su
importanti effetti avversi di alcuni farmaci, rappresenti meno del 10% del
fatturato di quegli stessi farmaci, nel periodo contestato. Una cifra
derubricata fra i “costi d’impresa”.
Di fatto, l’unico modo per ostacolare questi comportamenti è
quello di imporre trasparenza e aumentare il controllo delle informazioni. Non
parliamo naturalmente di segreti industriali, ma dei dati clinici degli studi.
Un primo passo in questa direzione è stato fatto qualche
anno fa dal comitato internazionale delle riviste medico-scientifiche (ICMJE),
che ha obbligato alla registrazione pubblica di tutti i protocolli di studio,
per poterne poi pubblicare i risultati. Se questo ha liquidato d’un colpo
l’inveterata usanza di insabbiare interi studi che avessero dato risultati
contrari alle aspettative o alle convenienze, non ha però intaccato l’altra
via, in qualche modo ancor più pericolosa, della frode scientifica:
l’occultamento o la modifica di una parte selezionata dei risultati. Ecco
allora che l’iniziativa di rendere pubblici i dati degli studi clinici diventa
l’ultimo baluardo a difesa sia della scienza sia dell’altruismo dei malati che,
come ricordava giustamente Harari, scelgono di partecipare a nuovi studi,
rendendo così possibile l’avanzamento delle conoscenze per tutti.
Ci tocca tuttavia, purtroppo, smorzare un poco gli
entusiasmi. Proprio pochi mesi dopo la dichiarazione da parte di GSK di mettere
a disposizione i dati dei suoi studi a chiunque ne facesse ragionevole
richiesta, la stessa GSK si è inspiegabilmente comportata in modo
diametralmente diverso.
Come Istituto “Mario Negri” eravamo parte di un consorzio
europeo vincitore di un bando comunitario per la realizzazione di una
collaborazione pubblico-privato per la ricerca nel campo dei nuovi antibiotici.
La controparte privata era per l’appunto GSK e l’obiettivo del progetto,
finanziato dalla commissione europea per più di 100 milioni di Euro (!), era la
realizzazione di 4 studi clinici su un antibiotico della stessa GSK. Fin da
subito la collaborazione si è dimostrata difficile. Anzitutto, quando abbiamo
sollevato dubbi su alcune scelte relative ai protocolli degli studi (come ad
esempio la scelta del farmaco di controllo e della dimensione del campione), si
è capito che non vi era alcuna disponibilità alla discussione. Ma lo scoglio
più grosso, su cui si è infranta la possibilità di una nostra partecipazione al
progetto, è stato proprio quello della trasparenza. Nel complesso contratto di
collaborazione redatto da GSK era previsto che nessun partner accademico
potesse avere libero accesso ai dati dei pazienti e che in ogni caso nessuno
avrebbe potuto pubblicare alcunché senza una previa autorizzazione da parte
dell’azienda.
A nulla sono serviti i numerosi tentativi di mediazione, che
garantissero almeno l’accesso ai dati di tutti i pazienti da parte dei centri
che avevano contribuito a produrli, e la possibilità di pubblicare i risultati
di analisi indipendenti, neppure dopo un embargo di due anni a favore di GSK.
Così, rinunciando a un importante finanziamento pubblico,
l’Istituto “Mario Negri” è uscito da un consorzio che non dava alcuna garanzia
di tutelare a dovere la necessaria trasparenza scientifica, e con essa
l’impegno dei pazienti che avrebbero accettato di parteciparvi. Rimangono due
grandi rammarici e un interrogativo.
Da un lato l’atteggiamento pilatesco della Commissione
Europea che, a fronte di un contributo economico davvero enorme, non si è
preoccupata di stabilire delle garanzie minime di tutela dell’interesse
pubblico. Da un altro lato l’incapacità da parte dei vari istituti accademici
europei di formare un fronte compatto a difesa dell’interesse della scienza.
L’interrogativo si riferisce invece al comportamento di GSK. Nessuno si aspetta
che un’azienda che ha il dichiarato obiettivo di fare profitto sia
particolarmente sensibile all’interesse pubblico o a quello scientifico.
Ma che bisogno c’era di dichiarare pubblicamente una
disponibilità, alla prova dei fatti fasulla?
Si potrebbe pensare che ci troviamo di fronte all’ennesima
nuova forma di pubblico raggiro. Tuttavia vi sono anche chiari segnali
positivi, che provengono da una parte importante del mondo scientifico e indicano
come la reale disponibilità pubblica dei dati degli studi clinici possa
diventare nel prossimo futuro un passaggio obbligato per chi fa ricerca.
Dobbiamo tutti impegnarci affinché questo obiettivo venga raggiunto nel più
breve tempo possibile.
E anche l’industria del farmaco, GSK compresa, dovrà alla
fine adeguarsi sul serio.
VITTORIO BERTELE', GUIDO BERTOLINI, SILVIO GARATTINI
17 gennaio, 2014
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