IL “GIORNO DELLA
MEMORIA”
VOLUTAMENTE NON HO POSTATO NULLA IL GIORNO 27. IN COMPENSO
HO LETTO MOLTO DI COLORO CHE NE HANNO SCRITTO. HO QUINDI CONSEGUITO UN
VANTAGGIO IN TERMINI D' ISPIRAZIONE, SE MAI CE NE FOSSE STATO BISOGNO.
E’ STATO UN BENE PERCHE’ LE RIFLESSIONI CHE MI HA SUGGERITO
IL CARO AMICO MIGUEL MI HANNO PORTATO ANCORA PIU’ IN PROFONDITA’. MI HANNO
PERMESSO DI ASSIMILARE QUESTO GIORNO NEL MIO ANIMO, COME UN TATUAGGIO
INDELEBILE E’ ASSIMILATO DALLA PELLE, COSI’ SEI COSTRETTO A RICORDARLO TUTTI I
GIORNI. E’ SUCCESSO ORA E NON PRIMA, PERCHE’ C’E’ UN MOMENTO ESATTO PER OGNI
COSA.
QUANDO HO LETTO LE PAROLE DI LIZZIE DORON: “Tuttavia si pone la domanda: come rendere
costruttivo, sensato, attuale il giorno della memoria? Non ho una risposta a
questo, ma solo alcuni pensieri.
Il primo è lo studio.
Al ricordo, alla cerimonia, alla commozione deve essere sempre fatto precedere
uno studio, poiché non c'è niente di più vacuo e transitorio di una
celebrazione emotiva priva di una profonda conoscenza e comprensione della
Storia. Nessuno sviluppo della memoria è possibile senza conoscenza.
Credo poi che oggi si
debba trovare il coraggio e la saggezza per accostare al ricordo della Shoah lo
studio e la presa di coscienza di eventi contemporanei che toccano il tema dei
diritti dell'uomo, delle privazioni, della povertà, ogni tema che veda
l'umanità soccombere in qualsiasi luogo del mondo. Ricordare i morti, ma
pensare anche ai vivi”. (DA:” Il difficile senso della memoria sulla Shoah”
)
HO CAPITO CHE QUESTO ERA IL MOMENTO, NON PRIMA E NON DOPO.
DEVO RINGRAZIARE ANCHE SERGIO DI CORI MODIGLIANI, UN GRANDE MAESTRO DI PENNA, PENSIERO E VITA
CHE CON LA SUA RIFLESSIONE: “La sindrome di Bolechow” , HA COMPLETATO IL MIO “TATUAGGIO”
IN MODO PERMANENTE.
MLR
BUONA LETTURA
“Il difficile senso
della memoria sulla Shoah”
Da:
http://www.repubblica.it/cultura/2014/01/27/news/giornata_della_memoria_lizzie_doron-77002574/
Ospitiamo un contributo della scrittrice israeliana, in
Italia per una serie di incontri sull'Olocausto: "Non posso che constatare
come questa mutazione della memoria abbia completamente seppellito quelle
testimonianze intime, genuine, dolenti, anche sarcastiche che ho vissuto da
bambina"
di: LIZZIE DORON
27 gennaio 2014
"Dopo la Shoah, verso la vita"
PER RICORDARE abbiamo avuto bisogno di una legge. Il giorno
della memoria in Israele è stato sancito dal parlamento nel 1959 dopo una
battaglia pubblica condotta dai sopravvissuti. "In questo giorno,"
recita la legge "si rispetteranno in tutti i luoghi del paese due minuti
di silenzio, si terranno iniziative e cerimonie, le bandiere saranno a
mezz'asta, i locali di svago chiusi, i programmi della radio saranno dedicati
all'argomento". Il giorno della memoria internazionale è stato decretato
dall'Onu nel 2005 con una risoluzione che richiama al ricordo della Shoah in
modo che altri genocidi non possano più essere perpetrati in futuro. Come tutte
le leggi, anche queste devono essere applicate. Ma come?
Nei primi anni dello Stato d'Israele il problema non si poneva,
dal momento che la Shoah era rimossa dalla coscienza collettiva del paese che
amava piuttosto farsi suggestionare dalla potenza di Tzahal, il nostro
"Esercito per la difesa di Israele" che forse era anche un
"Esercito per la terapia di gruppo di Israele". I sopravvissuti, la
loro debolezza, il loro essersi arresi e fatti deportare nei campi "come
pecore al macello", questo era d'intralcio per un paese appena nato, che
voleva essere forte, che avrebbe dovuto combattere e che desiderava far sorgere
un nuovo ebreo indipendente dalle polveri della diaspora. I soldati invece
erano belli, giovani e pieni di vita e ardore per il futuro.
Ricordo bene come li ammirassi da bambina, una bambina che
viveva in un quartiere di sopravvissuti e che da lì sognava di fuggire per
raggiungere qualche kibbutz. Un quartiere dove la memoria era relegata ai
sussurri notturni delle donne nei cortili, alla follia di Djusia, la nostra
vicina, che raccontava solo al suo cane di come si fosse costretta a sorridere
mentre uccidevano sua madre, pensando, povera bambina, che così non si
sarebbero accorti che era ebrea; o ai silenzi di mia madre che ad ogni domanda
rispondeva: "Io penso ai morti, te pensa ai vivi". E queste parole
rimangono fino ad oggi in me come una domanda su come gestire la memoria.
In seguito al processo Eichmann, all'esposizione pubblica e
dirompente della Catastrofe, il ricordo della Shoah ha iniziato un nuovo
percorso inarrestabile, ramificatosi in molte direzioni, gonfiandosi sempre di
più, portando le sofferenze e le immagini dei sopravvissuti al centro
dell'immaginazione collettiva, fino a conquistarsi un posto fondante
nell'identità degli israeliani.
Il giorno della memoria è diventato il simbolo e l'apice di
questo processo fatto di cerimonie pubbliche, programmi educativi, comitive ad
Auschwitz, discorsi, programmi radio e TV, canti e poesie, libri e film, un
coinvolgimento generale che a tratti farebbe pensare a una vera e propria
industria della memoria - nella quale si possono trovare cose positive e costruttive
ed altre banali e retoriche.
Anche se sono abituata a cercare sempre il lato buono delle
cose, non posso che constatare come questa mutazione della memoria abbia
completamente seppellito quelle testimonianze intime, genuine, dolenti, anche
sarcastiche che ho vissuto da bambina nel mio quartiere, ed è pungente la
sensazione che nient'altro potrà mai eguagliare la testimonianza di quelle
persone che portavano avanti la propria memoria nella solitudine delle proprie
case, nell'ombra dei cortili. Per questo insisto forse a parlare solo di loro
nei miei libri.
Ma questo significa forse che dovremmo dire: "Aboliamo
il giorno della memoria!" o "Sono contro il giorno della
memoria!". Non credo. Per diversi motivi.
Il primo sono i giovani, gli studenti che si affacciano al
mondo e alle riflessioni sul mondo. Penso che essi meritino di poter affrontare
lo studio della Shoah, come punto di partenza per prendere coscienza di temi
decisivi come la presenza del male nel mondo, i diritti umani, la libertà di pensiero.
Essi sono vergini rispetto alle tematiche della memoria, ogni generazione è
anche una nuova possibilità di rimodellare e migliorare il nostro modo di fare
memoria.
Questo ci porta a un secondo motivo, più filosofico. Penso
che il senso della vita di un essere umano sia quello di migliorarsi, di
studiare, di sfidare se stesso, di progredire; dunque cancellare una questione
difficile - come il fare memoria appunto - non può essere una soluzione, ma è
solo una mancanza di responsabilità e una rinuncia al senso della nostra
esistenza.
Un terzo motivo è il valore che voglio comunque dare alla
collettività. Il giorno della memoria mette in gioco moltissime persone, anzi,
cittadini; essi sono tutti coinvolti in un progetto comune il cui significato
di fondo è nobile e può essere costruttivo. So per esperienza che moltissime di
queste persone sono mosse da sentimenti puri e un limpido desiderio di
confrontarsi. Credo che non dovremmo frustrare questo sforzo collettivo,
nonostante i rischi di banalizzazione e sacralizzazione della memoria.
Tuttavia si pone la domanda: come rendere costruttivo,
sensato, attuale il giorno della memoria? Non ho una risposta a questo, ma solo
alcuni pensieri.
Il primo è lo studio. Al ricordo, alla cerimonia, alla
commozione deve essere sempre fatto precedere uno studio, poiché non c'è niente
di più vacuo e transitorio di una celebrazione emotiva priva di una profonda
conoscenza e comprensione della Storia. Nessuno sviluppo della memoria è
possibile senza conoscenza.
Credo poi che oggi si debba trovare il coraggio e la
saggezza per accostare al ricordo della Shoah lo studio e la presa di coscienza
di eventi contemporanei che toccano il tema dei diritti dell'uomo, delle
privazioni, della povertà, ogni tema che veda l'umanità soccombere in qualsiasi
luogo del mondo. Ricordare i morti, ma pensare anche ai vivi.
E' forse è per questo che continuo a scomporre tutto
l'apparato costruito intorno alla memoria che mi separa dalle parole, gli
sguardi, i gesti di quei sopravvissuti che ho conosciuto da bambina - per poter
ritornare a mia madre e chiederle: "Mamma, come si fa a pensare ai
vivi?".
Scrivendo, mi viene in mente che parecchi anni fa un editor
mi disse: "Lizzie, peccato che con le tue capacità scrivi solo di Shoah,
la Shoah non vende, dovresti scrivere una storia d'amore".
Se lo dovessi rincontrare oggi, gli direi: "Avevi
torto, la Shoah vende...". Ma questo non significa che non vorrei tanto
poter scrivere una storia d'amore.
Lizzie Doron è nata a Tel Aviv nel 1953. In Italia i suoi
romanzi sono pubblicati dalla Casa Editrice Giuntina: 'Perché non sei venuta
prima della guerra?', 'C'era una volta una famiglia', 'Giornate tranquille',
'Salta, corri, canta'. Ad aprile uscirà il nuovo romanzo 'L'inizio di qualcosa
di bello'. In questi giorni è in Italia per tenere delle conferenze sulla
Memoria.
La sindrome di Bolechow è la malattia
dell'Europa che la memoria storica della Shoah ci ricorda.
di: Sergio Di Cori Modigliani
La sindrome di Bolechow è
la malattia perniciosa dell'Europa.
Ed è da
quella che dobbiamo difenderci e salvaguardarci.
E' contro questo morbo che dobbiamo unirci, per combatterlo.
Oggi, 27 Gennaio, si commemora la "giornata della
memoria", a ricordo dello sterminio di sei milioni di ebrei -oltre agli
zingari, agli omosessuali, ai disabili, a coloro che venivano identificati come
appartenenti a cosiddette razze inferiori- ad opera dei nazisti durante la
seconda guerra mondiale.
Considerando il fatto che i governi italiani sono stati (e
tuttora sono) maestri nel pianificare, organizzare e diffondere la consuetudine
dell'Alzheimer sociale, come italiano, la giornata della memoria in Italia, la
considero un ossimoro.
Fino a pochi anni fa veniva chiamato "l'olocausto degli
ebrei", ma grazie alla nobile, intelligente sapienza spirituale, (nonchè eccezionale volontà) di Karol Woytila, al secolo Papa Giovanni Paolo II, è stato consentito
di non usare più quel
termine sostituendolo con la parola "Shoah".
Olocausto, infatti, è
un termine che proviene dal greco e indica "colui che si sacrifica
volontariamente, il Giusto, per consentire il trionfo del Bene Comune della
collettività". Se traducete il termine
"olocausto" in giapponese, ad esempio, risulta la parola
"kamikaze". Nella tradizione religiosa talmudica ebraica, il termine
olocausto è considerato
un atto sublime perchè
deriva dalla scelta interiore di chi vuole offrire, da eroe, la propria
vita per salvare gli altri, fin dal 1945 era stato usato come consuetudine per
indicare l'uccisione degli ebrei. Questa norma diffusa ha prodotto l'insorgere
di quel filone nazista negazionista che sosteneva (e tuttora sostiene) che
fosse stata per l'appunto una scelta degli ebrei da loro stessi voluta
-l'olocausto"- ovvero: quella di farsi uccidere in qualche migliaio per
giustificare poi la necessità di costruirsi uno Stato.
Grazie a Papa Woytila, che ha accettato la definizione data
dagli stessi ebrei, e ha introdotto e imposto nel mondo cattolico occidentale
il suo uso comune, è stato
accettato per convenzione collettiva la parola ebraica "Shoah" che
vuol dire catastrofe, eliminando per sempre l'ambiguità legata
al termine olocausto.
Il genocidio degli ebrei ad opera dei nazisti è stato studiato
sotto ogni punto di vista. L'aspetto più
profondamente sconcertante di questa vicenda consiste nella "non
comprensibilità" del comportamento dei nazisti, impossibile
da prevedere, e quindi prevenire, per potersi difendere.
Come fare, oggi, (mi sono chiesto, me lo chiedo sempre) a
commemorare in maniera adeguata la giornata della memoria, senza sovraccaricare
di piatta retorica questa data?
E ancora: come fare a conferire alla memoria il suo valore più alto e adeguato,
cioè quello di
un uso efficace e pragmaticamente nobile, che ci consenta di poter usufruire di
un evento storico per trarne nutrimento (e quindi suggerimento) tale da
consentirci di evitare l'avvento di una nuova forma di nazismo, oggi, per
evitare un ennesimo genocidio?.
Ho scelto ciò
che accadde a Bolechow, da cui la sindrome del titolo.
Tutti ormai, in Europa, hanno incorporato e accettato l'idea che
i nazisti fossero dei criminali sanguinari. Ma questo specifico episodio che
qui vi ripropongo ci aiuta a comprendere come, in verità,
si trattasse della più
pericolosa forma esistente di pazzia collettiva: una pazzia lucida.
Accadde il 14 novembre del 1941.
L'episodio si è
verificato a Bolechow, una piccola cittadina europea che si trova in una
zona molto particolare, la Galizia orientale, unica nel suo genere: al confine
tra la Prussia, la Polonia, l'Ucraina. Una zona di frontiera, nella quale, nel
secolo XVI, un illuminato aristocratico dell'epoca, il Duca di L'vov, compì un atto
inconcepibile per quei tempi: abolì
la schiavitù,
praticò il
rispetto della diversità, l'accoglienza multi-etnica, e impose la pratica
alla pari di qualunque forma di credo religioso. Non solo. Mise la propria
ricchezza al servizio della collettività che per questo fatto lo riverì, lo rispettò e lo amò, costruendo scuole
pubbliche, ospedali gratuiti e accogliendo i profughi dalla penisola iberica
che nel 1492 si sparpagliarono per l'Europa fuggendo dal Tribunale dell'Inquisizione.
E così, a
Bolechow, nei primi anni del '500, cominciarono a convivere in uno stato di
pacificazione e di armonia -tutti insieme- cattolici polacchi, ebrei spagnoli,
arabi mussulmani, cosacchi ucraini, pastori cristiano-ortodossi. Essendo un
posto di frontiera, dopo la scomparsa della dinastia ducale, nei secoli, la
cittadina passò da
un padrone all'altro: diventò
possedimento della Polonia, poi dell'Ucraina, poi della Russia, poi
della Prussia, poi dell'Impero austro-ungarico, poi di nuovo della Polonia, poi
dell'Urss, e infine invasa dalle truppe tedesche nel 1941. La popolazione
locale si abituò e
si adattò ai
regnanti che si succedevano, senza mai modificare la propria struttura,
condividendo il territorio in una ricca forma poli-etnica davvero unica in
Europa.
Finchè, da Berlino, un piovoso giorno dell'autunno del
1941, non arrivò il
comandante della Gestapo che impose la propria Legge. Il 30 ottobre convocò il capo della
comunità ebraica al quale comunicò che dovevano pagare una fortissima tassa
per evitare di essere tutti deportati. E quelli pagarono subito.
Dopo due giorni, durante la notte, la Gestapo rastrellò 2.000 ebrei, li
condusse alla periferia della cittadina e li uccise tutti.
E dieci giorni dopo, il 14 novembre, si verificò "l'episodio".
Il comandante tedesco convocò
il capo della comunità ebraica e gli spiegò che erano state uccise quelle persone
per dare un esempio di efficienza e far capire a tutti che cosa sarebbe
capitato loro se non avessero eseguito gli ordini. Consegnò una nutrita
documentazione, composta da ben dodici quaderni, per complessive 150 pagine,
nella quale, con una calligrafia minuta, erano scritti i costi dell'operazione:
numero delle pallottole usate per uccidere i 2000 ebrei, costo della benzina
usata dai camion per andare a prelevare i corpi e portarli in aperta campagna e
cremarli, il costo per le pale e le zappe, il costo per unità di
lavoro di ogni operaio che la Gestapo era stata costretta ad assumere per
trasportare i corpi, e chiese alla comunità ebraica di
pagare (così recita
il documento ufficiale) "i danni materiali determinati dall'atto di
esecuzione del piano di pulizia etnica per il rinnovamento della razza".
I nazisti chiesero alla comunità ebraica di
Bolechow di pagare il costo dell'uccisione di ben 2000 dei loro componenti.
In cambio, quelli che erano ancora vivi sarebbero stati
risparmiati.
La comunità, già terrorizzata per ciò che era accaduto, pagò la cifra
richiesta. Chiese di diluire i pagamenti per raccogliere l'intera cifra e venne
loro consentito di pagare a rate, in dieci mesi. Un anno dopo, venti giorni
dopo aver saldato l'ultima rata, vennero tutti deportati ad Auschwitz.
Non sopravvisse nessuno.
Tutta questa trattativa si svolse con lucidità ragionieristica,
come se "l'evento" fosse una cosa normale.Gli abitanti del luogo
erano talmente presi dal terrore di una follia che loro trovavano
"incomprensibile" che accettarono pensando di placare la patologia.
Tutto ciò
è stato raccontato in uno splendido volume uscito nel 2006 e scritto in
inglese (in Italia tradotto e pubblicato
dalla Neri Pozza editore) che si chiama "Gli scomparsi" a firma di
Daniel Mendelsohn, un intellettuale americano che lavora al New York Times come
critico cinematografico.
Ho deciso di coniare il termine "sindrome di Bolechow"
sulla base di questo evento storico.
Mi permette di capire l' impossibilità di
poter comprendere la follia quando essa si presenta mascherata da apparente
lucidità razionale.
Per come la intendo io, oggi la sindrome di Bolechow si è diffusa in tutta
Europa, permeando con la propria follia di "lucidità apparentemente
razionale" l'intero tessuto socio-politico.
Questa malattia parte dal presupposto del non riconoscimento
dell'unicità di ogni essere umano in quanto Persona. Oltre a
questo, riduce gli individui a numeri ai quali viene sottratta la originalità del loro valore esistenziale, trasformandoli in un dato
statistico. La riduzione di un individuo a un numero, una cifra, comporta la
disumanizzazione del suo essere, quindi la sua esistenza non viene contemplata
nè come valore
nè come
significato. Gli operatori chiamati a occuparsi di questi "dati
statistici", non registrano il fatto di avere a che fare con esseri umani,
con esistenze, con vite pulsanti. Per questi impiegati, quegli esseri sono
tutti uguali in quanto componenti specifiche di una serialità numerica,
quindi intercambiabili, frapponibili, eliminabili, senza provare alcuno
scrupolo, o rèmora, o senso di colpa.
E' una patologia del corpus sociale.
Questo è
il mio modo di commemorare la Shoa, oggi: ricordare le vite vissute, i
milioni di esistenze originali e diverse tra di loro eliminate per il capriccio
di un ragioniere ossessivo, che non ha mai pensato di trovarsi di fronte a
degli individui, considerando il tutto una pratica da dover sbrigare.
Era ciò
che la filosofa Hanna Arendt intendeva dire quando definì il nazismo
"La banalità del male".
Noi europei, e noi italiani, viviamo oggi in preda a una
malattia sociale che si chiama la sindrome di Bolechow. Coloro che hanno già ucciso i membri della nostra comunità collettiva
di cittadini inermi, coloro che ci hanno già depredato,
sfruttato ed espoliato, vengono a chiedere a noi di pagare il conto della loro
espoliazione.
Questo è
l'insegnamento che la memoria storica mi regala.
Noi ci alziamo ogni mattina e con tutto l'entusiasmo del mondo
provocato dalla vitalità della nostra voglia di vivere, per amore di noi
stessi, della nostra moglie, marito, figli, genitori, amici, membri della
comunità nella quale siamo inseriti, noi andiamo a
lavorare per pagare con inoppugnabile regolarità coloro che ci
hanno rovinato e seguitano a rovinare le nostre esistenze. Siamo diventati gli
ebrei di Bolechow, e così
ci illudiamo che le banche prima o poi cambieranno e cominceranno a dare
credito a chi ne ha bisogno; viviamo nella paura coltivando la speranza che i
ministri, il governo finalmente, si occupino anche di noi, che i partiti
pensino alla responsabilità che hanno delle nostre esistenze, pensando che
"loro" ci salveranno perchè, prima o poi, capiranno la nostra umanità e riconosceranno in noi la valenza del valore della originale
narrativa della nostra esistenza individuale.
E' un'illusione, come quella di quei poveretti che finirono
tutti dentro a un forno.
Questa è
la consapevolezza che mi regala il giorno della memoria.
Se penso alla nostra classe politica dirigente non penso in
termini di complotto, o pensando che siano incapaci e incompetenti, proprio no.
Me li sto immaginando come quell'ufficiale della Gestapo che trascorse diverse
notti insonne per redigere una minuziosa documentazione sui costi delle
pallottole, descritte una per una a seconda del modello d'arma usate, per
consegnare poi ai membri della comunità dei sopravvissuti l'elenco dei debiti da pagare,
sentendosi contento di aver fatto un ottimo lavoro.
Se li ascolto raccontarci come hanno deciso e stanno decidendo
di risolvere la crisi economica, la mancanza di lavoro, l'immobilità del mercato, ho la sensazione di essere diventato un semplice dato
statistico, di avere a che fare con una follia lucida che, per un umano, non è possibile da
comprendere.
Bankitalia, oggi, ha diffuso i dati ufficiali sullo stato
dell'economia della nazione. Risulta -statisticamente- che il 10% della
popolazione possiede il 48,5% della ricchezza collettiva. Risulta anche che il
9,8% della popolazione ha aumentato nell'ultimo biennio il proprio reddito di
un + 65%, mentre il 72% delle famiglie lo ha diminuito di un - 7,5%. I poveri
sono aumentati del 125% nell'ultimo quadriennio e i consumi sono crollati. Sia
Enrico Letta che il Ministro del Tesoro, Saccomanni, hanno detto che
"questi dati ufficiali ci confermano che non soltanto la recessione è finita, ma che
l'Italia è ormai
lanciata verso la ripresa", così
c'è scritto nel
comunicato ufficiale del governo.
I membri di quel 9,8% della popolazione sono quelli che ci
governano.
E non conviene neppure mettersi lì
a sperare che arrivi un esercito di liberazione. Non esiste.
Dobbiamo guarire dalla sindrome di Bolechow.
Ciascuno di noi, fino a guarire l'intera società.
CONTRIBUTI:
DAL NOSTRO COLLABORATORE DOTT. MIGUEL LUNETTA (BRASIL)
Folha de S.Paulo
Um jornal a serviço do Brasil
segunda-feira, 27 de janeiro de 2014
Ban Ki-Moon
Visita a Auschwitz
Pensei nos prisioneiros, horas em pé, nus, num clima gelado,
arrancados de suas famílias, de cabelos rapados esperando as câmaras de gás
A lembrança do Dia Internacional em Memória das Vítimas do
Holocausto em 27 de janeiro --o aniversário da libertação do campo de
concentração de Auschwitz-- acontece em um momento no qual, à nossa volta, há
alertas para os perigos do esquecimento.
Neste ano, assinalam-se duas décadas desde o genocídio em
Ruanda. Conflitos na Síria, Sudão do Sul e República Centro-Africana assumiram
uma dimensão perigosa. O fanatismo ainda percorre nossas sociedades. O mundo
pode e deve fazer mais para eliminar o veneno que levou aos campos de
concentração.
Visitei Auschwitz-Birkenau em novembro. Um vento frio
soprava naquele dia, o chão sob os meus pés era rochoso. Mas eu tinha um
sobretudo e sapatos resistentes. Meus pensamentos foram para aqueles que não
tinham nem uma coisa nem outra: os judeus e outros prisioneiros que outrora
povoaram o campo.
Pensei naqueles prisioneiros passando horas em pé, nus, num
clima gelado, arrancados de suas famílias, seus cabelos rapados ao serem
preparados para as câmaras de gás. Pensei naqueles que foram mantidos vivos
apenas para trabalhar até a morte. Refleti sobre o quão insondável ainda é o
Holocausto. A crueldade foi tão profunda, a visão de mundo nazista tão
deformada, a mortandade tão calculada.
O campo de Birkenau parecia estender-se até o horizonte
--uma vasta fábrica de morte. O Livro dos Nomes com a identificação de milhões
de vítimas judias enchia uma sala, ainda que contivesse apenas uma fração do
total, que também incluiu poloneses, ciganos, sinti, soviéticos, dissidentes, homossexuais,
pessoas com deficiência e outros.
Fiquei comovido com um vídeo mostrando a vida dos judeus na
Europa em 1930 --refeições em família, idas à praia, performances artísticas,
casamentos e outros rituais, todos barbaramente extintos com o único assassínio
sistemático na história.
Não podemos construir o futuro sem lembrar o passado. O que
aconteceu pode se repetir. Combater o ódio está entre as principais missões da
ONU. Nossos mecanismos trabalham para proteger as pessoas. Nossos tribunais
esforçam-se para combater fazer justiça. Nossos especialistas escrutinam o
mundo para detectar indícios de crimes atrozes.
O programa das Nações Unidas sobre o Holocausto vem
trabalhando com professores e alunos de todos os continentes para promover os
valores universais. Seu mais recente pacote ajudará a introduzir estudos nas
salas de aula de países como Brasil, Nigéria, Rússia e Japão.
A poucos passos do crematório de Auschwitz, parei para
refletir. Toquei numa cerca de arame farpado --já não eletrificada, mas ainda
afiada e intimidante. Senti-me esmagado pela enormidade do que aconteceu e
profundamente tocado pela coragem e sacrifício dos soldados e líderes que
derrotaram a ameaça nazista.
Minha esperança é que a nossa geração e as que virão evitem
que tal horror volte a acontecer, e construam um mundo de igualdade para todos.
BAN
KI-MOON, 69, é secretário-geral da ONU (Organização das Nações Unidas). Foi
ministro das Relações Exteriores e do Comércio da Coreia do Sul
Os artigos publicados com assinatura não traduzem a opinião
do jornal. Sua publicação obedece ao propósito de estimular o debate dos
problemas brasileiros e mundiais e de refletir as diversas tendências do
pensamento contemporâneo. debates@uol.com.br