IL RISVEGLIO DEL CADUCEO DORMIENTE: la vera genesi dell'Homo sapiens

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VIDEO SINOSSI DELL'UOMO KOSMICO

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Con questo libro Marco La Rosa ha vinto il
PREMIO NAZIONALE CRONACHE DEL MISTERO
ALTIPIANI DI ARCINAZZO 2014
* MISTERI DELLA STORIA *

con il patrocinio di: • Associazione socio-culturale ITALIA MIA di Roma, • Regione Lazio, • Provincia di Roma, • Comune di Arcinazzo Romano, e in collaborazione con • Associazione Promedia • PerlawebTV, e con la partnership dei siti internet • www.luoghimisteriosi.it • www.ilpuntosulmistero.it

LA NUOVA CONOSCENZA

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GdM

mercoledì 31 gennaio 2018

QUANDO E' NATA LA VITA SULLA TERRA?



Nuovo studio porta indietro l’orologio della vita a 3,5 mld di anni fa


Fossili antichi di 3 miliardi e mezzo di anni scoperti in Australia occidentale sono l’impronta dei più antichi micro-organismi conosciuti che abbiano abitato la Terra. L’hanno confermato gli scienziati, secondo i quali però la vita potrebbe essere apparsa sul pianeta ancora prima. Per i ricercatori, i lavori pubblicati dal bollettino dell’Accademia delle scienze Usa (PNAS) fanno anche pensare che la vita possa essere frequente nell’Universo, quanto meno nella forma di micro-organismi. Gli studiosi dell’Università di California e del Wisconsin hanno identificato, grazie a una nuova tecnologia di spettrometria di massa, le impronte chimiche di 11 campioni microbici che appartengono a cinque specie, alcune delle quali esistenti anche oggi. “E’ il primo luogo, il più antico sul pianete, dove abbiamo ottenuto l’impronta morfologica e chimica della vita”, ha spiegato John Valley, professore di geochimica e di petrologia all’Università del Wisconsin, principale co-autore dello studio. “Abbiamo anche scoperto – ha aggiunto – che esistevano diversi tipi di metabolismo e di diverse specie con funzioni biologiche differenti: certe producono metano, altre consumano o utilizzano energia solare per la fotosintesi”. Il metano doveva formare una parte importante dell’atmosfera della giovanissima Terra, frequentemente bombardata da comete, dove l’ossigeno era raro o assente. Certi di questi batteri, oggi estinti, appartenevano al gruppo degli archeobatteri, i procarioti più antichi. Altri sono organismi microbici simili a quelli esistenti oggi. Questo studio, ancora, lascia intendere che alcuni di questi micro-organismi, descritti per la prima volta nel 1993 dalla rivista Science in funzione della loro morfologia cilindrica o filamentosa, potrebbero essere vissuti in un momento in cui ancora non esisteva ossigeno sulla Terra. “Questi organismi, di larghezza di 0,01 millimetri, formavano una comunità di micro-organismi molto ben sviluppata che non costituiva probabilmente l’alba della vita”, spiega Valley. Differenti tipi di microbi erano già presenti 3,5 miliardi di anni fa e questo “ci indica che la vita è cominciata ben prima sulla terra, senza che nessuno sappia quando, e conferma quanto sia difficile per una forma di vita primitiva evolversi verso micro-organismi più avanzati”, puntualizza William Schopf, professore di paleobiologia all’Università di California, altro co-autore dello studio. Secondo lui, inoltre, queste scoperte suggeriscono che la vita potrebbe essere frequente nel cosmo. Degli studi pubblicani nel 2001 dalla squadra di Valley suggerivano che l’esistenza di oceani di acqua liquida potrebbero risalire a 4,3 miliardi di anni, più di 800 milioni di anni prima dei fossili descritti in questo ultimo lavoro. “Non disponiamo alcuna prova diretta che la vita esistesse 4,3 miliardi di anni fa, ma questo sembrerebbe essere il caso… è qualcosa che noi vogliamo assolutamente sapere” rileva Valley.

da:
http://www.askanews.it/esteri/2017/12/19/nuovo-studio-porta-indietro-lorologio-della-vita-a-35-mld-di-anni-fa-pn_20171219_00074/

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venerdì 26 gennaio 2018

COSA E' LA FEBBRE SPAZIALE?


Nello spazio gli astronauti hanno sempre la febbre.

La temperatura corporea degli astronauti della ISS è più alta del normale. Si tratta di un'incognita in vista di un futuro viaggio su Marte.


Uno studio pubblicato sulla rivista Scientific Reports rivela che gli astronauti che operano sulla ISS (la Stazione Spaziale Internazionale) sono affetti da una sorta di "febbre spaziale". In sostanza, quando il corpo umano è costretto a vivere a lungo in un ambiente di microgravità, la temperatura interna sale oltre i canonici 37 °C, con conseguenze per la salute tutte da decifrare, soprattutto in previsione della futura missione che dovrebbe portarci su Marte.

FEBBRE SPAZIALE:

La ricerca guidata dall'Ospedale universitario della Charité di Berlino ha coinvolto 11 astronauti, che sono stati monitorati con una serie di sensori durante il loro soggiorno a bordo della ISS. Le misurazioni hanno messo in luce che la temperatura corporea dei membri dell'equipaggio è costantemente aumentata nei primi due mesi e mezzo di missione, stabilizzandosi infine sui 38 °C, un grado in più della norma terrestre.

OLTRE IL LIVELLO DI GUARDIA:

I dati a disposizione degli scienziati mostrano inoltre che durante gli esercizi fisici di routine, necessari ad esempio per contrastare l'atrofia muscolare, il corpo di alcuni astronauti ha raggiunto temperature superiori ai 40 °C, una soglia che sulla Terra è considerata rischiosa per la vita.


PERCHÉ LA TEMPERATURA SI ALZA?

La "febbre spaziale" è sparita in tempi piuttosto rapidi una volta tornati sul suolo terrestre, ma le informazioni raccolte pongono ulteriori interrogativi su quelli che potrebbero essere i rischi per la salute nel corso di un viaggio verso Marte. "In assenza di peso, i nostri corpi trovano estremamente difficile eliminare il calore in eccesso", ha spiegato il coordinatore della ricerca Hanns-Christian Gunga: nello spazio il sudore fatica a evaporare, riducendo l'efficacia di uno dei meccanismi di raffreddamento chiave per l'organismo umano.


EVOLUZIONE DELLA SPECIE:

Gunga ritiene che il lavoro del suo team non guardi solo al futuro delle missioni spaziali, ma offra anche un possibile colpo d'occhio sul nostro passato. Osservare come reagisce il fisico in condizioni eccezionali, potrebbe infatti permetterci di capire il motivo per cui l'evoluzione ha settato la temperatura ottimale dell'uomo sui 37 °C.

Da:

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lunedì 22 gennaio 2018

IL MISTERO DI HYPATIA



Una piccola roccia scoperta nel 1996 nel sud-ovest dell’Egitto contiene composti micro-minerali che non sono noti sulla Terra, né altrove nel Sistema Solare, o in meteoriti o comete note. E’ quanto emerso dallo studio dei ricercatori dell’Università di Johannesburg, che non escludono la possibilità che la misteriosa pietra provenga da fuori il nostro Sistema Solare. Il professor Jan Kramers e il dottor Georgy Belyanin del Centro di ricerca PPM dell’Università di Johannesburg hanno dichiarato che l’analisi della pietra Hypatia (nome datole in omaggio all’astronoma, filosofa e matematica Ipazia d’Alessandria) ha sollevato domande significative sulla formazione della Terra e degli altri pianeti.


 “Quello che sappiamo è che Hypatia si è formata in un ambiente freddo, probabilmente a temperature inferiori a quella dell’azoto liquido sulla Terra (-196° Celsius)”, ha detto Kramers. “L’ origine dovrebbe essere ben oltre la cintura di asteroidi presenti tra Marte e Giove, da cui (per altro) provengono la maggior parte dei meteoriti noti”. Già nel 2013 i ricercatori avevano annunciato che la pietra non apparteneva alla Terra. Due anni più tardi, aggiunsero che non si trattava di un frammento di un meteorite o cometa noti. Per comprendere l’origine di Hypatia, i ricercatori dovranno studiare la pietra confrontandola con tutti i campioni di oggetti interstellari disponibili. E’ evidente che il sasso proviene da un ambiente freddo in cui le temperature scendono ben al di sotto del punto in cui l’azoto passa allo stato liquido. Ciò dimostra che la pietra proviene da un luogo al di fuori della fascia di Kuiper, quindi esterno al Sistema Solare.


https://www.diregiovani.it/2018/01/11/146675-hypatia-misteriosa-pietra-extraterrestre.dg/

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mercoledì 17 gennaio 2018

DNA E PREISTORIA: LE VERE ORIGINI DELL'AMERICA DEL NORD


Dna di neonata riscrive la preistoria Usa:  i primi umani arrivarono 25mila anni fa dalla Russia.

ROMA – Il DNA di una bambina Nativa Americana, morta 11.500 anni fa ad appena sei settimane, riscrive la preistoria americana: il genoma completo rivela come i primi umani arrivarono 25.000 anni fa sul continente e poi si divisero in tre gruppi ancestrali di Nativi Americani. 



E’ la prima volta che vengono identificate tracce genetiche dirette dei primi nativi americani. La neonata apparteneva a un popolo, precedentemente sconosciuto, di antichi abitanti del Nord America noti come gli “antichi Beringiani”, un piccolo gruppo di Nativi Americani che risiedeva in Alaska e si estinse circa 6.000 anni fa, affermano i ricercatori. È ampiamente riconosciuto che i primi coloni siano passati in Alaska da quella che ora è la Russia, attraverso un antico ponte continentale sullo Stretto di Bering, che fu sommerso alla fine dell’ultima era glaciale. In precedenza alcuni scienziati hanno ipotizzato molteplici flussi migratori sul ponte continentale, fino a 14.000 anni fa. Ma il nuovo studio riportato dal Daily Mail, mostra che questa migrazione si è verificata in un’onda, con sottodivisioni di gruppi nativi americani che si sono formati in seguito. Dalla ricerca emerge inoltre che un gruppo precedentemente sconosciuto chiamato “Antichi Beringiani” fece parte di questa suddivisione, facendo passare da due a tre il numero conosciuto di gruppi ancestrali di Nativi Americani. “Non sapevamo che esistesse questo popolo”, ha affermato il coautore dello studio, Ben Potter, antropologo presso l’Università dell’Alaska Fairbanks. I dati forniscono anche la prima prova diretta della popolazione originaria dei Nativi Americani e gettano nuova luce su come queste popolazioni stavano migrando e stabilendosi in tutto il Nord America”. Il team internazionale di ricercatori, guidato da scienziati delle Università di Cambridge e Copenaghen, ha studiato il genoma completo della neonata Nativa Americana, Xach’itee’aanenh t’eede, o Sunrise Child-girl; i resti sono stati trovati nel 2013 nel sito archeologico dell’Alward Sun River in Alaska.  Sebbene la neonata avesse vissuto circa 11.500 anni fa, molto tempo dopo che le persone arrivassero per la prima volta nella regione, le sue informazioni genetiche non corrispondevano a nessuno dei due rami riconosciuti dei primi nativi americani. La bambina sembrava appartenere a una popolazione nativa americana completamente distinta, chiamata Antichi Beringiani. Ulteriori analisi hanno mostrato che il gruppo era separato dalla stessa popolazione fondatrice dei gruppi di nativi americani del Nord e del Sud. “Gli Antichi Beringiani si sono diversificati dagli altri nativi americani, prima che ogni popolazione nativa americana in vita fosse stata sequenziata fino ad oggi”, ha detto l’autore principale dello studio, Eske Willerslev, dell’University of Cambridge. “È fondamentalmente una popolazione relitta di un gruppo ancestrale comune a tutti i nativi americani, quindi i dati genetici sequenziati ci hanno offerto un enorme potenziale in termini di risposta alle domande relative su come si siano popolate le Americhe”. “Abbiamo potuto dimostrare che probabilmente le persone sono entrate in  Alaska prima di 20.000 anni fa. È la prima volta che abbiamo prove genomiche dirette che tutti i nativi americani possono essere ricondotti a una popolazione di origine, attraverso un singolo evento di migrazione”. Lo studio ha confrontato i dati provenienti dall’Upward Sun River con i genomi antichi e quelli di numerose popolazioni contemporanee. Secondo la cronologia dei ricercatori, la popolazione ancestrale dei nativi americani è emersa per la prima volta come gruppo separato, circa 36.000 anni fa nel nordest asiatico. Il contatto costante con le popolazioni asiatiche è continuato fino a circa 25.000 anni fa, quando il flusso genico tra i due gruppi terminò probabilmente per violenti cambiamenti del clima, che isolarono gli antenati dei nativi americani. A questo punto, il gruppo probabilmente iniziò ad attraversare l’Alaska su un antico ponte continentale sullo stretto di Bering poi sommerso alla fine dell’ultima era glaciale. Successivamente, circa 20.000 anni fa, quel gruppo si divise in due lignaggi: gli Antichi Beringiani e gli antenati di tutti gli altri nativi americani.


 Il gruppo ora scoperto, ha continuato a riprodursi con i loro cugini nativi americani almeno fino a quando la neonata del fiume Upward Sun nacque in Alaska circa 8.500 anni dopo. Jos Vctor Moreno-Mayar, dell’Università di Copenaghen, ha dichiarato: “Sembra che gli Antichi Beringiani si trovassero in Alaska, tra gli 11.500 e i 20.000 anni, ma erano già distinti dal più ampio gruppo nativo americano”. I ricercatori hanno anche dimostrato che i rami nord e sud dei nativi americani si divisero solo tra i 14.000 e 17.000 anni fa. Sulla base di precedenti ricerche ciò fa ipotizzare che quando si sono separati, si trovavano già nel sud del continente americano. La divisione si è probabilmente verificata dopo che i loro antenati hanno attraversato le calotte glaciali di Laurentide e Cordigliera, due vasti ghiacciai che coprivano quello che ora è il Canada e parte degli Stati Uniti settentrionali, ma hanno cominciato a disgregarsi in quel periodo. La calotta di ghiaccio ha isolato i viaggiatori diretti a sud dagli Antichi Beringiani in Alaska, che sono stati infine sostituiti o assorbiti da altre popolazioni native americane. Sebbene le popolazioni attuali in Alaska e nel Canada settentrionale appartengano alla ramo dei Nativi Americani del Nord, la nuova analisi mostra che derivano da una migrazione successiva a nord, molto tempo dopo gli eventi migratori iniziali. “Un aspetto significativo di questa ricerca è che alcune persone hanno affermato che la presenza di esseri umani nelle Americhe risale a prima, a 30.000 anni, 40.000 anni o anche più”, ha aggiunto Willerslev. “Non possiamo dimostrare che queste affermazioni non siano vere, ma se sono corrette, non potrebbero mai essere antenati diretti dei nativi americani contemporanei”.

Da:
https://www.blitzquotidiano.it/scienza-e-tecnologia/dna-neonata-preistoria-usa-2809080/

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sabato 13 gennaio 2018

IL SEQUENZIAMENTO DEL DNA SULLA STAZIONE SPAZIALE


Batteri alieni analizzati per la prima volta sulla ISS

Sono stati condotti con successo i primi esperimenti di sequenziamento del DNA sulla ISS.

Qualcuno ricorderà la questione dei batteri trovati all'esterno della ISS: a fine novembre un astronauta russo aveva dichiarato che questi batteri viventi provengono dallo Spazio e non da una contaminazione terrestre. Molti sollevarono perplessità, soprattutto alla luce del fatto che le affermazioni non erano avallate da dettagliati dati sulle indagini di laboratorio. Ebbene ora abbiamo le prove che c'è uno strumento in orbita sulla ISS che permette di condurre analisi attendibili in questi casi, e che forse un giorno consentirà di esaminare in tempi brevi forme di vita potenzialmente provenienti da altri pianeti. In passato infatti il sequenziamento del DNA veniva svolto solo a Terra, dallo scorso anno invece nella parte statunitense della ISS ci sono gli strumenti deputati per farlo, e gli astronauti della NASA  hanno sequenziato con successo il DNA di alcuni microbi trovati a bordo della Stazione Spaziale Internazionale. A luglio 2016 l'astronauta statunitense Kate Rubins fu la prima a sequenziare il DNA nello Spazio, ma è stato nel corso della missione Genes in Space-3 condotta dall'astronauta della NASA Peggy Whitson che per la prima volta sono stati analizzati nello Spazio gli organismi. Whitson ha sequenziato il DNA sotto la guida dalla microbiologa della NASA Sarah Wallace e dal suo team al Johnson Space Center, e i campioni sono stati inviati sulla Terra a settembre 2017 per essere sottoposti ad altri accertamenti con strumenti convenzionali. Gli scienziati hanno sequenziato di nuovo i microbi e confermato che erano stati identificati correttamente da Whitson.


L'astronauta della NASA Peggy Whitson. Crediti: NASA

Il dato importante al momento è che gli strumenti a bordo della ISS funzionano bene e che il training condotto dagli astronauti consente effettivamente di condurre il sequenziamento del DNA in maniera corretta.

Da:


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martedì 9 gennaio 2018

ACRILAMMIDE: una lunga storia, raccontata ai consumatori…


di GIORGIO PATTERA (BIOLOGO)

Nel luglio 2014 (fonte: https://www.efsa.europa.eu/it/press/news/140701 ), l’EFSA (l’Autorità europea per la Sicurezza alimentare, con sede a Parma) lanciò l’allarme sull’impiego d’una sostanza comunemente diffusa nell’industria alimentare, in particolar modo nella produzione di patatine e biscotti. L’imputata risponde al nome di acrilammide e viene utilizzata per conferire un aspetto invitante ai cibi, mediante la caratteristica “doratura”. L’EFSA denunciò i sospetti che già da tempo gravavano sulla probabile correlazione fra l’acrilammide ed alcune tipologie tumorali, mediante un comunicato che riportiamo integralmente: “L’EFSA ha confermato le valutazioni precedenti secondo cui, sulla base degli studi sugli animali, l’acrilammide negli alimenti aumenta potenzialmente il rischio di cancro per i consumatori, in tutte le fasce d’età. L’acrilammide negli alimenti è prodotta dalla stessa reazione chimica che conferisce al cibo la “doratura” – rendendolo anche più gustoso – durante la normale cottura ad alta temperatura (+150°C), in ambito domestico, nella ristorazione e nell’industria alimentare. Caffè, prodotti fritti a base di patate, biscotti, cracker, pane croccante/morbido e alcuni alimenti per l’infanzia rappresentano importanti fonti alimentari di acrilammide. Sulla base del peso corporeo, i bambini sono la fascia d’età maggiormente esposta”. Diane Benford, presidente del gruppo di esperti scientifici impegnato negli studi sull’acrilammide, spiega che “… l’acrilammide consumata per via orale viene assorbita dal tratto gastrointestinale, si distribuisce a tutti gli organi e viene ampiamente metabolizzata. La glicidammide, uno dei principali metaboliti derivati da questo processo, è la causa più probabile delle mutazioni geniche e dei tumori osservati negli studi sugli animali”.

Nonostante questa autorevole presa di posizione, la stessa Efsa candidamente confessò “… di non avere poteri tali da poter cambiare le norme sull’uso di questa sostanza, ma auspica che i propri studi possano servire da supporto per i decisori europei e nazionali nella valutazione delle possibili misure per ridurre ulteriormente l’esposizione dei consumatori a questa sostanza negli alimenti…”.

La qual cosa si commenta da sola, se non con l’aggiunta “… e allora, l’EFSA, a cosa serve…?”. 
Ma se questa non è, purtroppo, una novità, c’è chi, oltre un anno prima, aveva già messo in guardia gli utenti del web circa la potenziale pericolosità della medesima sostanza, anche nella sua forma polimerizzata: la poli-acrilammide, appunto. Nella forma polimerizzata, questa risulta inerte e quindi non reattiva, ma nel caso (non impossibile) perdesse per qualsiasi causa la polimerizzazione, tornerebbe ad essere quella di sempre: una potente neurotossina, facilmente assorbibile anche attraverso la cute.
Come si vede, quindi, entrambe le sostanze sono accumunate dalla stessa pericolosità: quasi certa, la prima, potenziale la seconda.
Ma come è arrivato un Biologo parmigiano a precedere le conclusioni dell’EFSA?

  
Una ricerca datata 15 febbraio 2013:

(http://www.galileoparma.it/Caso%20Lugo%20di%20Romagna%20(RA)%203-09-2012%20-%20Efsa.pdf), supportata dalle relative analisi di laboratorio, giungeva alla conclusione che anche il “KRILIUM” (Peter Cordani, Patent US 6,315,213 B1 - 13/11/2001), un "condizionatore del suolo" (= ammendante), formalmente impiegato per uso agricolo e orticolo con vari nomi commerciali, è composto da acrilammide, anche se in forma polimerizzata (forma anionica = poliacrilammide-reticolata) e pertanto potenzialmente non tossica. Tuttavia quali potrebbero essere le conseguenze, dirette o indirette, se la poli-acril-ammide, per motivi ancora non indagati, DOVESSE PERDERE LA POLIMERIZZAZIONE, ipotesi da non poter escludere “a priori”? Questa eventualità suscitò l’attenzione anche da parte della COLDIRETTI:
(http://www.coldiretti.it/archivio/acrilammide-nel-2014-consultazione-pubblica-efsa), proprio in ragione della definizione stessa della sostanza in causa: "L'acrilammide è una potente neurotossina e, nella forma non-polimerizzata, è facilmente assorbita anche attraverso la pelle…".

RICADUTE sull'AMBIENTE

Molte riserve sono state sollevate circa l'uso di poliacrilammide in agricoltura: esiste un potenziale rischio di contaminazione degli alimenti con la neuro-tossina acrilammide.
La poliacrilammide è relativamente non-tossica, ma è noto che i prodotti commercialmente disponibili contengono alcune quantità di acrilammide, residuate dal suo ciclo di sintesi, di solito intorno allo 0,05%.
Inoltre, si teme che la poliacrilammide possa de-polimerizzarsi per formare acrilammide. In uno studio condotto nel 2003 presso il Central Science Laboratory di Sand Hutton, Inghilterra, la poliacrilammide è stata trattata al pari di alimenti da consumarsi previa cottura (= somministrazione di energia termica, circa 200 °C). E' stato appurato che tali condizioni non causano la de-polimerizzazione in modo significativo, ma lo Stato della California, in via prcauzionale, richiede ugualmente (dal 2010) che i prodotti contenenti acrilammide siano etichettati con l'indicazione secondo cui "...l'ingrediente è una sostanza chimica nota nello Stato della California come causa di cancro". (fonte : http://en.wikipedia.org/wiki/Polyacrylamide)

E così, (tanto tuonò che piovve), si è giunti al 20 novembre 2017.

In tale data, è stato (finalmente) pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea (304/24, 2017/2158) il Regolamento della Commissione Comunitaria che impone alle Industrie alimentari, a decorrere dall’11 aprile 2018, l’adozione di misure atte alla riduzione, se non all’eliminazione, della presenza di acrilammide negli alimenti (fonte: https://www.efanews.eu/it/item/1442-acrilammide-l-europa-la-riduce-nei-cibi.html).

Naturalmente, le Multinazionali alimentari hanno già annunciato insurrezioni, ricorsi e pressioni contro la disposizione europea ed allora la domanda sorge spontanea (parafrasando un noto conduttore televisivo): “Ma quando la Scienza (quella libera ed indipendente) riuscirà a non farsi oscurare dalla Politica economica?”. Forse mai…

Meditate, gente, meditate.

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