IL RISVEGLIO DEL CADUCEO DORMIENTE: la vera genesi dell'Homo sapiens

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VIDEO SINOSSI DELL'UOMO KOSMICO

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Con questo libro Marco La Rosa ha vinto il
PREMIO NAZIONALE CRONACHE DEL MISTERO
ALTIPIANI DI ARCINAZZO 2014
* MISTERI DELLA STORIA *

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LA NUOVA CONOSCENZA

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GdM

sabato 30 novembre 2019

IL RITORNO DEL "TALACINO"



Ufficialmente estinta, la tigre della Tasmania sarebbe stata avvistata in Australia

Un animale che si ritiene si sia estinto più di 80 anni fa potrebbe invece esistere ancora. Il carnivoro a strisce noto come la tigre della Tasmania fu dichiarato estinto nel 1936, ma il governo australiano ha ricevuto più segnalazioni di avvistamenti: sarebbero infatti almeno otto gli avvistamenti ricevuti negli ultimi tre anni, secondo quanto indicato in un documento pubblicato dal Dipartimento delle industrie primarie, dei parchi, dell'acqua e dell'ambiente della Tasmania.


La tigre della Tasmania, o tilacino, era un marsupiale - un animale che tiene i suoi piccoli in un marsupio, come un canguro – con una lunga coda simile a un gatto e lineamenti che ricordano una volpe o un lupo.

Il Museo australiano afferma che aveva una pelliccia bruno-giallastra,  strisce sul dorso, mascelle potenti e denti affilati e orecchie appuntite. La tigre della Tasmania si muoveva lentamente e, come i gatti, cacciava di notte. Viveva attraverso l'Australia, la Nuova Guinea e la Tasmania, ma finì confinato in Tasmania fino a quando non fu dichiarato estinto, spiega il museo. Mentre non si sa esattamente cosa abbia portato all'estinzione della tigre della Tasmania, il museo ipotizza che sia il risultato della competizione con il dingo e della caccia da parte degli uomini. Secondo quanto ritenuto, l'ultimo esemplare è morto in cattività più di 80 anni fa. Ma un rapporto che riporta un avvistamento di febbraio afferma che i testimoni sono «sicuri al 100% che l'animale che hanno visto fosse un tilacino». Il gruppo stava visitando la Tasmania dall'Australia occidentale quando hanno visto un animale con una "coda rigida e ferma" uscire sulla strada di fronte a loro. In un rapporto di avvistamento di un anno prima, i testimoni hanno visto una "grande creatura simile a un gatto" che attraversava la strada e un testimone ha affermato che «non avevano mai incontrato un animale simile a quello che ho visto in Tasmania quel giorno». Nel 2002, la CNN riferì che gli scienziati del museo avevano replicato il DNA di una tigre della Tasmania, sperando di riportare indietro la specie. Ma forse non si è davvero mai estinta.

da:
https://www.lastampa.it/la-zampa/altri-animali/2019/10/19/news/ufficialmente-estinta-la-tigre-della-tasmania-sarebbe-stata-avvistata-in-australia-1.37764151

A TAL PROPOSITO, INVITO A GUARDARE IL BEL FILM DAL TITOLO:

The Hunter, film del 2011 diretto da Daniel Nettheim.


Il film, con protagonisti Willem Dafoe, Sam Neill e Frances O'Connor, si basa sull'omonimo romanzo scritto da Julia Leigh nel 1999, che prende spunto dal fatto che in Tasmania vi siano state effettivamente numerose segnalazioni di avvistamento di un animale ufficialmente estinto: il tilacino o tigre della Tasmania.

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mercoledì 27 novembre 2019

COSA E' IL "PRIME EDITING"?



Prime editing: una nuova rivoluzione nel campo dell'editing genetico.

SEGNALATO DAL DR. GIORGIO PATTERA (BIOLOGO)

La cassetta degli attrezzi per interventi di correzione molecolare si arricchisce di uno strumento che potrebbe intervenire sull'89% delle mutazioni all'origine di malattie genetiche. Una promessa che dovrà essere affinata, prima che la si possa sperimentare sull'uomo.

Uno strumento di editing genetico alternativo alla CRISPR/Cas9 sembra offrire un maggiore controllo nella correzione del DNA, perché aumenta le chance per i ricercatori di ritrovarsi soltanto con le mutazioni desiderate, riducendo i cosiddetti effetti off-target (non previsti).

La tecnica ribattezzata prime editing e descritta sulla rivista Nature, è stata messa a punto da Andrew Anzalone e David Liu, del Broad Institute of Harvard and MIT di Cambridge, Massachusetts. In base alle prime stime, consentirebbe di editare l'89% delle oltre 75 mila più diffuse varianti del genoma umano associate allo sviluppo di malattie, riducendo il rischio di inserzioni o delezioni non volute all'interno del DNA, il "libretto di istruzioni" conservato all'interno delle nostre cellule.

IL CONFRONTO CON LA CRISPR. Tanto la CRISPR/Cas9 quanto il prime editing permettono di intervenire in un punto specifico del genoma, perché sfruttano l'enzima Cas9, che riconosce la sequenza errata di basi. La CRISPR/Cas9 taglia entrambi i filamenti della doppia elica del DNA e lascia poi che sia la cellula stessa a riparare il danno subito, inserendo la sequenza corretta. Questo sistema di autoriparazione è tuttavia imperfetto e non sempre affidabile, e finisce spesso per inserire o cancellare lettere indesiderate nei punti in cui il genoma è stato tranciato. Gli effetti di queste mutazioni off-target spaziano dalla non efficacia dell'intervento al possibile sviluppo di conseguenze gravi, come proliferazioni incontrollate delle cellule e tumori. Anche quando viene inserita una "guida" da prendere a modello per la riparazione del DNA, il sistema di autoriparazione cellulare è restio a seguire l'esempio fornito: è perciò estremamente difficile sfruttare la CRISPR/Cas9 per sovrascrivere, su un tratto di DNA, la sequenza corretta.

Che cos'è e come si fa l'editing genetico?

UN'ELICA PER VOLTA. Il prime editing si dirige sulla zona da correggere esattamente come le forbici molecolari precedenti, ma non recide tutta la doppia elica: scalfisce soltanto uno dei due filamenti, e sfruttando un secondo enzima chiamato trascrittasi inversa scrive una nuova sequenza corretta di DNA al posto del tratto tagliato. A questo punto, la proteina Cas9 modificata taglia l'altro filamento di doppia elica (quello non modificato) in modo che questo si auto-ripari usando la sequenza corretta inserita nell'altra "metà". Così facendo, nulla viene lasciato alla mercé del sistema di riparazione genetico cellulare, che non è controllabile. Utilizzare il prime editing, spiegano i ricercatori, è come digitare Ctrl-F per cercare la parola da cambiare in un testo, e poi a premere Ctrl-C e Ctrl-V per copiarvi sopra una nuova parola corretta.


Prime editing: un nuovo strumento di editing genetico

Da un'efficace infografica pubblicata su Nature: il prime editing riduce il numero di mutazioni indesiderate nel genoma inserendo le modifiche desiderate nel DNA stesso. Al contrario, la CRISPR/Cas 9 lascia che sia il sistema di riparazione del DNA cellulare a introdurre i cambiamenti necessari.

A CHE PUNTO SIAMO

Lavorando su colture di cellule umane in laboratorio, gli scienziati sono riusciti ad effettuare 175 diverse correzioni del codice genetico, senza "sbavature". In uno dei test sono intervenuti sulle mutazioni all'origine dell'anemia falciforme, una malattia genetica ereditaria del sangue. In un altro sono riusciti a rimuovere le quattro lettere extra su un particolare gene alla base della malattia di Tay-Sachs, una rara condizione che causa ritardo mentale e cecità e che spesso si rivela fatale entro i cinque anni di età.


Di conseguenze indesiderate della CRISPR si è molto parlato, in occasione dell'editing genetico dell'embrione in Cina. | MARCOS__SILVA / SHUTTERSTOCK

Prima che si possa anche soltanto pensare di testare il prime editing sull'uomo, occorrerà valutarne la sicurezza su nuove colture cellulari e su altri organismi viventi: «Questo primo studio è l'inizio, e non la conclusione, di un'aspirazione di lungo corso nelle scienze della vita, quella di poter effettuare qualunque variazione del DNA in una qualunque posizione di un organismo» commenta Liu. Un'altra sfida è riuscire a consegnare questo strumento alle cellule in quantità sufficienti a operare le modifiche desiderate.

UNO STRUMENTO PER OGNI NECESSITÀ.

 In ogni caso, il prime editing è destinato ad affiancare, e non a sostituire, gli strumenti di editing genetico già in uso. Non è infatti capace di lunghe inserzioni o delezioni come la CRISPR/Cas9 - è più adatto per emendare sequenze corte. Senza contare che per gli interventi su singole lettere esiste anche l'editing di basi, una tecnica più vecchia e altrettanto precisa che però, rispetto al prime editing, non è in grado di agire su malattie genetiche causate da alterazioni non di una soltanto, ma di più basi azotate.

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lunedì 25 novembre 2019

SCOPERTO UN NUOVO TIPO DI VIRUS?



Segnalato dal Dott. Giuseppe Cotellessa (ENEA)

Da Tokyo un gruppo di ricerca annuncia la scoperta: tra le feci di maiale, un nuovo virus senza proteine e perciò forse incapace di attaccare direttamente le cellule ospiti. I ricercatori ipotizzano sia costretto a sfruttare un virus ausiliare per infettare.

I virus mettono in questione le nostre classificazioni biologiche: mancano di architettura cellulare, sono materiale genetico racchiuso in un contenitore proteico, capace di infettare cellule ospiti e così di replicarsi. Gli scienziati si chiedono: è vita? A complicare la questione, un nuovo, bizzarro tipo di virus che i ricercatori dell’Università di Agricoltura e Tecnologia di Tokyo (Tuat) hanno trovato, analizzando feci di maiale. Il virus non ha proteine strutturali e non attacca direttamente le cellule ospiti ma, probabilmente, sfrutta il lavoro di un virus ausiliare. È risultato difficile per gli scienziati giapponesi capire di che cosa si trattasse esattamente. Tra le feci di maiale hanno trovato un tipo di enterovirus G, EV-G, un genere di virus normalmente presente nella diarrea dei suini, virus cui appartengono anche i poliovirus – responsabili delle varie forme di poliomelite. Sono virus che come materiale genico hanno un solo filamento dell’acido nucleico Rna (e non il dna) capaci di ricombinarsi facilmente. “La ricombinazione tra famiglie virali differenti accade in tutti gli allevamenti di maiali”, spiega Tetsuya Mizutani, autore della ricerca e direttore del centro di ricerca che si occupa di infezioni animali globali alla Tuat. “Questi virus ricombinanti hanno la capacità di connettersi all’ospite in modi nuovi”. Ma in questo caso curioso, il nuovo virus ha alcuni geni di supporto al posto delle proteine strutturali che caratterizzano gli EV-G. Perciò al momento lo strambo virus è stato battezzato EV-G tipo 2.C’è un altro particolare. Secondo i ricercatori, proprio perché manca della struttura proteica, questo virus non sarebbe in grado di invadere una cellula ospite per proprio conto e dunque di propagarsi. E allora com’è possibile che fosse tra le feci di un maiale, com’è possibile che esista? La spiegazione che, per ora, ha avanzato il gruppo di ricerca sulle pagine di Infection, Genetics and Evolution è che questo virus difettivo sfrutterebbe le proteine di un virus ausiliare riuscendo così ad attaccare le cellule e a replicarsi. A suggerire questa ipotesi è proprio il fatto che nello sterco i ricercatori abbiano individuato genoma sia di questo nuovo tipo 2, che di tipo 1, un consueto enterovirus che forse ha fatto da ausiliare. Come avvenga il processo è però ancora ignoto. E se poi non fosse così, i ricercatori si chiedono come altrimenti il nuovo virus possa recitare la parte che gli spetta e diffondersi. “Forse siamo di fronte a un sistema di evoluzione virale del tutto nuovo”, conclude Mizutani. “Ci chiediamo come questo nuovo virus possa essere quello che è e come infetti le cellule. Il nostro futuro lavoro cercherà di risolvere questo mistero dell’evoluzione virale”

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sabato 23 novembre 2019

LE "CULLE" DELL'UMANITA'



Forse fu questa la culla dell’umanità ?

Una nuova ricerca sostiene che tutto ebbe inizio in un enorme lago africano ora scomparso, ma le sue conclusioni sono contestate da numerosi esperti.

Fino a circa 10mila anni fa nella parte meridionale dell’Africa, nel territorio dell’odierno Botswana, c’era il Makgadikgadi, un gigantesco lago che secondo alcuni ricercatori offrì le condizioni ideali ai nostri antenati per svilupparsi, prima di esplorare e colonizzare il resto del mondo. Secondo le teorie più diffuse la specie umana ebbe le proprie origini in Africa, ma tempi e modalità con cui si differenziò e lasciò il continente sono ancora piuttosto dibattute. Una nuova ricerca, da poco pubblicata sulla rivista scientifica Nature, ipotizza un periodo temporale diverso da quello stimato finora, ma ha suscitato forti reazioni e grande scetticismo da parte dei paleoantropologi che da decenni cercano di ricostruire le nostre origini.

Il nuovo studio è stato coordinato da Vanessa Hayes, una genetista dell’Istituto di ricerca biomedica Garvan in Australia, che insieme ai suoi colleghi ha analizzato il DNA dei mitocondri (gli organelli che si occupano di produrre l’energia per le cellule) nei khoi e nei san, due particolari gruppi etnici dell’Africa meridionale ritenuti insieme la popolazione più antica dalla quale sarebbero nati tutti gli altri gruppi di umani che si sono diffusi nel mondo.




Il DNA mitocondriale – cioè il DNA dei mitocondri – è distinto da quello del nostro organismo e viene ereditato per via materna. Durante la fecondazione, i mitocondri contenuti nello spermatozoo vengono degradati, con il risultato che il genoma mitocondriale (cioè la totalità del DNA dei mitocondri) dei figli è quasi identico a quello della madre. Per questo da tempo si parla di “Eva mitocondriale”, cioè della possibilità che tutti gli esseri umani abbiano una linea di discendenza femminile che deriva da una sola donna. Questa antenata comune potrebbe essere vissuta in Africa centinaia di migliaia di anni fa, ma collocarne l’esistenza in modo preciso nel tempo non è semplice e i tentativi svolti finora per farlo hanno lasciato perplessi molti ricercatori.

Secondo le teorie più condivise, la linea di discendenza a un certo punto si sarebbe divisa in due grandi rami che rispecchiano ancora oggi il genoma mitocondriale degli esseri umani. Un ramo, chiamato L0, è presente per lo più nell’Africa meridionale in piccoli gruppi etnici come quelli dei khoi e dei san. L’altro, chiamato L1-6, comprende grossomodo tutti gli altri esseri umani e ha quindi ricevuto più attenzioni rispetto al primo, anche perché comprende le popolazioni dell’Occidente, generalmente più studiate.


Hayes ha quindi pensato di dedicarsi a L0, selezionando 200 individui appartenenti a questo gruppo, i cui dati sono poi stati aggiunti a un set già raccolto in passato e che comprendeva un altro migliaio di individui. Analizzando le caratteristiche del genoma, e sfruttando alcune tecniche che consentono di simularne i cambiamenti nel corso del tempo risalendo da una generazione all’altra, Hayes ha concluso che L0 comparve nella zona in cui si trovava il lago Makgadikgadi circa 200mila anni fa. Nello studio, i ricercatori scrivono inoltre che per 70mila anni L0 cambiò poco, e che quindi la migrazione dei primi umani moderni potrebbe essere iniziata intorno ai 130mila anni fa.

Sulla base di altre simulazioni, Hayes ritiene che la sua ipotesi sia coerente con le condizioni ambientali e del clima di quella remota epoca. L’Africa meridionale era per lo più arida, fatta eccezione per le zone paludose intorno al lago che costituivano una sorta di oasi. I primi umani non ebbero per millenni particolari ragioni per abbandonare la zona, visto che allontanandosi avrebbero incontrato terreni aridi con poca fauna e vegetazione per sostenersi. Le cose cambiarono man mano che aumentò l’umidità nella zona, aprendo nuove vie fertili per allontanarsi verso nord-est e verso sud-ovest, consentendo infine ai primi umani moderni di lasciare il lago e di avventurarsi in nuovi territori. Man mano che migrarono, il loro genoma mitocondriale si diversificò, portando poi alle altre linee di discendenza. La linea temporale dei 200mila anni per la comparsa dei primi individui e dei 130mila anni per le prime migrazioni identificata nello studio di Hayes non convince però la maggior parte dei ricercatori. La ricerca è stata pubblicata da pochi giorni e si sono già accumulate diverse critiche, come spiega l’Atlantic. La più ricorrente riguarda la scelta dei ricercatori di prendere in considerazione solamente il genoma mitocondriale dei khoi e dei san dei giorni nostri, che contiene solamente una piccola frazione delle informazioni genetiche sugli antenati dell’umanità. Lo studio non ha tenuto conto di molte altre scoperte degli ultimi anni, basate sul ritrovamento di fossili e altre tracce sui movimenti e la diffusione della nostra specie, Homo sapiens, centinaia di migliaia di anni fa. C’è per esempio uno studio di un paio di anni fa, che attraverso l’analisi di alcuni antichi genomi ha trovato indicazioni sul fatto che gli antenati degli odierni khoi e san si fossero differenziati da quelli di altre antiche popolazioni africane tra i 350mila e i 260mila anni fa, quindi in un periodo temporale molto antecedente a quello identificato dalla ricerca di Hayes e colleghi. Altri studi simili avevano rilevato ulteriori divisioni nelle linee di discendenza, ma non sono stati presi in considerazione nella nuova ricerca. L’analisi dei fossili, quindi di resti riconducibili all’epoca dei primi esseri umani, tracciano una storia ancora diversa. Nel 2017, per esempio, sono state scoperte in una grotta in Marocco alcune ossa che si stima risalgano a 315mila anni fa e che sono ritenute le più antiche mai trovate appartenenti a Homo sapiens, la nostra specie. Altri reperti databili a 180mila anni fa sono stati trovati in Israele, e sembrano suggerire che gli umani iniziarono a espandersi fuori dall’Africa prima di quanto fosse stato ipotizzato e di quanto stimi la ricerca di Hayes. Quest’anno, in Grecia, sono state inoltre ritrovate ossa risalenti a 210mila anni fa, sempre appartenenti a Homo sapiens e che sembrano fornire ulteriori conferme al fatto che all’epoca fossero già in corso migrazioni, con gruppi di umani che esploravano nuovi territori in cui vivere. Oltre ai resti fossili, ci sono poi i ritrovamenti di manufatti in pietra, la cui età è stimata intorno ai 300mila anni, trovati non solo in Sudafrica, ma anche in Kenya e più a nord in Marocco. La spiegazione che si danno diversi ricercatori, e che sta diventando sempre più condivisa, è che probabilmente l’umanità non ebbe origine in una sola parte dell’Africa, ma in più aree del continente. Questa teoria “multiregionalista” dice che gli umani moderni si svilupparono in più parti dell’Africa, entrando saltuariamente in contatto tra loro, mischiandosi progressivamente. Questo spiegherebbe perché fossili e strumenti risalenti ai medesimi periodi si trovino in posti molto distanti tra loro. Hayes ha risposto alle critiche dicendo di non negare le scoperte degli ultimi tempi. Ritiene però che i reperti trovati in questi anni comprendano epoche distanti tra loro e che, anche se ricondotti a Homo sapiens, non rappresentino l’umanità per come appare adesso. La ricercatrice sostiene di avere orientato la sua ricerca considerando gli umani anatomicamente moderni, appartenenti alla linea di discendenza che ci ha portato ai giorni nostri. C’è però qualche complicazione anche nell’approccio che dice di avere seguito Hayes. Le caratteristiche tipiche degli umani odierni non apparvero tutte insieme in uno stesso individuo fino a un periodo tra i 100mila e i 40mila anni fa. Questa finestra temporale trova la migliore spiegazione nella teoria multiregionalista e poco si adatta alla nuova ricerca. Molti indizi ci dicono che probabilmente non ci fu un solo gruppo di nostri antenati, ma che ce ne fossero diversi sparpagliati per l’Africa che mischiandosi tra loro innescarono la serie di eventi che portò a cosa siamo noi oggi.

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mercoledì 20 novembre 2019

MOLECOLE DI OSSIGENO NELL'ATMOSFERA DI MARTE



L’annuncio della Nasa: “Individuati su Marte i primi indizi della presenza di ossigeno nell'atmosfera”

Il laboratorio mobile del rover i Curiosity ha rilevato le molecole della vita sopra il cratere Gale.

La Nasa ha individuato per la prima volta indizi della presenza di ossigeno su Marte nella sua tenue atmosfera. La scoperta è stata fatta al di sopra del cratere Gale dal laboratorio marziano Curiosity, attivo dall'agosto 2012. Gli strumenti di Curiosity hanno misurato negli ultimi tre anni marziani, pari a circa sei anni terrestri, i cambiamenti stagionali dei gas nel cielo sopra il cratere Gale. E hanno, così, "annusato", a sorpresa, variazioni stagionali di molecole di ossigeno, considerato sulla Terra sinonimo di vita.

Gli scienziati di Curiosity, coordinati da Melissa Trainer, del Goddard Space Flight Center della Nasa, hanno pubblicato i risultati sulla rivista Journal of Geophysical Research: Planets. Le analisi sono state fatte dal laboratorio di Curiosity, Sam (Sample Analysis at Mars). L'ossigeno marziano sembra comportarsi come il metano, già annusato in passato da Curiosity. I suoi livelli sono, infatti, molto bassi nel periodo invernale, al di sotto dell'1%, scrivono gli scienziati della Nasa, ma crescono notevolmente in primavera ed estate. Proprio come fa il metano.

I ricercatori della Nasa non hanno al momento una spiegazione per queste fluttuazioni. "Abbiamo visto questa sorprendente correlazione tra l'ossigeno molecolare e il metano per buona parte dell'anno marziano, e ci ha sorpreso molto", ha spiegato Sushil Atreya, dell'Università americana del Michigan, ad Ann Arbor, tra gli autori dello studio. "I due fenomeni devono essere collegati, ma non so dire in che modo. Nessuno lo sa al momento", ha continuato l'esperto.

La crescita e la repentina diminuzione dei livelli di ossigeno marziano non possono essere spiegati, infatti, con le normali dinamiche dell'atmosfera. Per gli scienziati deve esserci un'altra causa, ad esempio di natura geologica. Una seconda possibile spiegazione lega, invece, le oscillazioni di ossigeno e metano alla presenza di eventuali forme di vita batterica. "Stiamo considerando tutte le ipotesi, anche se al momento non esistono prove di attività biologica su Marte", concludono gli esperti. Curiosity non ha gli strumenti per sciogliere il dubbio. Maggiori dettagli potranno arrivare da due missioni in programma nel 2020: ExoMars 2020, dell'Agenzia Spaziale Europea (Esa) e Mars 2020 della Nasa, che andranno a caccia di tracce di possibili forme di vita, presente o passata, su Marte.

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domenica 17 novembre 2019

IL MO.S.E.




Il MO.S.E. (MOdulo Sperimentale Elettromeccanico) è un progetto o opera di ingegneria civile, ambientale e idraulica (o anche geoingegneria), iniziato nel 2003 e tuttora in fase di realizzazione. Finalizzato alla difesa di Venezia e della sua laguna dalle acque alte, attraverso la costruzione di schiere di paratoie mobili a scomparsa poste alle cosiddette bocche di porto (i varchi che collegano la laguna con il mare aperto attraverso i quali si attua il flusso e riflusso della marea) di Lido, di Malamocco e di Chioggia, dovrebbe essere in grado di isolare temporaneamente la laguna di Venezia dal mare Adriatico durante gli eventi di alta marea.





PERCHÉ IL MOSE NON FUNZIONA?

L’esperto: nasce morto, è solo un esercizio di calcolo.

Il Mose di Venezia? “La sua realizzazione ha visto una serie di errori, tecnologie che non funzionano, ingegneria che lascia a desiderare”.

Usa parole profondamente amare il professor Marco Mancini, docente ordinario di Costruzioni idrauliche, insegnante di Sistemazione di bacini idrografici e infrastrutture idrauliche al Politecnico di Milano, nonché responsabile di progetti scientifici del Miur e dell’Esa, quando gli chiediamo della drammatica situazione che sta vivendo Venezia in queste ore. L’innalzamento record del livello delle acque, che ha toccato l’altro ieri addirittura i 187 centimetri, ha provocato la morte di due persone e danni gravissimi a strutture di interesse mondiale come la Basilica di San Marco.

                                                      Alluvione di Venezia del 1966

Può essere il Mose la soluzione a questi problemi?

In tanti hanno studiato il Mose come possibile soluzione, ma i risultati di un progetto che di fatto non è stato chiuso mai, mi fanno dire che è una soluzione che lascia a desiderare.In effetti, nel mirino è più volte finito il sistema protettivo, le schiere di paratie mobili a scomparsa poste alle cosiddette bocche di porto, cioè i varchi che collegano la laguna di Venezia con il mare aperto, che nelle intenzioni dovrebbero isolare la laguna dal mare Adriatico proprio durante le fasi di alta marea. Perché? Sarebbe interessante andare a chiedere a tutti quelli che hanno gestito il Mose quanto tempo hanno perso. E ai progettisti, perché non funziona. Pochi giorni fa, nel corso dell’ennesimo tentativo di collaudo della struttura, si sono verificate vibrazioni anomale e le cerniere delle paratie sono risultate arrugginite e da sostituire… 


Il Mose è un bell’esercizio di idraulica, ma probabilmente non è inserito bene nella realtà di Venezia. C’è chi porta come esempio il sistema posto a difesa della città di Londra, sul Tamigi. Che ne pensa?

È sì un sistema analogo, ma per la situazione del territorio che si affaccia sul Tamigi, meno complesso e meno esteso rispetto alla Laguna, è più semplice dal punto di vista della movimentazione della paratia, che infatti non si gonfia. Lì non viene immessa aria e si toglie l’acqua come con il Mose, ma funziona con un meccanico rigido.

                                                             Barriera del Tamigi

                                                 Barriere di Rotterdam (Paesi Bassi)

Insomma, sul Mose l’ingegneria italiana non ci fa una bella figura?

Stiamo parlando di società di ingegneria importanti che hanno lavorato per il Mose, eppure il sistema non funziona. Vuol dire che il progetto non può essere solo un mirabile esercizio di calcolo, ma va inserito bene là dove deve funzionare.

È un po’ quello che è successo con il ponte Morandi a Genova?

Anche il ponte Morandi era un mirabile esercizio di calcolo, ma lo stesso Morandi si diceva preoccupato perché era posizionato in un posto dove l’atmosfera era corrosiva per la sua struttura, dunque non era la soluzione giusta. Evidentemente anche per il Mose vale lo stesso discorso.

C’è da augurarsi, quindi, che vengano risolti i problemi tecnologici, frutto di una progettazione non del tutto attenta, così che le pareti del Mose non corrano il rischio di arrugginirsi?

La sua realizzazione ha visto evidentemente una serie di errori, tecnologie che non funzionano adeguatamente e probabilmente siamo in presenza di un’ingegneria che lascia un po’ a desiderare.
Intanto tutto il mondo è sottoposto a cambiamenti climatici estremi.

Quanto influiscono sulla singolarità di Venezia dal punto di vista idrologico?

Il problema di Venezia è complesso. Nasce su una laguna, che è soggetta alle fluttuazioni cicliche delle maree, e l’acqua alta è un fenomeno che si manifesta per la concomitanza di più fattori, legati per esempio all’astronomia o ai venti che provengono dal sud dell’Adriatico. A questo dobbiamo aggiungere altri problemi come i piccoli cedimenti strutturali della falda, le condizioni climatiche peggiorate negli ultimi anni e il complessivo innalzamento del livello del mare. E in futuro il quadro sicuramente si aggraverà. Purtroppo eventi di questo tipo si verificano e si verificheranno sempre più spesso e Venezia ne soffre sempre di più.





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