IL RISVEGLIO DEL CADUCEO DORMIENTE: la vera genesi dell'Homo sapiens

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VIDEO SINOSSI DELL'UOMO KOSMICO

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Con questo libro Marco La Rosa ha vinto il
PREMIO NAZIONALE CRONACHE DEL MISTERO
ALTIPIANI DI ARCINAZZO 2014
* MISTERI DELLA STORIA *

con il patrocinio di: • Associazione socio-culturale ITALIA MIA di Roma, • Regione Lazio, • Provincia di Roma, • Comune di Arcinazzo Romano, e in collaborazione con • Associazione Promedia • PerlawebTV, e con la partnership dei siti internet • www.luoghimisteriosi.it • www.ilpuntosulmistero.it

LA NUOVA CONOSCENZA

LA NUOVA CONOSCENZA

GdM

sabato 21 marzo 2020

IN PRINCIPIO ERA...



del Dr. GIORGIO PATTERA (BIOLOGO)


No, non si tratta dei versetti iniziali della biblica Genesi (1, 2), vorremmo solo tracciare una breve storia del tanto famigerato Virus che attualmente imperversa nel mondo, terrorizzando le popolazioni e seminando lutti e catastrofi economiche.

Se ben ricordiamo, nel 2002-2003 la SARS (sindrome respiratoria acuta severa), partendo da Canton, si diffuse in Cina ed in altri 17 paesi, causando 8.096 casi e 774 decessi. L’agente eziologico di questa forma atipica di polmonite fu individuato in un virus a RNA appartenente alla famiglia dei CORONAVIRUS (cosiddetto per come appare al microscopio elettronico) e per questo fu classificato con la siglaSARS CoVSARS-CoV.


Gli scienziati cinesi, ma solo nel 2017, ne hanno rintracciato la presenza in una particolare specie di pipistrelli (Rhinolophus ferrumequinum), comunemente noti come Pipistrello ferro di cavallo“ferri di cavallo” per la forma del muso.


Invece di prendere iniziative per controllare l'epidemia, i responsabili del governo cinese informarono l'OMS con notevole ritardo. Questa mancanza di responsabilità provocò ritardi negli sforzi per controllare l'epidemia e causò critiche da parte della comunità internazionale verso il governo cinese. Quest'ultimo si scusò ufficialmente per la lentezza iniziale nell'affrontare l'epidemia: ma ormai i buoi, pardon, i virus erano scappati…

Bene, questo nel 2002-2003.


 2019: Giambattista Vico si sarà rivoltato nella tomba, in quanto la sua teoria sui “corsi e ricorsi della storia” si stava puntualmente ripetendo… Si dice che “la storia è maestra di vita”, ma in questo caso…Verso la fine dello scorso anno (novembre-dicembre) compare in Cina, a Wuhan, una nuova “forma simil-influenzale”, la cui pericolosità e, in parte, somiglianza con la “polmonite da SARS” viene evidenziata da un medico, il Prof. Zhang, il quale, per aver diffuso la notizia e, quindi, messo in imbarazzo l’impreparazione del Paese di fronte all’emergenza, viene “premiato” con la chiusura del suo laboratorio ed esautorato dal servizio attivo: classico esempio di “ragion di stato” di Machiavellica memoria… Quando la Cina si decide ad “esternare” la situazione che le sta sfuggendo di mano, ancora una volta con irresponsabile ritardo, classifica il nuovo virus con la sigla SARS-Cov-2 (o meglio SARS-CoVid-19, dall’anno di comparsa) a significare, per l’appunto, la SOMIGLIANZA GENETICA con il lontano “parente” isolato 17 anni prima.


SARS-CoV-2 condivide quasi tutto il genoma con il suo predecessore SARS-CoV, in ragione dell’85 %, ma, sotto l’aspetto epidemiologico, se ne differenzia per due peculiarità. Il primo (SARS-CoV) presentava un’incubazione di 5-10 gg., una diffusione relativamente circoscritta, ma un’elevata virulenza ed un tasso di letalità vicino al 10%. Il secondo invece (SARS-Cov-2) ha un periodo d’incubazione molto più lungo (15-30 gg.), una diffusione assolutamente globale (attualmente in 146 Paesi), una virulenza minore (si contano già quasi 82.000 guarigioni su 200.000 casi) ed un tasso di letalità dimezzato (5%): questi ultimi numeri, ovviamente, sono in evoluzione, essendo la pandemia ancora in corso.Perché allora, se i genomi dei due ceppi virali sono relativamente simili, questa considerevole “differenza di numeri” tra l’epidemia del 2002/3 e l’attuale pandemia, numeri che fanno rabbrividire e gettano in depressione coscienze ed economie planetarie? Forse perché pochi ricordano che la Storia è fatta anche di numeri: senza i numeri correttamente valutati, girano le favole che interessano a chi comanda....Gli attuali 8.000 decessi (ma siamo ancora lontani dal picco) sono un numero impressionante rispetto ai 774 del 2002/3, ma è anche vero che allora i casi accertati (= malattia conclamata!) furono 8.096, mentre finora i soggetti contagiati (compresi quelli asintomatici) sono 200.000. Questo perché, nell’attuale contingenza, si è deciso, come iniziale screening preventivo per delimitare il potenziale contagio, di effettuare a tutti gli individui SOSPETTATI DI CONTATTI A RISCHIO (anche se asintomatici) il test del tampone oro-naso-faringeo, scoprendo così un gran numero di casi positivi, da isolare in quarantena precauzionale. Procedimento che non era stato eseguito nel corso dell’epidemia da SARS-CoV-1. In altre parole, in questo caso si è confermato il (saggio) detto popolare, secondo cui “chi cerca, trova…”.

CONCLUDENDO. Il CoVid-19 presenta le seguenti caratteristiche: alta contagiosità, percentuale limitata di esiti fatali (diretti o per complicanze, dovute all’età e ad altre patologie preesistenti), ma percentuale relativamente alta (intorno al 10%) di malati che abbisognano di ricovero e dispositivi dedicati (ventilazione assistita) nei reparti di terapia intensiva.

Ed è quest’ultima esigenza che ci coglie sottodimensionati: per il prossimo futuro, speriamo che stavolta la Storia insegni… Al bando, quindi, allarmismi, isterie di massa e fake news, che alimentano tentativi di truffa di ogni genere; ma sicuramente massima attenzione nei comportamenti sociali, assidua applicazione delle norme igienico-sanitarie e costante prevenzione del rischio, nell’ottica della non sottovalutazione di questa situazione (certamente) transitoria.

Perché, in fin dei conti, “right or wrong, my country”…


 Fonti:



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" IL RISVEGLIO DEL CADUCEO DORMIENTE: LA VERA GENESI DELL'HOMO SAPIENS"
DI MARCO LA ROSA
SONO EDIZIONI OmPhi Labs









lunedì 16 marzo 2020

CORONAVIRUS: IL NEMICO INVISIBILE...

....rompo il silenzio perche' in tutto questo bailame, tutti abbiamo la nostra opinione sul "coronavirus", proprio come abbiamo due piedi. Fino ad ora pero' nessuno mi aveva colpito con tale chiarezza.

Quindi ...se volete...

BUONA LETTURA: 

                                                                                                                                                                        

I due stili strategici di gestione dell’epidemia a confronto


                            Di Roberto Buffagni

Propongo una ipotesi in merito ai diversi stili strategici di gestione dell’epidemia adottati in Europa e altrove. Sottolineo che si tratta di una pura ipotesi, perché per sostanziarla ci vogliono competenze e informazioni statistiche, epidemiologiche, economiche che non possiedo e non si improvvisano. Sono benvenute le critiche e le obiezioni anche radicali.

L’ipotesi è la seguente: lo stile strategico di gestione dell’epidemia rispecchia fedelmente l’etica e il modo di intendere interesse nazionale e priorità politiche degli Stati e, in misura minore, anche delle nazioni e dei popoli. La scelta dello stile strategico di gestione è squisitamente politica.
Gli stili strategici di gestione sono essenzialmente due:
11)    Non si contrasta il contagio, si punta tutto sulla cura dei malati (modello tedesco, britannico, parzialmente francese)
22)     Si contrasta il contagio contenendolo il più possibile con provvedimenti emergenziali di isolamento della popolazione (modello cinese, italiano, sudcoreano).

Chi sceglie il modello 1 fa un calcolo costi/benefici, e sceglie consapevolmente di sacrificare una quota della propria popolazione. Questa quota è più o meno ampia a seconda delle capacità di risposta del servizio sanitario nazionale, in particolare del numero di posti disponibili in terapia intensiva. A quanto riesco a capire, infatti, il Coronavirus presenta le seguenti caratteristiche: alta contagiosità, percentuale limitata di esiti fatali (diretti o per complicanze), ma percentuale relativamente alta (intorno al 10%, mi pare) di malati che abbisognano di cure nei reparti di terapia intensiva. Se così stanno le cose, in caso di contagio massiccio della popolazione – in Germania, ad esempio, Angela Merkel prevede un 60-70% di contagiati – nessun servizio sanitario nazionale sarà in grado di prestare le cure necessarie a tutta la percentuale di malati da ricoverarsi in T.I., una quota dei quali viene così condannata a morte in anticipo. La quota di pre-condannati a morte sarà più o meno ampia a seconda delle capacità del sistema sanitario, della composizione demografica della popolazione (rischiano di più i vecchi), e di altri fattori imprevedibili quali eventuali mutazioni del virus.

 La ratio di questa decisione sembra la seguente:

1 1)    L’adozione del modello 2 (contenimento dell’infezione) ha costi economici devastanti
2 2)     La quota di popolazione che viene pre-condannata a morte è in larga misura composta di persone anziane e/o già malate, e pertanto la sua scomparsa non soltanto non compromette la funzionalità del sistema economico ma semmai la favorisce, alleviando i costi del sistema pensionistico e dell’assistenza sanitaria e sociale nel medio periodo, per di più innescando un processo economicamente espansivo grazie alle eredità che, come già avvenuto nelle grandi epidemie del passato, accresceranno liquidità e patrimonio di giovani con più alta propensione al consumo e all’investimento rispetto ai loro maggiori.
3 3)     Soprattutto, la scelta del modello 1 accresce la potenza economico-politica relativa dei paesi che lo adottano rispetto ai loro concorrenti che adottano il modello 2, e devono scontare il danno economico devastante che comporta. Approfittando delle difficoltà dei loro concorrenti 2, le imprese dei paesi 1 potranno rapidamente sostituirsi ad essi, conquistando significative quote di mercato e imponendo loro, nel medio periodo, la propria egemonia economica e politica.

Naturalmente, per l’adozione del modello 1 sono indispensabili due requisiti: un centro direzionale politico statale coerentemente e tradizionalmente orientato su una accezione particolarmente radicale e spietata dell’interesse nazionale (tipici i casi britannico e tedesco); una forte disciplina sociale (ecco perché l’adozione del modello 1 da parte della Francia sarà problematica, e probabilmente si assisterà a una riconversione della scelta strategica verso il modello 2).

L’adozione del modello 1, insomma, corrisponde a uno stile strategico squisitamente bellico. La scelta di sacrificare consapevolmente una parte della popolazione economicamente e politicamente poco utile a vantaggio della potenza che può sviluppare il sistema economico-politico, in soldoni la scelta di liberarsi dalla zavorra per combattere più efficacemente, è infatti una tipica scelta necessitata in tempo di guerra, quando è normale perché indispensabile, ad esempio, privilegiare cure mediche e rifornimenti alimentari dei combattenti su cura e vitto di tutti gli altri, donne, vecchi e bambini compresi, nei soli limiti imposti dalla tenuta del morale della popolazione, che è altrettanto indispensabile sostenere.

Gli Stati che adottano il modello 1, dunque, non agiscono come se i loro concorrenti fossero avversari, ma come se fossero nemici, e come se la competizione economica fosse una vera e propria guerra, che si differenzia dalla guerra guerreggiata per il solo fatto che non scendono in campo gli eserciti. La condotta di questo tipo di guerra, proprio perché è una guerra coperta, sarà particolarmente dura e spietata, perché non vi ha luogo alcuno né il diritto bellico, né l’onore militare che ad esempio vieta il maltrattamento o peggio l’uccisione di prigionieri e civili, l’impiego di armi di distruzione di massa, etc. Per concludere, la scelta del modello 1 privilegia, nella valutazione strategica, la finestra di opportunità immediata (conquistare con un’azione rapida e violenta un vantaggio strategico sul nemico)  sulla finestra di opportunità strategica di medio-lungo periodo (rinsaldare la coesione nazionale, diminuire la dipendenza e vulnerabilità  della propria economia dalle altrui accrescendo investimenti statali e domanda interna).
Alla luce di quanto delineato a proposito degli Stati che adottano il modello 1, è più facile descrivere lo stile etico-politico degli Stati che adottano il modello 2.

Nel caso della Cina, è indubbio che il centro direttivo politico cinese sappia molto bene che la competizione economica è componente decisiva della “guerra ibrida”.  Furono anzi proprio due colonnelli dello Stato Maggiore cinese,  Liang Qiao e Xiangsui Wang, che negli anni Ottanta elaborarono il testo seminale sulla “guerra asimmetrica”[1]. Credo che il centro direzionale politico cinese abbia scelto, pare con successo, di adottare il modello 2 per tre ragioni di fondo: a) il carattere spiccatamente comunitario della tradizione culturale cinese, nella quale il concetto liberale di individuo e il concetto cristiano di persona hanno rilievo scarso o nullo b) il profondo rispetto per i vecchi e gli antenati, cardine del confucianesimo c) una valutazione strategica di lungo periodo, riassumibile in queste due massime di Sun Tzu, il pensatore che più ispira lo stile strategico cinese: “La vittoria si ottiene quando i superiori e gli inferiori sono animati dallo stesso spirito”  e  “Una guida coerente permette agli uomini di sviluppare la fiducia che il loro ambiente sia onesto e affidabile, e che valga la pena combattere per esso.” In altri termini, penso che la direzione cinese abbia valutato che il vantaggio strategico di lungo periodo di preservare e anzi rafforzare la coesione sociale e culturale della propria popolazione superasse il costo di breve-medio periodo del danno economico, e della rinuncia a profittare nell’immediato delle difficoltà degli avversari. Perché “le vie che portano a conoscere il successo” sono tre: 1. Sapere quando si può o non si può combattere 2. Sapersi avvalere sia di forze numerose che di forze esigue 3. Saper infondere uguali propositi nei superiori e negli inferiori.”

Nel caso dell’Italia, la scelta – per quanto incerta e mal eseguita – del modello 2 credo dipenda dalle seguenti ragioni. 1) Sul piano culturale, dall’influsso della civiltà italiana ed europea premoderna, infusa com’è di sensibilità precristiana, contadina e mediterranea per la famiglia e la creaturalità, poi parzialmente assorbita dal cattolicesimo controriformato e dal barocco: un influsso  di lunghissima durata che continua ad operare nonostante la protestantizzazione della Chiesa cattolica odierna, e nonostante l’egemonia culturale, almeno di superficie, di liberalismo ideologico e liberismo economico 2) Sempre sul piano culturale, dal pacifismo instaurato dopo la sconfitta nella IIGM e perpetuato prima dalle sinistre comuniste e dal mondo cattolico, poi dalle dirigenze liberal-progressiste UE; un pacifismo che genera espressioni buffe come “soldati di pace”, e la negazione metodica della dimensione tragica della storia 3) Sul piano politico, sia dal grave disordine istituzionale, ove i livelli decisionali si sovrappongono e ostacolano reciprocamente, come s’è palesato nel conflitto tra Stato e Regioni all’apertura della crisi epidemiologica; sia dalle preoccupazioni elettorali di tutti i partiti; sia dalla fragile legittimazione dello Stato, antico problema italiano 4) sul piano politico-operativo, dalla sbalorditiva incapacità delle classi dirigenti, nelle quali decenni di selezione alla rovescia e abitudine a scaricare responsabilità, scelte e relative motivazioni sulle spalle dell’Unione Europea hanno indotto una forma mentis che induce sempre a imboccare la linea di minor resistenza: che in questo caso è proprio la scelta di contenere il contagio, perché per scegliere la via del triage bellico di massa (comunque la si giudichi, e io la giudico molto negativamente) ci vuole una notevolissima capacità di decisione politica.

In altre parole, la scelta italiana del modello 2 ha ragioni superficiali e consapevoli nei nostri difetti politici e istituzionali, e ragioni profonde e semiconsapevoli nei pregi della civiltà e della cultura a cui, quasi senza più saperlo, l’Italia continua ad ispirarsi, specie nei momenti difficili: siamo stati senz’altro umani e civili,  e forse anche strategicamente lungimiranti, senza sapere bene perché. Però lo siamo stati, e di questo dobbiamo ringraziare i nostri antenati defunti, i Lari[2] il cui culto, sotto diversi nomi, si perde nei secoli e millenni; e che senza saperlo, oggi onoriamo e veneriamo facendo tutto il possibile per curare i nostri padri, madri, nonni, anche se non servono più a niente.

Farebbe sorridere Sun Tzu e forse anche Hegel constatare che i due modelli impongono metodi operativi di implementazione esattamente opposti rispetto allo stile strategico.
L’implementazione del modello 1 (non conteniamo il contagio, sacrifichiamo consapevolmente una quota di popolazione) non richiede alcuna misura di restrizione della libertà: la vita quotidiana prosegue esattamente come prima, tranne che molti si ammalano e una percentuale non esattamente prevedibile ma non trascurabile di essi, non potendo ottenere le cure necessarie per ragioni di capienza del servizio sanitario, muore.

L’implementazione del modello 2 (conteniamo il contagio per salvare tutti i salvabili) richiede invece l’applicazione di misure severissime di restrizione delle libertà personali, e anzi esigerebbe, per essere coerentemente effettuato, il dispiegamento di una vera e propria dittatura, per quanto morbida e temporanea, in modo da garantire l’unità del comando e la protezione della comunità dallo scatenamento delle passioni irrazionali, cioè da se stessa. Operativamente, la direzione esecutiva del modello 2 dovrebbe essere affidata proprio alle forze armate, che possiedono sia le competenze tecniche, sia la struttura rigidamente gerarchica adatte.
Concludo dicendo che sono contento che l’Italia abbia scelto di salvare tutti i salvabili. Lo sta facendo goffamente, e non sa bene perché lo fa: ma lo fa. Stavolta è facile dire: right or wrong, my country.

Bibliografia e citazioni:

[1] Liang Qiao e Xiangsui Wang, Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione, LEG Edizioni 2011


DA:


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sabato 8 febbraio 2020

L'UOMO E IL LABIRINTO


ARTICOLO GIA' PUBBLICATO SULLA RIVISTA BIMESTRALE: "IL GIORNALE DEI MISTERI" (I LIBRI DEL CASATO) N. 547 GENNAIO - FEBBRAIO 2020 - DA PAG. 39 A PAG. 44.



L’UOMO E IL LABIRINTO
Discorso sulla metafisica del labirinto con il ricercatore storico e studioso di simbologie Giancarlo Pavat

di Marco La Rosa

«Giunti all'arte di regnare ed esaminandola a fondo, per vedere se fosse quella a offrire e a produrre la felicità, caduti allora come in un labirinto, mentre credevamo di essere ormai alla fine risultò che eravamo ritornati come all'inizio della ricerca, e avevamo bisogno della stessa cosa che ci occorreva quando avevamo incominciato a cercare.»
                                  Platone: Eutidemo (Εὐθύδημος)

La citazione dall’ Eutidemo di Platone potrebbe sembrare fuori contesto, ma i tempi isterici che viviamo ritengo siano il perfetto esempio della messa in scena della parodia dell’eristica, l’arte di battagliare a parole allo scopo di confutare le tesi avversarie. Proprio quello a cui assistiamo quotidianamente, dove gli Eutidemo e Dionisodoro di turno, affrontano ferocemente senza esclusione di colpi il loro avversario dialettico, per distruggerlo. Platone ai suoi tempi era drammaticamente spietato nel mettere alla gogna l’eristica, per mezzo della quale era (ed è tutt’ora) impossibile cogliere la verità, imparare od insegnare. L’eristica infatti si fonda sulla convinzione che tutte le affermazioni abbiano il medesimo valore di verità. Non si può pertanto raggiungere alcuna conoscenza poiché, manipolando una tesi secondo l’opportunità del momento, si punta solamente a ridurre al silenzio il proprio avversario.
Potrei fare mille esempi anche in ambito puramente scientifico, accostando a questo il criterio di falsificabilità (Karl Popper 1902-1994) dove si afferma che, una teoria per essere controllabile, perciò scientifica, deve essere confutabile. Il LABIRINTO è inquadrabile nella metafisica, che per Popper rientra nell’ambito dei postulati dotati di senso e significato che, non sono scienza perché mai falsificabili, ma che possono, all'occasione, venire in aiuto alla scienza e al ricercatore fornendogli idee e prospettive per inquadrare i problemi e addirittura, col crescere del sapere di sfondo, diventare scienza.
Il concetto di labirinto quindi ben si adatta al “mondo di mezzo” di cui percepiamo la presenza, ma ne ignoriamo ancora la via di accesso. Che lo si riconosca oppure no, è insito nel DNA umano; nella nostra biochimica; nel nostro cervello (non solo figurativamente), ma anche e soprattutto nella nostra coscienza e psiche. E’ un simbolo talmente antico che ancora oggi non se ne conosce l’origine.
Le rappresentazioni sono innumerevoli e non possiamo elencarle tutte, ma possiamo chiedere aiuto a chi ne ha fatto un rilevante tema di studi.

Il ricercatore storico e studioso di simbologie Giancarlo Pavat, già co-autore de: “In cammino fino all’Ultimo Labirinto: dalla scoperta del labirinto di Santa Sinforosa ai Trojaborgar del baltico” (Youcanprint – 2013 ), ha appena pubblicato per Newton Compton Editori: “Guida curiosa ai labirinti d’Italia, un viaggio alla scoperta di luoghi misteriosi e ricchi di simboli nascosti” (Sett. 2019). Mi rivolgo quindi a lui per dipanare la matassa nel dedalo delle interpretazioni e delle conoscenze acquisite ad oggi.



MLR: Giancarlo, la prima domanda che mi sorge spontanea, forse banale (?) è: perché il simbolo del labirinto è presente in tutte le culture del mondo antico e compare letteralmente in tutti i continenti?

G.P.: Caro Marco, per rispondere a questa domanda è necessario, prima, sottolineare che usiamo il termine LABIRINTO per convenzione. E questo perché ogni cultura, civiltà e tradizione chiama (o ha chiamato) questa simbologia in maniera diversa. Solo per fare qualche esempio, i cosiddetti “labirinti baltici”, ovvero labirinti unicursali realizzati con le pietre sulle spiagge, radure, promontori della regione della Fennoscandia (si trovano anche affrescati in diverse chiese medievali della Danimarca, Norvegia, Svezia e Finlandia) sono chiamati Trojaborg (plurale Trojaborgar) ovvero “Città di Troia in Svezia e Jatulintarha ovvero “siepe del gigante” in Finlandia. Celebre la Jatulintarha dell’isoletta di Vartiosaari nei pressi di Helsinki. O quella di 8 metri di diametro di Nauvossa sull’isola di Finbyn, o ancora la Jatulintarha Rahjan Saaristossa (in finlandese letteralmente “Siepe del gigante dell’arcipelago di Rahia”).
Inoltre giova ricordare che i “Labirinti” si dividono in due principali macrocategorie. Quelli unicursali (o univiari) ovvero quelli che hanno un solo ingresso, un unico percorso sebbene arzigogolato e ricco di meandri e una sola uscita, generalmente al centro; e quelli multicursali (o multiviari), ovvero quelli che possono avere più ingressi, più percorsi che si biforcano, con vicoli ciechi, e non necessariamente una sola uscita. Nelle lingue neolatine, tra cui l’Italiano, per capire a quale tipologia ci si riferisce è necessario specificare l’aggettivo (unicursale o multicursale) Invece in altre lingue, non è così. Ad esempio in Inglese esistono due sinonimi diversi e specifici. Labyrinth per indicare quelli unicursali e Maze quelli multicursali. Fatte queste necessarie precisazioni, per tornare alla tua domanda, posso dire che simbologie comprese in queste categorie del Simbolo che chiamiamo Labirinto sono effettivamente presenti praticamente in tutto il Mondo o quasi. Allo stato attuale delle conoscenze, nessuno è in grado di poter dire il motivo ma ritengo che ciò sia avvenuto (e avvenga ancora oggi) perché il Labirinto è un simbolo ancestrale; parafrasando Jung costituisce un archetipo della memoria collettiva dell’Umanità.

                   Giancarlo Pavat e il Cristo nel labirinto


MLR: Data la tua esperienza e conoscenza, quale interpretazione dai alle varie tipologie di labirinto? E puoi specificarci se le diversità iconografiche dipendono da una ciclicità storica e di evoluzione del pensiero?

G.P.: Il discorso è molto complesso e certamente non è possibile esaurirlo in poche righe. Sono stati fatti scorrere i proverbiali fiumi d’inchiostro su queste tematiche. Ma nessuno dei numerosi libri scritti su queste tematiche può considerarsi completo ed esaustivo. E questo perché ogni labirinto ha valenze peculiari della cultura che l’ha prodotto. Addirittura, a volte, una stessa cultura l’ha investito di significati e allegorie diverse e spesso in antitesi. Basti pensare che ogni volta che viene scoperto un nuovo esemplare ci si accorge che gli artefici e i committenti hanno voluto investirlo di valenze che spesso non si ritrovano in altri esemplari anche se appartenenti alla medesima tipologia.

MLR: Discorso interessante. Ma puoi fare un esempio concreto?

G.P.: Certamente. Prediamo come esempio l’ormai celebre affresco con il Cristo nel Labirinto di Alatri che ho studiato personalmente per quasi 10 anni. Come è noto si tratta di un affresco presente su una parete di una specie di cunicolo del chiostro di San Francesco ad Alatri in Ciociaria, che raffigura un “Cristo storico” (iconograficamente riconducibile, sebbene con qualche differenza, alla tipologia Pantocrator) posto al centro di un Labirinto. Nel 2009 ho scoperto che il labirinto affrescato appartiene alla categoria “Chartres-type”. Si tratta di particolari labirinti circolari, unicursali, nati nell’Europa occidentale medievale, che prendono questo nome perché l’esemplare più grande e famoso (ma non il più antico) decora il pavimento della navata della Cattedrale di Chartres in Francia.

Ebbene, gli “Chartres type” hanno determinate valenze e significati ma nel caso di Alatri c’è dell’altro. Molto di più. E non solo perché si tratta di un vero e proprio unicum. Infatti non esistono in tutta l’arte e la simbologia universale, labirinti  (indipendentemente dalla tipologia), non moderni, con al centro la figura del Cristo storico. L’opera alatrense veicola anche un determinato pensiero teologico, affonda le sue radici in un peculiare cristianesimo medievale, cistercense, francescano forse templare, ma che non era certamente quello poi uscito dal Concilio di Trento e inalberato dalla Controriforma. E probabilmente proprio per questo l’opera venne, prima ricoperta con uno strato di intonaco, e poi si costruì, attorno al XVII secolo, un muro per celarlo alla vista; trasformando quella che era la parete di fondo di una vasta sala capitolare in una specie di cunicolo o intercapedine. Tutto ciò per dire che oltre ai significati propri di quella tipologia di Labirinto, i committenti vi hanno voluto riversarne degli altri, per illustrare, in maniera ovviamente esoterica (e non poteva essere altrimenti) il proprio pensiero e la propria concezione del Cristianesimo.

MLR: Incredibile. In pratica in quell’opera d’arte il labirinto costituirebbe una sorta di catechesi…ora ci hai proprio incuriositi. Quale sarebbe il messaggio che tu hai scoperto nel Labirinto di Alatri?

G.P.:  L’ho spiegato in maniera dettagliata e approfondita nel mio nuovo libro GUIDA CURIOSA AI LABIRINTI D‘ITALIA (Newton Compton 2019). Ma posso tentare di spiegarlo in maniera sintetica. Sul Cristo nel Labirinto di Alatri è stato scritto di tutto e il contrario di tutto. A volte da persone che non l’avevano nemmeno visto dal vero ma solo in fotografia! Molti erano alla ricerca di facili scoop e quindi sono saltate fuori astruse e strampalate teorie (spesso spacciate per certezze acquisite), comportamento che ha fatto solo danni, a discapito della ricerca seria e obiettiva. Il messaggio che, a distanza di tanti secoli (risale ad un arco temporale che va dal XI al XIV secolo circa), il Cristo nel Labirinto di Alatri reca ancora con se, è un messaggio di speranza che trascende il valore puramente artistico ed è assolutamente ortodosso dal punto di vista dottrinale (D’altronde lo “Chartres type” è un Labirinto cristiano). Non vi è nulla di eretico o peggio (contrariamente a quanto hanno tentato in tanti di far credere) nel Cristo nel Labirinto. Ma l’opera ci parla di un Cristianesimo peculiare di alcune grandi correnti di pensiero medievali che però non poteva essere accettato dalla Chiesa Controriformista. Perché? Il “Cristo nel Labirinto” ci fa comprendere che per quanto lunga, tortuosa, irta di difficoltà, sia la strada della Vita che tutti dobbiamo percorrere, alla fine troveremo sempre chi ci allungherà la mano per aiutarci, per indicarci il cammino, mostrarci la meta. Ma all’interno del Labirinto di Alatri, il Penitente, il Pellegrino, l’Uomo, è solo! Ognuno di noi è solo davanti a Lui; solo con il suo libero arbitrio al cospetto di Cristo. O, per i non credenti, davanti alla propria coscienza. L’Uomo è solo, senza alcun mediatore. Non vi è alcun sacerdote, alcun prete, nessuna gerarchia ecclesiastica, nessuna Chiesa che ci dice come comportarci, che si pone tra il fedele, tra noi, e Dio. Per quanto possa risultare incredibile, il Cristo nel Labirinto, è una sorta di trattato di teologia. Qualcuno nel leggere la mia interpretazione, l’ha definito un “Vangelo secondo il Labirinto”. Definizione certamente forzata ma coglie il senso del messaggio custodito. Un messaggio di una modernità dottrinale e concettuale sconvolgente, profondo e, forse, ecumenico. Ma che ci costringe a fare i conti con noi stessi, con la nostra coscienza; senza alibi, senza scorciatoie. Non ve ne sono nel Labirinto di Alatri. O si prosegue sino in fondo, affrontando giorno dopo giorno le difficoltà della Vita o si torna indietro. Ma in questo caso non si raggiungerà mai il centro e Colui che ci attende. Al centro di quel Labirinto non c’è il dio terribile e vendicativo del Vecchio Testamento, o il giudice severo del michelangiolesco Giudizio Universale, ma un Cristo umano che ci ha preceduto lungo il percorso della Vita/Labirinto e che ora ci indica la strada per giungere alla meta, dove ci attende sereno e compassionevole. Ma è pure un Cristo trascendente. Trascendenza resa dai committenti e dagli artefici attraverso la scelta e l’uso di determinate simbologie ben presenti nell’affresco. Credo proprio che un simile messaggio non poteva assolutamente essere permesso dalla Dottrina Cattolica postconciliare,
                  
MLR: Come accennavo nell’introduzione, ancora oggi gli storici dei labirinti, non sono concordi sull’assegnare una genesi a questa simbologia. Quale è il tuo pensiero in proposito?

G.P.:  Esistono grosso modo due “scuole di pensiero”. Quella che ritiene che il concetto di labirinto sia nato spontaneamente un po’ ovunque e quella che, invece, ritiene che da un modello originario, si sia poi diffuso su tutto il pianeta. Io non propendo né per una, né per l’altra. Non posso però fare a meno di constatare che, incredibilmente, esistono delle tipologie di labirinto che compaiono improvvisamente in luoghi ed epoche diverse ad opera di culture che non hanno mai avuto contatti tra di loro. Un esempio è il Labirinto unicursale quadrato visibile nella cosiddetta “Domus di Lucrezio” a Pompei. Ebbene, questo modello, che viene chiamato a volte “Gerico” perché su alcuni manoscritti medievali è associato al nome della biblica città, lo ritroviamo non solo su monete cretesi del V secolo a.C. quindi della Grecia classica e non della Civiltà Minoica) ma pure inciso sulle rocce dell’Arizona dai nativi americani Hopi tra il XII e il XIII secolo d.C..




MLR: quindi i Labirinti sarebbero comparsi un po’ ovunque autonomamente e non ci sarebbe stato diffusionismo. Ma è possibile sapere quale sia l’esemplare o gli esemplari più antichi?

G.P.:  Questo può valere solo per alcune tipologie di Labirinti. Per altri è evidente che è esistito un modello originario. Ad esempio per quello che chiamiamo “Chartres-type”. Come ho già accennato, è una tipologia tipicamente cristiana e dell’Europa occidentale medievale. I primi esemplari non sono quelli che decorano i pavimenti delle grandi cattedrali francesi ma quelli miniati su manoscritti del X secolo d.C.. In questo caso è ovvio che c’è stato qualcuno che ne ha realizzato un primo esemplare che poi ha avuto una straordinaria diffusione. Secondo Hermann Kern, lo “Chartres-type” sarebbe la risposta della Chiesa di Roma ai labirinti “nordici” pagani che dopo il collasso del Mondo antico (e quindi anche dei suoi labirinti musivi, affrescati, incisi ecc) sarebbero ritornati nell’Europa cristiana con le invasioni barbariche. L’ipotesi del diffusionismo potrebbe valere anche la tipologia forse più diffusa e antica di Labirinti; quella che viene chiamata “Classica” (o “Cretese”) in quanto è rinvenibile nel mondo Romano e nella Grecia classica. A questa categoria di labirinti (unicursali spiraliformi circolari, a volte quadrangolari) appartengono anche i già citati “Labirinti baltici” (in realtà sono presenti anche in regioni e isole del Mare del Nord, del Mare di Barents, del Mar Bianco). Ebbene, allo stato attuale delle ricerche (anche e soprattutto archeologiche) sembra che gli esemplari più antichi (risalenti all’Età del Bronzo) siano proprio dei labirinti “classici” presenti nelle regioni più settentrionali del nostro continente. In particolare quelli presenti in Carelia, sull’arcipelago delle isole Solovetski e nella Penisola di Kola, tutti territori della Russia europea. In realtà forse l’esemplare più antico potrebbe trovarsi dalla parte opposta d’Europa e precisamente in Sicilia. Sarebbe un altro primato nel campo dei labirinti tutto italiano. Si tratta di un pittogramma presente nella Grotta di Polifemo vicino a Erice in provincia di Trapani. 



Sulla volta della caverna è stato dipinto un simbolo che, sebbene piuttosto rovinato, sembra raffigurare un labirinto “classico” spiraliforme. Il pittogramma non è stato datato (anche se in via teorica sarebbe possibile, essendo stato fatto con pigmenti naturali probabilmente di origine organica) ma sono stati datati i reperti recuperati dagli strati del fondo della grotta e risalgono al Neolitico! Nel mio libro GUIDA CURIOSA AI LABIRINTI D’ITALIA, illustro in maniera analizzata non solo questo straordinario esemplare (e gli altri pittogrammi che decorano la caverna) ma soprattutto le ricerche e le incredibili scoperte fatte dal professor Ignazio Burgio di Catania su evidenze relative ad allineamenti archeoastronomici della Grotta di Polifemo e dei pittogrammi ivi contenuti.

MLR: A quale labirinto sei più legato dal punto di vista concettuale e se vogliamo anche emotivo? E perché?

G.P.: Credo dia verlo già spiegato poc’anzi. Ovviamente quello con il Cristo al centro visibile ad Alatri e non solo perché, assieme a mia moglie Sonia e ad altri amici ricercatori come ad esempio Tommaso Pellegrini e Giulio Coluzzi l’ho studiato per quasi 10 anni e ho contribuito a far si che venissero stanziati i fondi per restaurare l’affresco e salvarlo. Circa 100.00 euro stanziati dal Governo e utilizzati dalla Soprintendenza. Soldi di tutti i cittadini Italiani. Oggi quell’opera d’arte, iconograficamente unica al mondo, è tornata ad essere patrimonio di tutti e visibile a tutti.
Poi sono molto legato al Labirinto affrescato nella Erikskyrka, una chiesa della piccola località di Grinstad sperduta nella foresta della Svezia Sudoccidentale. Si tratta di uno “Chartres-type”, quasi conosciuto tranne che a pochi esperti di labirinti (come l’archeologo inglese Jeff Saward che mi onora della sua amicizia).


            Giancarlo Pavat e il labirinto di Grinstad in Svezia

 Si tratta dell’unico esemplare scandinavo di “Chartres-type”. Inoltre è quello, in assoluto, posizionato più a settentrione e, soprattutto, è l’unico affrescato oltre a quello di Alatri. Per questi motivi, e con il fine di cercare eventuali risposte ai misteri che aleggiavano (e aleggiano in parte ancora oggi) attorno a quest’ultimo esemplare, nel 2011 organizzai una vera e propria spedizione di ricerche. Oltre al sottoscritto e a mia moglie Sonia Palombo, ne facevano parte Marco Di Donato e sua moglie Manuela Guglielmi, Paolo Ruggeri e Domenico Pelino. Venne battezzata “Prima Spedizione Italiana di Ricerche Storiche nel Dalsland”. Il Dalsland è la splendida ma sperduta regione storica in cui si trova la località che ospita il labirinto. Essendo la prima volta in assoluto che ricercatori italiani si recavano in quella zona, poco frequentata persino dagli stessi svedesi, gli organi di stampa locali diedero ampia copertura alla spedizione e ai risultati delle ricerche. Personalmente ottenni l’aprezzamento del dottor Sven-Olov Andreasson, presidente del “Dalslands Fornminnes-Och hembyggdsforbund” (ovvero “Ente di ricerche storiche della regione del Dalsland”, in pratica la “Soprintendenza“ di quella regione svedese). Non trovammo collegamenti diretti tra i due “Chartres-type” affrescati ma, al contempo, rivenimmo indizi di una sconosciuta presenza dei celebri Cavalieri Templari in quella regione. Sono molto legato al Labirinto di Grinstad soprattutto per la bellissima avventura vissuta in quel ormai lontano giugno del 2011, e per i ricercatori, giornalisti, docenti universitari, persino il pastore luterano, incontrati in quell’occasione e con alcuni dei quali sono rimasto in rapporti di amicizia e ci siamo incontrati anche successivamente. 

MLR: Giancarlo, il cervello umano visivamente, potrebbe essere ricondotto ad in intricatissimo labirinto. È azzardato ipotizzarlo come la genesi che successivamente è divenuta nostra eredità da parte di una superciviltà primeva, (leggi) Atlantide? 

G.P.: Effettivamente esistono alcuni labirinti, piuttosto antichi (cito solo uno, presente tra i petroglifi della Val Camonica in Lombardia) che assomigliano davvero ad un cervello umano.



Il concetto di Labirinto come metafora del nostro cervello è effettivamente suggestiva. Ma non credo che sia quella la genesi del simbolo che conosciamo con il nome di Labirinto. Io ho fatto sei viaggi di ricerca in Scandinavia e Finlandia, sul Mare del Nord, sulla grande isola baltica di Gotland, alla ricerca delle origini del Labirinto, ma c’è chi si è spinto ancora più lontano e più a settentrione. Si tratta di un ingegnere italiano Marco Bulloni di Milano che ha esplorato l’arcipelago delle isole Solovetski in mezzo al Mar Bianco e la Penisola di Kola. Siamo diventati amici e nella mia GUIDA CURIOSA AI LABIRINTI D’ITALIA descrivo le sue ipotesi, ricerche e scoperte. Sembra che ci sia davvero di mezzo Atlantide (o comunque la Civiltà che avrebbe dato origine al Mito) ma non nel senso che hai ipotizzato tu nella domanda.

MLR: Ampliando gli orizzonti della domanda precedente, riprendo un concetto bellissimo che hai scritto nel tuo libro: “…il labirinto è uno dei pochi simboli (se non l’unico) a non essere stato usato per fini politici, religiosi, ideologici, di dominio. La politica, le religioni, le ideologie, il potere per forza di cose dividono, separano, prevaricano. Il labirinto no! È un simbolo che davvero sembra affratellare l’umanità intera…” In questi tempi caotici e schizofrenici, dove lo scontro sociale, l’intolleranza all’accoglienza di chi non ha più casa e patria sembra avere la meglio, abbiamo tutti bisogno di aggrapparci a qualcosa che stia al di là…delle nostre paure, debolezze e fragilità. Il simbolo del labirinto potrebbe celare una “ricetta segreta” per aiutarci a recuperare l’essenza dell’umanità perduta?

G.P.: Effettivamente, come già spiegato, il Labirinto è davvero presente in tutto il mondo, presso Culture e Civiltà lontane tra di loro nel Tempo e nello Spazio. Sottoscrivo quindi l’affermazione secondo la quale lo ritengo un Simbolo universale. Ma il Labirinto NON è un Simbolo globalizzante e massificante. Appartiene a tutti gli Uomini perché, lo ripeto, credo sia un archetipo proprio della Coscienza Collettiva di tutta l’Umanità ma NON è un Simbolo uguale per tutti gli Uomini. Anzi. Ogni esemplare è peculiare di chi l’ha adottato, realizzato, inventato. Non solo dal punto di vista iconografico o dei materiali con cui è stato realizzato ma, soprattutto, dal punto di vista dei concetti, delle idee, dei valori, dei significati che ognuno ha letto, visto e infuso nel Labirinto. Il significato e l’uso che ne fanno gli sciamani Sami della Lapponia non è certamente quello per cui lo realizzavano i Romani o i Greci.

MLR: Come scriveva Platone nel famoso “mito della caverna” (libro settimo de La Repubblica), antesignano o metafora della metafora, anche noi dunque ci districhiamo quotidianamente nei labirinti della vita. Labirinti che si intrecciano ad altri labirinti in un dedalo che sembra infinito e del quale molto spesso, non vediamo la vera uscita ma solo un’ombra, un’illusione. Dobbiamo ricominciare da capo. Forse il vero segreto che cela il labirinto e quello di non darsi mai per vinti? Ogni volta davvero impariamo la lezione ed agguantiamo un tratto del “filo” di Arianna che ci fa guadagnare qualche metro verso la “vera” uscita dal mondo delle ombre? Oppure è tutta una finzione e siamo destinati a restare prigionieri con l’illusione (Matrix) di essere liberi?

G.P.:  Ritengo che il principale (e forse più importante) messaggio del labirinto, indifferentemente dalla tipologia di appartenenza e dalla Cultura che l’ha realizzato, sia quello di farci capire che per quanto sia difficile, dura, piena di sofferenze e dubbi, la nostra esistenza, c’è sempre una strada che porta all’uscita. Non importa quanto lunga, arzigogolata, irta di vicoli ciechi. L’uscita esiste. Sempre. Dobbiamo solo cercarla.

MLR: Grazie Giancarlo, forse ci siamo davvero avvicinati un poco di più alla verità; all’ingresso della caverna nella quale vedevamo solo ombre che simulavano la realtà, che non è ancora del tutto percepibile dai nostri rozzi sensi biologici, ancora sconnessi dal vero Spirito che ha generato il Kosmo.



Bibliografia:
Giancarlo Pavat: GUIDA CURIOSA AI LABIRINTI D’ITALIA, UN VIAGGIO ALLA SCOPERTA DI LUOGHI MISTERIOSI E RICCHI DI SIMBOLI NASCOSTI – NEWTON COMPTON EDITORI  2019
Giancarlo Pavat, Giancarlo Marovelli, Fabio Consolandi, Luca Pascucci e Fabio Ponzo: IN CAMMINO FINO ALL’ULTIMO LABIRINTO, DALLA SCOPERTA DEL LABIRINTO DI SANTA SINFOROSA AI TROJABORGAR DEL BALTICO – YUOCANPRINT  2013
Giancarlo Pavat, Fabio Consolandi e Luca Pascucci: GOTLAND. VIAGGIO ALLE ORIGINI DEL LABIRINTO” (in italiano ed inglese) (BLURB EDIZIONI 2013);
Marco La Rosa: IL RISVEGLIO DEL CADUCEO DORMIENTE – OmPhi LABS 2015

ARTICOLO GIA' PUBBLICATO SULLA RIVISTA BIMESTRALE: "IL GIORNALE DEI MISTERI" (I LIBRI DEL CASATO) N. 547 GENNAIO - FEBBRAIO 2020 - DA PAG. 39 A PAG. 44. 

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DI MARCO LA ROSA
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