Multidisciplinarietà e
interdisciplinarietà
Evoluzione del pensiero di Ernesto de Martino
“La multidisciplinarietà è una delle sfide con cui la
ricerca accademica dovrà prima o poi confrontarsi. A
causa dell’elevato grado di
specializzazione del sapere odierno, la possibilità che un solo campo del sapere si consideri preminente è ormai sempre meno credibile. L’interdisciplinarietà si pone così come possibilità per far comunicare, ed a un
tempo progredire, i numerosi punti di vista che si sono aperti sul mondo e lo
studio dell’uomo.”
di: Davide
Balzano
"Ernesto de Martino fu uno dei pionieri italiani di tale
approccio. Lo studioso partenopeo, vissuto tra il 1908 ed il 1965, si impose
sulla scena nazionale e marginalmente in quella internazionale negli anni
immediatamente precedenti alla guerra, proseguendo poi gli studi fino al
termine della sua vita; la sua opera intellettuale sta vivendo oggi una fase di
rinnovato interesse e di continua rivalutazione. Laureatosi in lettere nel 1932
con un tesi in storia delle religioni, de Martino non faticò ad essere introdotto nella cerchia di Benedetto Croce,
autore le cui tesi erano talmente diffuse (soprattutto in ambiente napoletano)
da rendere impervia la strada per chiunque intendesse portare avanti idee
eccessivamente discostanti dalle sue.
Fu
proprio con questi, d’altronde, che de Martino
consumò la sua prima grande polemica,
quando, in seguito alla pubblicazione del Mondo Magico (1948), opera che
ipoteticamente avrebbe dovuto costituire il primo capitolo di un’incompiuta storia del magismo, B. Croce bacchettò il suo discepolo, colpevole di essersi eccessivamente
allontanato dallo storicismo d’impronta idealistica al tempo
dominante in ambito universitario. Avendo trovato ben poco sostegno nel mondo accademico
e soffrendo per le dure critiche dell’ancora stimato maestro, de
Martino abbandonò l’ambiziosa impresa, preferendo dunque sfruttare le proprie
energie per proporre un’interpretazione di quei
fenomeni che erano sfuggiti alle maglie dell’idealismo
crociano, fatto che gli consentì di incontrare resistenze ben
minori e al contempo di proporre punti di vista decisamente originali.
Fu
tuttavia anche un ulteriore evento a patrocinare questa nuova fase della sua
vita: l’impegno politico militante
assunto agli inizi degli anni ’50 e perseguito per circa un
decennio, prima con il Partito Socialista, quindi con il Partito Comunista
Italiano, lo portò a viaggiare nel territorio
scoprendo realtà a lui sconosciute. Si trovò
così immerso in una società
fragile e dai contorni sfumati in cui quella certezza tipicamente occidentale
di vivere in un mondo già deciso subiva brusche sospensioni, di
fronte alle quali credenze e ritualità finivano per assumere il
ruolo di momenti regolatori dell’esistenza, unici lampi di sfogo
in una vita fatta di fatica e continue difficoltà:
era questo il Mezzogiorno, il Sud più profondo e meno toccato dall’Illuminismo, in cui la Chiesa era scesa a patti con il
folclore, si era insinuata, più che imposta.
Fu
proprio per questo che tale periodo venne in seguito ribattezzato il “periodo meridionalista” di Ernesto de Martino, ed è per via della molteplicità
di innovazioni e proposte in esso contenute che mantiene tutt’oggi un forte richiamo nei più
disparati studi umanistici. Proprio nel corso di uno di questi viaggi, durante
l’esplorazione delle terre
pugliesi nel tentativo di risolvere l’enigma della “taranta” (La terra del rimorso, 1961),
de Martino propose una metodologia assolutamente nuova per il panorama
italiano, affiancando esperti di disparati settori, ed anzi promuovendo l’interazione tra le scienze, sia umane sia naturalistiche,
al fine di avere successo nelle indagini in campo etnologico.
Se già nel Mondo magico difatti erano apparsi i primi, timidi
tentativi di incrociare filosofia, antropologia e psicologia, soprattutto nelle
allora poco apprezzate derive parapsicologiche, in questo caso l’approccio multidisciplinare divenne quasi una premessa alla
lettura dell’opera, ed anzi agli occhi dell’autore una proposta metodologica imprescindibile da
qualsiasi futura ricerca di questo genere. Intrecciando abilmente medicina,
storia della religione, musicologia, sociologia, etnologia, neuropsichiatria ed
un lungo elenco di altre branche più o meno ampie dello scibile
umano, de Martino presentò un’immagine del Sud ai tempi decisamente poco conosciuta,
mostrandone punti deboli e qualità sotto una nuova luce,
stimolando nuove riflessioni e dando il via a quello che è oggi denominata “etnografia urbana”, il tentativo di svolgere un’indagine
sull’uomo anche all’interno di contesti cittadini, che essi siano
particolarmente sviluppati o meno.
Nell’introdurre il suo studio sui “tarantati” e nel descrivere le fasi preparatorie in cui coinvolse gli
esperti della sua equipe, de Martino mosse una critica che difficilmente passa
inosservata a chi abbia analizzato l’opera del pensatore
napoletano:
“In quelle riunioni si
riflettevano, messe a fuoco dal concreto problema storico – religioso da affrontare, le difficoltà derivanti dalla lunga desuetudine al dialogo fra umanisti
e naturalisti, difficoltà che […] erano rese acute dalla più
recente storia culturale del nostro paese, dove il Positivismo fu angusto più che altrove […]. Riaffioravano, in quelle
riunioni, esprimendosi per bocca dei diversi partecipanti, le varie chiusure
corporative e gli opposti dogmatismi che erano i risultati di dialoghi da lungo
tempo intermessi, o mai inaugurati” (La terra del rimorso, Il
Saggiatore, Milano, 2009, p. 58).
Nel corso
dei suoi ultimi anni di vita, dopo aver parzialmente abbandonato anche questo
sentiero, l’autore proseguì l’approfondimento di quelle
tematiche che spontaneamente si volgevano ad uno studio multidisciplinare, con
l’evidente tentativo di fare in
modo che esso divenisse in maniera più significativa “interdisciplinare”, cioè non il semplice
accostamento di diversi saperi, bensì
l’accompagnarsi di questi nella
ricerca di una medesima risposta, come a completare un mosaico usando pezzi di diversa
natura materiale. Fu sull’onda di questo spirito che
iniziò le sue ricerche sulle
apocalissi culturali, sui rituali antichi, sull’interpretazione
delle immagini schizofreniche e di quelle sciamaniche, accumulando un’immensa mole di appunti rimasta tale e pubblicata in
seguito all’opera di raccolta svolta dal
professor A. Brelich, venendo alla luce nel 1977 col titolo “La fine del Mondo. Contributo all’analisi della apocalissi culturali”.
Se la
morte non fosse sopraggiunta, resta difficile tuttavia pensare che de Martino
sarebbe riuscito a trovare molti altri autori disposti ad abbracciare il suo
stile metodologico; certo, è sempre più diffusa, anche laddove a volte non sembri neanche troppo
lecita, la tendenza a sfruttare saperi di varia provenienza nell’analizzare tematiche particolari, e ciò soprattutto in seguito a recenti acquisizioni in diversi
campi, che siano derivanti dalle neuroscienze o dalla riscoperta di
documentazioni sin’ora sottovalutate; appare tuttavia questa una propensione
ancora poco presente in Italia, nazione forse ancora attanagliata dall’eredità
positivista, o forse imprigionata dalle medesime corporazioni di cui già
accennava il de Martino, le quali tuttavia, nel difendere il loro oggetto di
studio, ne sacrificano le possibilità
di espansione, col rischio di renderlo sterile e di creare un linguaggio utile
solo a loro stesse e dunque visto come inutile da chi non ne faccia parte.
È questo un pericolo che
corrono soprattutto le scienze umanistiche, e sono proprio queste dunque che
devono cercare con maggior ardore la collaborazione, stringendo legami,
portando avanti letture più complesse, ma
conseguentemente più complete e
originali, avvalendosi dei nuovi strumenti dell’era
informatica, ed avvicinandosi, nei limiti del possibile, a quelle discipline
scientifiche che potrebbero permettergli di creare nuovi modi di analizzare il
mondo, come l’ecologia o le
neuroscienze, per poi allargare l’orizzonte
a campi oggi ancora meno accessibili. Ed ancora una volta, probabilmente,
Ernesto de Martino potrà dire la sua nel
caso questa necessità venisse realmente
colta fuori e (o) dentro il mondo accademico."
http://reti.ilcambiamento.it/doie/2012/02/10/multidisciplinarieta-e-interdisciplinarieta-–-evoluzione-del-pensiero-di-ernesto-de-martino/
1 commento:
Sono d'accordo con lo spirito dell'articolo, anche se penso che lo sforzo di apertura, del mondo scientifico e di quello umanistico, dovrebbe essere reciproco. Quello umanistico, per sua natura, è già multidisciplinare e spazia dalle lingue e culture antiche e moderne, alla storia e filosofia, all'arte, alla musica e spettacolo, alla religione e quant'altro. Tutto sommato, mi sembra che le scienze siano molto più specialistiche e settoriali.
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