IL RISVEGLIO DEL CADUCEO DORMIENTE: la vera genesi dell'Homo sapiens

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VIDEO SINOSSI DELL'UOMO KOSMICO

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Con questo libro Marco La Rosa ha vinto il
PREMIO NAZIONALE CRONACHE DEL MISTERO
ALTIPIANI DI ARCINAZZO 2014
* MISTERI DELLA STORIA *

con il patrocinio di: • Associazione socio-culturale ITALIA MIA di Roma, • Regione Lazio, • Provincia di Roma, • Comune di Arcinazzo Romano, e in collaborazione con • Associazione Promedia • PerlawebTV, e con la partnership dei siti internet • www.luoghimisteriosi.it • www.ilpuntosulmistero.it

LA NUOVA CONOSCENZA

LA NUOVA CONOSCENZA

GdM

lunedì 27 luglio 2020

LA "DIVISIONE" DEL TEMPO



C’è un limite oltre il quale è impossibile dividere il tempo.

Da:

Secondi, frazioni di secondo, istanti: quanto si può spezzettare il tempo, e fino a che punto possiamo spingerci? Domanda non banale, cui hanno provato a rispondere tre fisici della Pennsylvania State University, trovandosi di fronte a un limite massimo. Sono infatti arrivati alla conclusione che non si può spezzettare il tempo oltre i 10-33 secondi, una frazione del tutto impercettibile e pensabile solo con la meccanica quantistica. Per ottenere questa stima hanno utilizzato complessi modelli teorici che potrebbero servire per nuovi studi per combinare quantistica e relatività, due mondi che da sempre non comunicano. I risultati sono pubblicati su Physical Review Letters.

Il tentativo di quantizzare il tempo:

Secondo la teoria della relatività di Einstein il tempo è una linea continua che fluisce. E che scorre più lentamente o più velocemente a seconda delle condizioni della gravità e dell’accelerazione. Nella meccanica quantistica, invece, il tempo è descritto come qualcosa di universale, che non cambia a seconda delle condizioni esterne. E che scorre con un ritmo costante, come i fotogrammi di un film.
Le due visioni sono piuttosto differenti e nel volerle combinare i fisici si sono trovati per decenni di fronte a varie contraddizioni che le rendono incompatibili. Ma un’ipotesi già avanzata in precedenza sostiene che si potrebbe aggirare l’ostacolo se si provasse a pensare al tempo non come a qualcosa di continuo, ma come a qualcosa di discreto. Secondo questa ipotesi, infatti, il tempo non è pensato come un continuo ma come un insieme di punti, una successione discreta di istanti che passano, un po’ come se si dessero il cambio l’uno con l’altro. Insomma se si provasse a quantizzare non solo lo spazio-tempo di Einstein, ma anche il tempo da solo. In questo modo il tempo risulta suddiviso in pacchetti, piccole unità finite. Ma quanto possono essere brevi queste unità, al massimo? Questa è la domanda che si sono posti i tre fisici Garrett Wendel, Luis Martínez e Martin Bojowald.

Sistemi simili a orologi atomici per dividere il tempo:

I ricercatori hanno sviluppato un modello teorico complicato, basato su queste assunzioni. Semplificando, nel loro studio prendono ad esame un orologio universale – un oggetto quantistico che salta rapidissimamente da uno stato fisico a un altro – cercando di misurarne la velocità. In pratica a loro interessava capire quanto brevi possono essere i suoi ticchettii. Per farlo si sono serviti di altri sistemi quantistici (non strumenti fisici, ma teorici) simili ai precisissimi orologi atomici in grado di rilevare tempi infinitesimali. Un esperimento impensabile nella realtà e ipotizzabile soltanto in fisica teorica attraverso modelli.

Ecco il limite massimo del tempo più breve:

Risultato? Il limite massimo del più breve intervallo quantizzabile è 10-33 secondi (miliardesimi di un quadrilionesimo di secondo). Un periodo che è diversi ordini di grandezza più piccolo di ogni intervallo misurato nella realtà. Questo, spiegano gli autori, è il “limite superiore della quantizzazione del tempo“. La misura potrebbe essere utile anche per costruire la teoria della gravità quantistica. La gravità quantistica rientra in un campo della fisica teorica che mira a fornire una descrizione della gravità di Einstein coerente con i principi della meccanica quantistica. La ricerca potrebbe essere utile per provare a combinare il mondo macroscopico della relatività con quello subatomico della quantistica e renderli, magari, un po’ meno distanti.

Da:

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mercoledì 22 luglio 2020

TELETRASPORTO "MASSIVO"...CI STIAMO AVVICINANDO?




FINALMENTE ABBIAMO IL TELETRASPORTO PER PARTICELLE CON UNA MASSA (?)

Il teletrasporto tra fotoni non è una novità da molto tempo, ma quando si parla di particelle massive diventa tutto più complicato. Grazie alle strane regole dell'entanglement quantistico, i fisici credono di aver trovato un metodo per teletrasportare informazioni tra due elettroni distanti tra loro. Il teletrasporto di informazioni non è soltanto il primo passo per arrivare al teletrasporto vero e proprio, ma ha importanti applicazioni nello sviluppo dell'informatica quantistica e nella criptazione di dati. Lo sviluppo del teletrasporto tra elettroni può permettere di costruire dei computer quantistici con un'architettura più simile a quella attuale. "Abbiamo ottenuto le prove di uno scambio tramite entanglement, nel quale abbiamo creato un “legame (intreccio)” tra due elettroni e abbiamo teletrasportato informazioni a grande distanza istantaneamente, una tecnica potenzialmente utile per i computer quantistici," spiega John Nichol dell'Università di Rochester, New York.

Teletrasporto è una parola che fa parte del gergo della fisica e serve a spiegare un concetto molto semplice. Quando compri un paio di scarpe, anche se le separi sai sempre tutte le caratteristiche di entrambe anche se non puoi osservarle direttamente. In un certo senso le scarpe sono "entangled".


Le cose diventano strane se immaginate che la vostra scarpa possa essere sia destra che sinistra contemporaneamente, almeno finché non la osservate. Quando la guardi, istantaneamente assume uno dei due stati e la scarpa lontana diventa destra o sinistra in accordo con la prima. Questo è il meccanismo dietro all'idea di teletrasporto in fisica. La logica computazionale utilizza un linguaggio binario, gli stati sono descritti da sequenze di 0 e 1. I computer quantistici utilizzano i qubits, che possono assumere entrambi gli stati contemporaneamente, fornendo delle possibilità che l'attuale tecnologia non può raggiungere. Utilizzare i fotoni per teletrasportare informazioni è molto facile e intuitivo, possono essere separati molto velocemente dopo che sono stati legati, ed è possibile farlo anche all'interno di un chip. Separare delle particelle massive è molto più difficile perché nel trasporto si potrebbe perdere la purezza matematica del loro stato quantistico, ed avere delle interferenze. "I singoli elettroni sono dei qubit molto promettenti perché interagiscono molto facilmente tra di loro, creare delle connessioni a lunga distanza è essenziale per l'informatica quantistica," afferma Nichol. Per creare questo teletrasporto, gli scienziati hanno sfruttato alcune leggi fondamentali della fisica subatomica. Quando due elettroni condividono lo stesso stato, devono necessariamente avere uno spin opposto. I ricercatori avevano precedentemente mostrato come questa proprietà può essere manipolata senza agire direttamente sugli elettroni, presentandosi come un metodo per il teletrasporto. Gli scienziati sono riusciti ad effettuare uno scambio di spin tra una coppia di elettroni senza che essi abbiano interagito prima. C'è ancora molto lavoro da fare per sostituire i fotoni con gli elettroni, in quanto quest'ultimi sono oggetti molto difficili da controllare. Ma avere delle prove convincenti del teletrasporto tra elettroni è un passo in avanti incoraggiante.

Da:

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venerdì 17 luglio 2020

L'INUTILE "UTILITA' " DEI COLLISORI DI PARTICELLE



Perché non dovremmo più costruire grandi collisori di particelle:

Sabine Hossenfelder, fisico e ricercatore presso l'Istituto di studi avanzati di Francoforte, spiega perché oggi potrebbe non avere senso progettare e costruire nuovi collisori sempre più grandi e potenti e, ovviamente, sempre più costosi, sia da costruire che da gestire.

Da:

Il Cern sta potenziando il super collisore LHC (Large Hadron Collider) per realizzare una ‘fabbrica‘ di bosoni di Higgs, con cui tracciare un identikit molto preciso della particella scoperta nel 2012.
Parallelamente a questa scelta il Cern prenderà in considerazione la realizzazione di un nuovo super collisore che raccoglierà la pesante eredita di LHC. Queste sono le indicazioni comparse in un documento che vuole rivedere la strategia europea nel campo della fisica delle particelle, presentato nel corso di una sessione online dal Consiglio del Cern insieme alla direttrice generale, Fabiola Gianotti.


“È una strategia ambiziosa, che delinea un futuro molto promettente per l’Europa e per il Cern con un approccio attento e graduale“, ha dichiarato la Gianotti. “Continueremo a investire in forti programmi di cooperazione tra il Cern e gli altri istituti di ricerca negli Stati membri del Cern, e non solo. Queste collaborazioni sono fondamentali per un progresso scientifico e tecnologico sostenuto e condiviso, e producono inoltre grandi vantaggi per la società“ (?)

Tuttavia non tutti sono d’accordo, come Sabine Hossenfelder, fisico e ricercatore presso l’Istituto di studi avanzati di Francoforte. Attualmente al lavoro sulla materia oscura e sui fondamenti della meccanica quantistica, esprime le sue perplessità in un articolo pubblicato su scientificamerican.com.

Il CERN ha deciso di voler proseguire nelle ricerche gettando le basi per la realizzazione del Future Circular Collider (FCC), che sarà ospitato in un tunnel anulare di 100 chilometri. Questa macchina potrebbe raggiungere energie di 100 tera-elettron-volt, circa sei volte l’energia sviluppata oggi nel Large Hadron Collider (LHC). Raggiungendo queste energie, la nuova macchina consentirebbe di guardare in maniera più intima la struttura della materia offrendo la possibilità di nuove scoperte.

Nonostante gli annunci del Cern che definiscono “prioritario” il compimento del primo passo verso la realizzazione di FCC, cioè trovare un sito adatto dove scavare il tunnel, non è chiaro se il progetto verrà alla luce. Il futuro collisore, se verrà realizzato, impiegherà particelle come elettroni e positroni in luogo dei protoni utilizzati da Lhc.

Il primo passo andrà nella direzione della “fabbrica di Higgs“. Il bosone di Higgs, scoperto al CERN nel 2012, era l’ultima particella mancante nel modello standard della fisica delle particelle. FCC, se vedrà effettivamente la luce, avrà il compito di misurare le proprietà del bosone di Higgs e le proprietà di alcune particelle precedentemente scoperte, in modo più completo. Se il piano verrà portato a termine costerà decine di miliardi di dollari. Non si conoscono con precisione i costi da sostenere in quanto le stime di budget presentate dal CERN non includono i costi operativi. Considerando i costi di gestione del Large Hadron Collider, i costi per il nuovo collider sarebbero probabilmente pari a almeno 1 miliardo di dollari all’anno.

Costi enormi in quanto i collisori sono oggi gli esperimenti di fisica più costosi mai realizzati. Il loro prezzo è superiore a quello dei futuri telescopi spaziali che vedremo all’opera tra qualche anno. Il motivo principale per cui il costo è così alto è che, fin dagli anni ’90, ci sono stati solo miglioramenti incrementali nella tecnologia del collider. Di conseguenza, l’unico modo per raggiungere energie più elevate oggi è costruire macchine di maggiori dimensioni. È la semplice dimensione fisica, i lunghi tunnel, il grande numero di magneti e tutte le persone necessarie per farlo funzionare, a rendere questi dispositivi enormemente costosi.

Sabine Hossenfelder ha sottolineato l’aumento dei costi di queste macchine che però ne ha visto un ridimensionamento della rilevanza. Quando i fisici ha iniziato a costruire collisori negli anni ’40, non erano in possesso di un inventario completo delle particelle elementari e ne erano coscienti. Nuove misurazioni hanno portato a nuovi misteri che hanno portato alla costruzione di collider sempre più grandi fino a quando, nel 2012, il quadro non è stato completato.
Il modello standard ha ancora alcuni punti da chiarire, ma testarli sperimentalmente richiederebbe energie almeno dieci miliardi di volte superiori a quelle che anche FCC potrebbe testare. Il caso scientifico, secondo la Hossenfelder, per un prossimo collisore è quindi attualmente scarso. Tuttavia non si può escludere che un prossimo grande collisore faccia una scoperta rivoluzionaria. Alcuni fisici sperano, ad esempio, che possa offrire indizi sulla natura della materia oscura o dell’energia oscura.

Queste sono le speranze, ma non sembra esserci, alcun motivo per cui le particelle che compongono la materia oscura o l’energia oscura debbano apparire nella gamma di energia del nuovo dispositivo. E questo presuppone che siano particelle, per le quali oggi non ci sono prove.
Anche se fossero particelle, inoltre, le collisioni altamente energetiche potrebbero non essere il modo migliore per cercarle. Le particelle che interagiscono debolmente con piccole masse, per esempio, non sono qualcosa che si cerca nei grandi collisori. Esistono, spiega la Hossenfelder, tipi completamente diversi di esperimenti che potrebbero portare a scoperte a costi molto più contenuti, come misurazioni di alta precisione a basse energie o aumento delle masse di oggetti negli stati quantistici. Andare alle energie più elevate non è l’unico modo per fare progressi nella fisica; è solo il modo più costoso.

In questa situazione, i fisici delle particelle dovrebbero concentrarsi sullo sviluppo di nuove tecnologie che potrebbero riportare i collettori in una fascia di prezzo ragionevole invece di scavare altre gallerie. La tecnologia più promettente in vista è un nuovo tipo di accelerazione detta del “campo di scia” che potrebbe ridurre drasticamente la distanza necessaria per accelerare le particelle e di conseguenza ridurre le dimensioni delle macchine. Un’altra tecnologia rivoluzionaria sarebbe costituita dai superconduttori a temperatura ambiente che potrebbero rendere i potenti magneti su cui i collider si affidano più efficienti ed economici.

Esaminare queste nuove tecnologie dovrebbe essere una delle priorità del CERN. Ma come rivela l’aggiornamento della strategia, i fisici delle particelle non hanno preso in considerazione la nuova realtà. La costruzione di grandi collisori di particelle ha fatto il suo corso. Oggi ha uno scarso ritorno sugli investimenti scientifici e allo stesso tempo quasi nessuna rilevanza per la società. I grandi progetti scientifici tendono generalmente a favorire l’educazione e le infrastrutture, ma questo non è specifico per i collettori di particelle. E se quegli effetti collaterali sono ciò a cui siamo veramente interessati, allora dovremmo almeno investire i nostri soldi nella ricerca scientifica con rilevanza per la società, scrive la Hossenfelder.

Perché, ad esempio, non abbiamo ancora un centro internazionale per le previsioni climatiche che secondo, le stime attuali, costerebbe “solo” $ 1 miliardo distribuito su 10 anni? Sono noccioline rispetto a ciò che la fisica delle particelle spende, ma molto più importante. O perché, forse ti starai chiedendo visto cosa successo di recente, non abbiamo un centro per la modellistica epidemica?
È perché troppi finanziamenti scientifici sono erogati sulla base dell’inerzia. Nel secolo scorso, la fisica delle particelle si è trasformata in una grande comunità molto influente e ben collegata. Continueranno a costruire collettori di particelle più grandi il più a lungo possibile, semplicemente perché è quello che fanno i fisici delle particelle, che abbia un senso o meno. È giunto il momento che la società adotti un approccio più illuminato per finanziare grandi progetti scientifici piuttosto che continuare a dare soldi a coloro a cui hanno dato soldi finora. Abbiamo problemi più grandi che misurare la cifra successiva sulla massa del bosone di Higgs, conclude la Hossenfelder.

L’articolo della Hossenfelder espone critiche sostanziali all’approccio del Cern e non ci resta che attendere cosa ne pensano i diretti interessati.

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lunedì 13 luglio 2020

IL PARADOSSO DI FERMI E LA CONCORRENZA ...SLEALE


La teoria che rivela perché non abbiamo (ancora) rilevato la vita extraterrestre.

Un fisico russo ha proposto una soluzione al famoso paradosso di Fermi. Di cosa si tratta?

L’universo è inconcepibilmente grande. Ma non è vuoto. Tra ciò che possiamo vedere e quel che non possiamo vedere, ospita miliardi di galassie, costituite da un numero ancora più grande di stelle, che a loro volta possiedono un numero innumerevole di pianeti potenzialmente letali in orbita attorno a loro. È almeno presuntuoso credere allora che siamo gli unici esseri viventi. Ma dove si nascondono?
Ci sono molti posti in cui cercare. Per avere un’idea, come uno studio relativamente recente dell’Università di Berkeley in California e pubblicato su PNAS, nel cosmo in almeno 100 pianeti simili alla Terra (cioè, con temperature e condizioni che permetterebbero la vita) per ciascuno granello di sabbia del nostro mondo. La domanda diventa più pressante: perché non siamo riusciti a trovarli?



Ed ecco che arriva qualcosa chiamato Paradosso di Fermi, sviluppato negli anni ’50. Si tratta dell’apparente contraddizione tra le stime secondo cui è alta la probabilità che esistano altre civiltà intelligenti nell’universo osservabile e la totale assenza di prove di tali civiltà.

Gli scienziati hanno cercato la vita altrove nell’Universo per anni.

Esistono tante soluzioni proposte a questo celebre paradosso quanti sono gli scienziati, ma ce n’è una che è davvero inquietante. Il suo autore è un fisico teorico della National Research University of Electronic Technology (MIET) in Russia, di nome Alexander Berezin. La sua ipotesi l’ha battezzata: primo ad entrare, l’ultimo a partire.

Secondo l’approccio di Berezin, che è stato pubblicato su arXiv.org, sarà la prima civiltà a viaggiare verso altre galassie che eliminerà necessariamente tutta la concorrenza “per garantirne l’espansione“. Lo stesso autore ha affermato che la sua teoria è così terrificante che spera di avere torto: “Non sto suggerendo che una civiltà altamente sviluppata possa sterminare consapevolmente altre forme di vita. Molto probabilmente, lo farebbero inavvertitamente, proprio come un gruppo di lavoratori distrugge un formicaio per costruire un edificio, semplicemente perché mancano di stimoli per proteggerlo. Naturalmente spero di sbagliarmi. L’unico modo per dimostrarlo è continuare a studiare l’universo e cercare la vita extraterrestre“, ha spiegato.

Parametro A

Per Berezin, ciò che è veramente rilevante non è come sono le possibili civiltà extraterrestri, ma piuttosto che possono essere rilevabili l’una dall’altra a una certa distanza dalla Terra. Se una civiltà extraterrestre non ha la capacità di svilupparsi tecnologicamente per essere rilevabile da altri, può ancora esistere, ma per noi è come se non fosse mai esistita. È come il caso dell’albero che cade nel mezzo della foresta, se nessuno è lì per sentire se fa rumore o no quando cade, allora non lo sapremo mai, sarà come se non esistesse.

Questo principio applicato alle civiltà è ciò che Berezin attribuisce al nome del parametro A. Per questo motivo, se una civiltà aliena non avanza abbastanza da raggiungere il parametro A, non saremo mai in grado di vederla, anche se esiste.

La natura specifica delle civiltà emergenti a livello interstellare non dovrebbe importare. “Potrebbero essere organismi biologici come noi, Ai disonesti che si ribellano contro i loro creatori, o menti su scala planetaria come quelle descritte da Stanislaw Lem in Solaris. L’unica variabile che possiamo misurare oggettivamente è la probabilità che la vita sia rilevabile dallo spazio entro un certo intervallo dalla Terra“, spiega ancora Berezin. 

Primo ad entrare, ultimo a uscire:

“Cosa accadrebbe se la prima vita che raggiunge la capacità di viaggio interstellare sradicasse necessariamente tutta la concorrenza per guidare la propria espansione?”

Se i principi di Berezin saranno rispettati, parteciperemo, senza saperlo, a una razza distruttiva. Solo la civiltà più avanzata potrebbe, non solo conquistare l’intera galassia, ma anche annientare il resto delle civiltà, semplicemente perché avrebbero gli strumenti per farlo.

A questo punto, la parte più inquietante dello studio è che contempla la grande possibilità che l’essere umano non troverà mai una razza extraterrestre più avanzata di se stessa e che, quindi, i progressi della stessa specie umana potrebbero essere responsabili della distruzione di altre forme di vita senza esserne consapevole.

Perfino Berezin ammette che spera di sbagliarsi e vale la pena notare che molti altri scienziati hanno opinioni molto più ottimistiche in merito a quando potremo aspettarci di sentir parlare di una vita extraterrestre avanzata. Ma le opinioni del fisico sono solo l’ultima affermazione scientifica sul perché siamo destinati a guardare le stelle solo nel tempo e nello spazio e come vorremmo che fosse diversamente.

Da:
https://focustech.it/2020/06/15/la-teoria-inquietante-che-rivela-perche-non-abbiamo-rilevato-la-vita-extraterrestre-285269


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mercoledì 8 luglio 2020

ANESTESIA E...COSCIENZA




Anestesia, risolto il dubbio che si aveva con la coscienza.

Due scienziati hanno finalmente scoperto ( ? ) come funziona l'anestesia e come fa a portare la persona ad uno stato di non coscienza.


La chirurgia sarebbe inconcepibile senza l’anestesia generale, quindi può sorprendere che, nonostante i suoi 175 anni di uso medico, medici e scienziati non siano stati in grado di spiegare come gli anestetici rendano temporaneamente i pazienti privi di coscienza. Un nuovo studio di Scripps Research pubblicato giovedì sera in Proceedings of National Academies of Sciences (PNAS) risolve questo mistero medico di vecchia data.

Utilizzando moderne tecniche microscopiche su scala nanometrica, oltre a intelligenti esperimenti in cellule viventi e moscerini della frutta, gli scienziati mostrano come gruppi di lipidi nella membrana cellulare fungano da intermediario mancante in un meccanismo in due parti. L’esposizione temporanea all’anestesia fa sì che i gruppi lipidici si spostino da uno stato ordinato a uno disordinato e poi di nuovo indietro, portando a una moltitudine di effetti successivi che alla fine causano cambiamenti nella coscienza.

La scoperta sul rapporto tra anestesia e coscienza

La scoperta del chimico Richard Lerner, MD, e del biologo molecolare Scott Hansen, Ph.D., risolve un dibattito scientifico secolare, che ancora oggi cova: gli anestetici agiscono direttamente sulle porte delle membrane cellulari chiamate canali ionici, oppure agiscono in qualche modo sulla membrana per segnalare i cambiamenti cellulari in un modo nuovo e inaspettato? Ci sono voluti quasi cinque anni di esperimenti, inviti, dibattiti e sfide per arrivare alla conclusione che è un processo svolto in due fasi che inizia nella membrana, dice il duo di scienziati. La perturbazione degli anestetici ordina ai gruppi lipidici all’interno della membrana cellulare noti come “zattere lipidiche” di iniziare il segnale.


“Pensiamo che non vi siano dubbi sul fatto che questo nuovo percorso venga utilizzato per altre funzioni cerebrali al di là della coscienza, consentendoci ora di svelare ulteriori misteri del cervello”, afferma Lerner.

Da:

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sabato 4 luglio 2020

L' EVOLUZIONE E UN MISTERO CHIAMATO "UOMO"





Da:

Scienza e fede.

Nell'evoluzione il mistero dell'uomo

Di:

Fiorenzo Facchini

Il rapporto fra creazione ed evoluzionismo in seno al dialogo fra scienza e fede è spesso stato al centro di interventi di Giovanni Paolo II.

Nel secolo XX una delle sfide più grandi alla fede cristiana è venuta dall’evoluzionismo ateo, che esclude Dio dal processo evolutivo della vita ispirandosi a una concezione materialistica dell’uomo. Lo scientismo ha pervaso molti settori della cultura generando ideologie riduzioniste. Il tema dell’evoluzione, se contrapposto a una visione di creazione, diventa un terreno favorevole alle ideologie. Alcuni l’hanno anche definita «la nuova questione galileiana». In campo cattolico questa lettura materialista non è stata solo contrastata, ma ha stimolato sul piano teologico, filosofico e scientifico una riflessione sul rapporto tra scienza e fede che apre la strada a una visione armonica tra i dati e le suggestioni della scienza e l’insegnamento della fede. Giovanni Paolo II si è occupato in varie occasioni di questi problemi affrontando alcuni nodi importanti, così da rendere possibile un dialogo e un’armonia tra la scienza e la riflessione teologica. Premesse e considerazioni importanti circa i rapporti tra scienza e fede erano venute dal Concilio Vaticano II con la Gaudium et Spes e le precisazioni della Dei Verbum sui generi letterari nella Bibbia. Essi si inseriscono nel più ampio quadro del rapporto tra scienza e ragione, sviluppato in seguito nell’enciclica Fides et ratio del 1998.
Sul tema specifico di creazione ed evoluzione si possono riconoscere nel pensiero di Giovanni Paolo II alcuni chiarimenti fondamentali circa tre questioni: gli inizi dell’universo, la teoria evolutiva, l’identità dell’uomo. La teoria del Big Bang per gli inizi dell’universo, proposta negli anni 40 del Novecento dallo scienziato belga Georges Le- maître, un sacerdote gesuita, teoria oggi largamente accettata, viene vista da non pochi come prova della creazione. Giovanni Paolo II in una lettera del 1 giugno 1988 al direttore della Specola Vaticana, padre Georges Coyne, dopo avere richiamato, citando Galilei, il necessario dialogo tra scienza e fede, osserva che il concetto di creazione è filosofico, non appartiene al dominio della scienza, e mette in guardia dalla tentazione di identificare la creazione col Big Bang. Il concetto di creazione non appartiene al dominio della scienza. Esso indica la dipendenza radicale di ciò che esiste da Dio ed esige l’intervento divino all’origine delle cose. Si può ritenere che la creazione si accordi con la teoria del Big Bang, ma il suo concetto è molto più vasto e di altro ordine. Anche il bosone di Higgs, scoperto nel 2012, che ha la capacità di dare massa e collegare le particelle infime della realtà, denominato per questo “particella di Dio”, va visto come metafora dell’interazione tra Dio e la realtà, non come ultima spiegazione della realtà. La distinzione dei piani di conoscenza, che è di ordine epistemologico, resta fondamentale.
Un altro punto importante nel magistero di Giovani Paolo II sul rapporto tra scienza e fede, in tema di evoluzione, riguarda la spiegazione dello sviluppo della vita sulla terra. Quale rapporto tra creazione ed evoluzione della vita? Nel messaggio del 22 ottobre 1996 alla Pontificia Accademia delle scienze Giovanni Paolo II riconosce che sono tante e congruenti le osservazioni provenienti dai vari campi della scienza, per cui l’evoluzione può considerarsi non una mera ipotesi (Pio XII nella Humani generis parlava, appunto, di ipotesi), ma una teoria, o forse si potrebbe parlare di “teorie dell’evoluzione”, per la pluralità delle spiegazioni proposte. In precedenza, anche in altre occasioni, Giovanni Paolo II aveva sfiorato l’argomento del rapporto tra evoluzione e creazione. Nel discorso al Simposio internazionale su fede ed evoluzione (”Osservatore Romano”, 27 aprile 1985) aveva affermato: «Una fede rettamente compresa nella creazione e un insegnamento rettamente inteso dell’evoluzione non creano ostacoli… L’evoluzione infatti presuppone la creazione; la creazione si pone nella luce dell’evoluzione come un avvenimento che si estende nel tempo – come una creatio continua – in cui Dio diventa visibile agli occhi del credente come creatore del cielo e della terra».

Nell’evoluzione il nodo forse più grande è l’uomo. Anch’egli si è evoluto come le altre specie? Dai Primati? E la sua identità spirituale? Come si riconosce nel corso della evoluzione? C’è da ricordare che nel corso del secolo XX non sono mancati filosofi e teologi disponibili ad ammettere l’evoluzione, anche dell’uomo, dopo le grandi aperture di Pierre Teilhard de Chardin: da Bergson a Maritain, a Guitton, da Chenu a Rahner, Haag, De Fraine, De Lubac, Moltmann, Martelet, Marcozzi, Flick, Alszeghy, Ratzinger, Ganoczy, Molari… Un’affermazione importante e chiara di Giovanni Paolo II al questo proposito si trova in un una catechesi tenuta in piazza San Pietro nel 1986 (”Osservatore Romano”, 17 aprile di quell’anno): «Si può dunque dire che dal punto di vista della fede non si vedono difficoltà nello spiegare l’origine dell’uomo, in quanto corpo, mediante l’ipotesi dell’evoluzione… È cioè possibile che il corpo umano, seguendo l’ordine impresso dal Creatore nelle energie della vita sia stato gradatamente preparato nelle forme di esseri viventi antecedenti. L’anima umana però da cui dipende in definitiva l’umanità dell’uomo, essendo spirituale, non può essere emersa dalla materia».
Un’osservazione non nuova, perché nella sostanza risale a Pio XII, alla Humani generis, in cui si afferma che anche in una ipotesi evoluzionista si deve ritenere «la creazione speciale dell’anima da parte di Dio». Ma la riflessione di Giovanni Paolo II appare più articolata. Questa considerazione sta alla base del concetto di «salto ontologico» che Giovanni Paolo affermò nel già citato messaggio del 22 ottobre 1996 alla Pontificia Accademia delle scienze, che in due parole definisce una discontinuità evolutiva la specificità dell’essere umano, arricchito dallo spirito. Questo concetto rappresenta una precisazione importante, pur lasciando interrogativi sul quando e sul come il passaggio sia avvenuto. Sul piano empirico possiamo cercare i segni di questo passaggio nella documentazione di comportamenti che denotano una discontinuità: i comportamenti progettuali e innovativi, con significato, e quindi a carattere simbolico, in una parola le espressioni della cultura. Ma qui si apre il campo alle interpretazioni degli studiosi che hanno inevitabilmente qualche carattere di soggettività, almeno fino a quando le manifestazioni della cultura sono tali da non lasciare dubbi. Certamente col tempo le discontinuità rispetto alle precedenti forme non umane, si fanno più evidenti. Molti autori propendono a riconoscere la discontinuità in Homo habilis di due milioni di anni fa, artefice della cultura olduvaiana, e ancora di più in Homo erectus (Homo ergaster) che realizzava utensili bifacciali.
Ma non si deve dimenticare che il tema dell’identità umana resta fondamentale anche nella generazione di ogni uomo. C’è una discontinuità ontologica tra la struttura biologica e lo spirito in ogni essere umano che si forma, anche se strettamente intrecciati nell’unità della persona. La discontinuità è colmata da Dio con l’animazione nel grembo materno. Ogni essere umano è tale perché arricchito dallo spirito che lo rende intelligente e libero, capace di rapportarsi col suo Creatore.

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