IL RISVEGLIO DEL CADUCEO DORMIENTE: la vera genesi dell'Homo sapiens

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VIDEO SINOSSI DELL'UOMO KOSMICO

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Con questo libro Marco La Rosa ha vinto il
PREMIO NAZIONALE CRONACHE DEL MISTERO
ALTIPIANI DI ARCINAZZO 2014
* MISTERI DELLA STORIA *

con il patrocinio di: • Associazione socio-culturale ITALIA MIA di Roma, • Regione Lazio, • Provincia di Roma, • Comune di Arcinazzo Romano, e in collaborazione con • Associazione Promedia • PerlawebTV, e con la partnership dei siti internet • www.luoghimisteriosi.it • www.ilpuntosulmistero.it

LA NUOVA CONOSCENZA

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GdM

lunedì 31 agosto 2020

C'E' VITA LA' ...FUORI?

 


"Centomila pianeti abitati nella sola Via Lattea, se c'è vita fuori dalla Terra"

Uno studio statistico italiano ha stimato quanti potrebbero essere gli esopianeti che ospitano la vita all’interno della nostra galassia se nei prossimi anni ne trovassimo almeno uno con chiari segni di attività biologica. L'astrofisico Amedeo Balbi: "Ma nessuno di questi è un mondo in cui potremo andare come specie umana in tempi ragionevoli"

Per ora non ne conosciamo nessuno, ma se trovassimo almeno un pianeta che ospita con certezza la vita, fuori dal Sistema solare, allora potrebbero essere centomila. È l’enigma pirandelliano che da secoli accompagna l’uomo: siamo soli, unici, nell’Universo? Due ricercatori italiani, Amedeo Balbi dell’Università di Roma Tor Vergata e Claudio Grimaldi, dell’Ecole Polytechnique di Losanna, hanno firmato uno studio statistico pubblicato su Pnas che calcola l’impatto di una scoperta, nei prossimi decenni, di biosignatures, le firme di gas prodotti da attività biologica nell’atmosfera di altri mondi. Tutto fa pensare che la Via Lattea pulluli di vita. Ma non di civiltà alla giusta distanza e nel giusto momento per comunicare con noi.

Partiamo dai risultati, cosa sappiamo in più ora?

"Il nostro studio è uno strumento statistico. Per rispondere a questa domanda: se dovessimo scoprire, nei prossimi 10 o 20 anni, con i nuovi strumenti, in modo conclusivo che c'è evidenza di vita, quanta ce ne potremmo aspettare in tutta la galassia? La nostra intuizione ci dice che saremmo abbastanza certi che sarebbe dappertutto. Questo a livello intuitivo, diciamo un argomento qualitativo. Il nostro studio invece va su un piano quantitativo, che potrà servire in futuro per valutare le nuove osservazioni".

Con quali conclusioni?

"Se, nei prossimi 20 anni nei pianeti osservati troveremo evidenza di vita da un’altra parte, potremmo concludere, con una probabilità superiore al 95%, che ci sono  più di 100.000 pianeti abitati nella galassia. Questo in ragione del fatto che il campione che possiamo analizzare è molto circoscritto a una regione piccola attorno al Sistema solare, e conoscendo il potenziale numero di pianeti abitabili. Un altro esercizio è stato quello di confrontare l’atteggiamento ottimista, quello di chi è propenso a credere che ci sia vita al di fuori della Terra, con quello pessimista, che ritiene invece che sia un fenomeno molto raro. Due presupposti che non hanno fondamento, perché la Terra è l’unico pianeta che conosciamo a ospitare forme viventi".

E cosa è emerso?

"È emerso che, se trovo qualcosa là fuori, diventa difficile sostenere la tesi pessimista, anche un osservatore totalmente imparziale sarebbe portato a credere che la vita è abbastanza comune. Se invece non trovassimo nulla, chi sostiene le due posizioni rimarrebbe della propria idea. Perché il campione di pianeti che riusciremo ad analizzare è talmente piccolo, parliamo di una o qualche decina, che non trovare nulla non altererebbe l’opinione, sarebbe come immergere un bicchiere nell’oceano, non trovarci nemmeno un pesce e ipotizzare che non ce ne siano in assoluto. Anche una sola prova invece cambierebbe tutto, ma un’evidenza certa non l’avemo mai".

Di che osservazioni parliamo?

"Si parla di capire cosa c’è nell’atmosfera di pianeti di taglia terrestre fuori dal Sistema solare. Per farlo dobbiamo analizzare la luce della stella mentre le transitano davanti. La luce attraversa l’atmosfera, interagisce e viene modificata, portando la firma spettrale degli elementi di cui è composta. Osservando questa traccia possiamo capire quali elementi compongono l’atmosfera di quel pianeta. È un metodo che si usa già, ma con i grandi pianeti gassosi, simili a Giove, con pianeti piccoli e rocciosi, con un’atmosfera sottile come la Terra, ci riusciremo forse tra 20 anni".

Quali elementi presenti in un’altra atmosfera farebbero gridare "Eureka, lì c’è vita"?

"Per esempio la presenza simultanea di metano e ossigeno, che reagiscono in tempi rapidi. Se li osservassimo a lungo dovremmo ipotizzare qualcosa che li continua a produrre. Per esempio la vita. Ma onestamente, non c’è qualcosa che ti possa convincere al cento per cento. La vita è un processo, dovresti osservare su tempi sufficientemente lunghi per convincerti che quello è un elemento di disequilibrio dovuto a processi biologici. Parlando per esempio del metano su Marte, è complicato da capire se sia di origine biologica".

La Terra come apparirebbe a un alieno che la osserva da così lontano?

"Questa domanda se la pose Carl Sagan negli anni ‘90, e quando fu inviata la sonda Galileo per esplorare Giove, durante uno dei sorvoli della Terra, usò gli strumenti per osservare il nostro Pianeta. Il titolo sui giornali fu: 'C'è vita sulla Terra? Sì. Una cosa simile è stato fatto di recente con il telescopio spaziale Hubble".

Queste sono prove o indizi indiretti.

"La prova diretta sarebbe andare sul posto di persona. Questo per dire che sarà un processo lungo e non ci arriveremo in una notte. Un pessimista avrebbe bisogno di prove schiaccianti".

Tipo messaggi o comunicazioni radio?

"Lo stesso Sagan, che era molto interessato al Seti (Search for extra terrestrial intelligence ndr), fece anche osservazione delle comunicazioni radio che emettiamo dalla Terra, per capire se dallo spazio sarebbe possibile rilevarle. Da un lato sembra più semplice: invece di cercare e interpretare la presenza e l‘origine di ossigeno e metano nelle atmosfere degli esopianeti, se becco un segnale radio con una comunicazione che intuisco essere artificiale, ho la prova dell’esistenza di vita, per giunta intelligente. Mettiamo che da un altro pianeta abbiano osservato la terra e visto che c'è questo pianeta abitabile con segni biologici. E decidano di sparare un segnale radio nella nostra direzione per dire 'siamo qui'. Se avessero la potenza che abbiamo disponibile noi oggi, sarebbero visibili da mille anni luce. La questione è che è tutto molto più improbabile che accada".

C’è il piccolo problema di ‘incrociarci’ al momento giusto, nella storia dell’Universo lunga 13 miliardi di anni.

"Sia io che Claudio Grimaldi ci siamo occupati di questo con due paper indipendenti. Ne è emerso che se dovessimo captare un segnale di questo tipo emesso da una civiltà intelligente, facendo le solite ipotesi statistiche, dovrebbe essere emesso per un tempo lungo oltre un milione di anni".

Calcolando che la storia dell’uomo va avanti da appena qualche migliaio di anni e la nostra tecnologia è minimamente adeguata da nemmeno un centinaio…

"Dovrebbe essere tutto sincronizzato, dovremmo osservare al momento giusto nella direzione giusta. Se un segnale fosse passato di qui 1.000 anni fa non l’avrebbe ascoltato nessuno, è una finestra molto piccola. La ricerca della vita intelligente è un campo di grande attività, si parla di technosignatures, segnali tecnologici. È il vecchio Seti allargato a vari tipi di comunicazione, anche laser. E grazie alle nuove capacità osservative ci si spingerà oltre, a osservare effetti del riscaldamento climatico o la presenza di strutture giganti. Cose che nella scala della plausibilità sono le più improbabili ma bisognerebbe cominciare a prenderle sul serio, come stanno cominciando a fare la Nasa e molti privati".

Nel vostro paper introducete anche un’altra variabile: la panspermia. Cioè che la vita possa essere stata portata e diffusa tra pianeti più o meno vicini, grazie agli asteroidi.

"Tutto ciò che abbiamo detto finora è basato su ipotesi che la vita su ciascun pianeta sia apparsa indipendentemente. Ma se fosse apparsa su Marte e un meteorite l'avesse trasportata sulla Terra, avrei un solo luogo in cui è nata. La nostra analisi statistica ne sarebbe influenzata e la conclusione si indebolirebbe. In una zona della galassia ci potrebbe essere un cluster di pianeti parenti che si scambiano la vita. E il resto potrebbe essere disabitato".

Perché ci diamo tanta pena? Cosa ci spinge a cercare altra vita?

"Io lo faccio per curiosità, è una domanda che mi intriga da quando sono bambino. Che però va a toccare corde più profonde. Ha a che fare col nostro posto nell'Universo: siamo soli oppure no? Con una serie di implicazioni sui meccanismi della vita, se quello che è avvenuto sulla Terra è universale, se la vita segue stessi processi ovunque o c’è un’alta componente di casualità".

Nel suo canale Youtube ha raccontato della tecnologia dei viaggi interplanetari. Pare che l’ipotesi di trovare un ''pianeta b'' da colonizzare fuori dal Sistema solare sia esclusa.

"Quella del 'piano b' è la domanda meno rilevante in assoluto, per quanto mi riguarda. Nessuno di questi è un mondo in cui potremo andare come specie umana in tempi ragionevoli, e stabilircisi. Non solo perché il viaggio è interminabile e complicato. Stiamo capendo che ogni pianeta è diverso. La vita è un prodotto del pianeta stesso, non puoi prenderla e trapiantarla da un'altra parte come una piantina. Non ci sarà mai, forse, un pianeta gemello della Terra".

Quindi anche se scoprissimo la vita su altri pianeti o addirittura altre civiltà, saremmo condannati a sapere che ci siamo ma a non conoscerci?

"Secondo me sì. Forse non siamo soli ma siamo isolati. Se per ipotesi qualcuno ti dicesse: 'C’è sicuramente un’altra civiltà intelligente nella galassia. Ora trovala'. Il numero di posti dove devi guardare è sterminato e non c’è abbastanza tempo per farlo".

Lei ha scritto un libro: "Dove sono tutti quanti?". È ottimista o pessimista?

"Per quanto riguarda la vita di per sé sono moderatamente ottimista, la mia sensazione è che possa essere comune ma in una forma non necessariamente corrispondente a ciò che osserviamo sulla Terra. Parlo di vita microscopica, cellulare. Sono più pessimista sulla presenza di specie più complesse o intelligenti".

In assoluto oppure nell’ipotesi di trovarle proprio qui vicino e proprio ora?

"Per arrivare alle cose complesse devi partire da quelle semplici. Sulla Terra quella unicellulare è stata l’unica forma di vita per tre miliardi di anni. Serve un pianeta che ha condizioni adatte e stabili per così tanto tempo. Già questo ti taglia fuori un sacco di posti. Anche sulla Terra, pensiamo alle grandi estinzioni, ci sono stati periodi in cui la vita è stata vicina a estinguersi. Se la vedi con ottimismo, dici che la vita, una volta che ha attecchito, è difficile da estirpare. Il pessimista ti dirà che ci ha detto bene e noi siamo nel bias del sopravvissuto. Quello che ti fa pensare che scamparla sia sia stato più facile del normale, invece è stata fortuna. Credo che sia improbabile non solo che troveremo evidenze di altre civiltà intelligenti, ma che possano essercene in assoluto, almeno nella nostra galassia".

DA:

https://www.repubblica.it/scienze/2020/08/19/news/esopianeti_piu_di_100_mila_nella_nostra_galassia_le_firme_biologiche_dai_gas_per_rintracciarli-264962674/

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LA VERA "GENESI" DELL'UOMO E' COME CI HANNO SEMPRE RACCONTATO? OPPURE E' UNA STORIA COMPLETAMENTE DIVERSA?

"L'UOMO KOSMICO", TEORIA DI UN'EVOLUZIONE NON RICONOSCIUTA"
" IL RISVEGLIO DEL CADUCEO DORMIENTE: LA VERA GENESI DELL'HOMO SAPIENS"
DI MARCO LA ROSA
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giovedì 27 agosto 2020

FISICA E...IMMORTALITA'

 


da:

https://radiomaria.it/la-fisica-quantistica-e-limmortalita-dellanima/

La fisica quantistica e l’immortalità dell’anima.

Non è facile essere atei. Non solo perché chi smette di credere in Dio finisce per credere in qualsiasi altra cosa. Ma anche perché la scienza sorprende con le dimostrazioni delle verità di fede. L'ultima in ordine di tempo: l'immortalità dell'anima.

Il pantheon cattolico talvolta appare quasi più complicato e affollato dell’universo Marvel. Il credente, infatti, crede in Dio-padre-onnipotente, nel suo Figlio incarnato, morto e risorto, nello Spirito Santo che soffia dove vuole, in una divinità Una ma anche Trina, nella Madonna vergine, nelle gerarchie angeliche (che sono davvero tante: cherubini, serafini, troni, dominazioni, arcangeli…), in Satana e i suoi diavoli, nelle schiere dei santi & beati, nei miracoli, nel Paradiso, nel più difficile da digerire Inferno, nell’ambiguo Purgatorio, nelle apparizioni mariane, nel potere delle reliquie, nell’efficacia del rosario… Insomma, un sacco di roba da trangugiare, gran parte della quale alla cieca, per fede.

Anche da qui la tentazione dell’ateismo, all’apparenza molto più facile da digerire e praticare perché ha un solo dogma riassumibile in una sola frase: non è vero niente. Perciò si fa prima ad essere atei (non ci credo) o agnostici (chissenefrega). Ma le cose stanno davvero così? Davvero l’ateismo è più semplice della religiosità? Da un punto di  vista sociologico si potrebbe analizzare il dato di fatto che chi non crede in Dio non è vero che non crede in niente perché in realtà crede a tutto il resto. Ma lo ha già detto autorevolmente G.K.Chesterton, perciò inutile perdere tempo. Voi starete pensando a quelli che spendono in astrologi e cartomanti, o a quelli che pendono dalle labbra di Giuseppi. E starete anche pensando che ben altra cosa sono gli scienziati seri, quelli che cercano nella materia le risposte alle domande sull’esistenza. Ebbene, a giudicare dalle ultime acquisizioni c’è da chiedersi se davvero sia meno complicato credere in Gesù.

Un articolo uscito l’8 agosto su Reccom Magazine e intitolato Illusion of Death, «l’illusione della morte» (un tempo la lingua della Scienza era il latino, oggi è l’inglese) ha per sottotitolo: «Nell’universo quantico esistiamo a tempo indeterminato». Be’, la cosa è rassicurante e certo toglie alla morte gran parte della sua terrificità. Roger Penrose (dimenticavo: sir) è un «famoso fisico e matematico»  di Oxford che, con i ricercatori dell’altrettanto famoso Max Planck Institute di Monaco, si è accorto che «l’universo fisico in cui viviamo è solo una nostra percezione e una volta che i nostri corpi fisici muoiono c’è un’infinità oltre». Meno male, mi sento rassicurato. Tranquilli, dunque, perché, sì, «il corpo muore ma il campo quantico spirituale continua. In questo modo siamo immortali». Infatti, «esiste un numero infinito di universi e tutto ciò che potrebbe accadere si verifica in qualche universo». Cioè, se muoio in un universo  può benissimo darsi che io non sia ancora morto in un altro, se ho ben capito. Di più: non si muore mai veramente, nemmeno negli altri universi.

Dice lo scienziato (o il redattore? boh, non è chiaro): «Sebbene i singoli corpi siano destinati all’autodistruzione, il sentimento vivo, il “chi sono io?”, è solo una fonte di energia da 20 watt che opera nel cervello. Ma questa energia non va via alla morte». Perché? «Uno degli assiomi più sicuri della scienza è che l’energia non muore mai; non può né essere creata né distrutta». Ma allora, dico io, quando uno nasce, da dove provengono quei 20 watt di energia? Trasmigrazione delle anime? Reincarnazione? Boh. E che cos’è allora la coscienza? Nient’altro che «informazioni archiviate a livello quantico». Sì, perché dovete sapere che «i microtubuli a base di proteine, una componente strutturale delle cellule umane, contengono informazioni quantistiche memorizzate a livello sub-atomico». E le esperienze di pre-morte, quelle in cui uno vede se stesso in rianimazione e poi la luce gioiosa in fondo al tunnel? Sono i microtubuli. Se invece «il paziente non viene rianimato e muore, è possibile che questa informazione quantistica possa esistere al di fuori del corpo, forse indefinitamente, come anima». Eh, davvero credevate fosse più semplice essere atei?

Da:

https://radiomaria.it/la-fisica-quantistica-e-limmortalita-dellanima/

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lunedì 24 agosto 2020

IL VOLTO DI...DIO?

 

Israele, statue con la "faccia" di Dio: la teoria di un archeologo fa discutere.

da:

https://www.ilmessaggero.it/scienza/dio_statuette_figura_studio_israele-5380641.html

Quelle piccole figure maschili rappresenterebbero, in realtà, la faccia di Dio. È la clamorosa teoria di Yosef Garfinkel, professore all'università Ebraica, raccontata in un articolo inserito nel numero di ottobre 2020 della rivista Biblical Archaeology Review.


Le statuette risalgono al X-IX secolo a.C., sono associate ad altre raffiguranti dei cavalli ed erano state ritrovate nell'antico regno di Giuda. 

 «Credo proprio che la gente anticamente ritenesse che quelle statuette rappresentassero Yahweh», ha rivelato al The Times of Israel nei giorni scorsi il professor Garfinkel. In molti, però, nell'ambiente sembrano non essere persuasi da una simile teoria. Non sarebbe un caso, a detta dei colleghi dell'accademico, che la notizia sia stata pubblicata su una rivista generalista e non su un testo accademico. «Parliamo di puro sensazionalismo, rivolto alla grande distribuzione, con l'unico scopo di generare denaro», hanno dichiarato senza mezzi termini i condirettori degli scavi di Tel Motza Shua Kisilevitz (Israel Antiquities Authority e Università di Tel Aviv) e Oded Lipschits (Università di Tel Aviv). Che poi hanno aggiunto «Sono stati ignorati autorevoli studi per dare una spiegazione migliore di quella vera».

A dare manforte alle toerie di Garfinkel, però, ci sarebbero dei versetti biblici tratti dal libro di Abacuc, in cui si parlerebbe della presenza statuette raffiguranti divinità, ma della difficoltà di reperire le stesse, almeno fino agli scavi di Khirbet Qeiyafa, trenta chilometri a sud-ovest di Gerusalemme, condotti dal professore circa dieci anni fa. In questi, era stata rinvenuta una testa maschile risalente, dalle analisi effettuate, al decimo secolo avanti Cristo.


E quindi la descrizione del professore: «La fronte piatta, le orecchie il naso e gli occhi sporgenti, che sembrebbero essere stati fatti in due fasi. Prima attaccati al viso, poi forati per creare l'iride. Le orecchie bucate sembrerebbero essere dovute alla presenza di orecchini, mentre in testa dei piccoli solchi lascerebbero pensare a un copricapo, magari una corona».

La notizia, se conformata, sarebbe sconvolgente per due ordini di ragioni. Innanzitutto, a fronte delle tante statuette di donne rinvenute, quelle delle divinità maschili nell'antichità sono rarissime. Nelle credenze del Regno di Giuda, inoltre, erano assolutamente vietate. Questo non impedisce, tuttavia, che in concreto delle statuette siano state effettivamente create.

Se secondo il professore, nell'iconografia tradizionale, Dio sarebbe rappresentato come un anziano simile a Zeus e seduto su un trono con uno scettro, quello della statuetta in questione sarebbe diverso, perché, appunto, andrebbe a cavallo. Spiegazione possibile, in quanto nel regno di Giuda e Israele ogni popolo aveva una divinità rappresentata in modo differente. Il dubbio è stato alimentato dalle successive scoperte, che nella stessa zona portarono al rinvenimento di altre statuette simili, oltre a quella un tempo custodita dall'ex ministro della difesa Moshe Dayan e ora al museo di Israele. Da lì il dubbio che potessero raffigurare un dio. 

A sostegno, anche i luoghi in cui furono trovate: non una casa, bensì il tempio di Motza. Alle teorie, secondo cui, invece si tratterebbe di sculture eccessivamente rudimentali per una divinità, Garfinkel ha risposto che si discute di una società contadina, differente dai regni di Egitto e Mesopotamia, dove esistevano già artisti affermati.

Naturalmente folto il coro dei critici e, se diversi archeologi hanno preferito non commentare, i direttori degni scavi si sono espressi in termini piuttosto netti: «L'articolo è pieno di inesattezze e anche l'approccio metodologico è discutibile».

Tra le critiche anche inesattezze temporali, in quanto le figure sarebbero antecedenti alla comparsa di Yahweh. Sebbene, poi, niente dica con certezza che non sono figure divine, altrettanto vero è che non si sono mai viste divinità cavalcare animali nell'iconografia tradizionale di quei luoghi e di quei popoli. Ci sarebbero, infine, le dimensioni del cavallo e della divinità, fra loro incompatibili.

 da: 

https://www.ilmessaggero.it/scienza/dio_statuette_figura_studio_israele-5380641.html


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mercoledì 19 agosto 2020

I FUNGHI E IL FUTURO DELLA COLONIZZAZIONE SPAZIALE

             

Scoperta la chiave per sopravvivere su Marte? : è un fungo nero nel reattore di Chernobyl

 Straordinario quanto scoperto nel reattore di Chernobyl: si tratta di un fungo in grado di assorbire le radiazioni. Potrebbe rappresentare la chiave per sopravvivere/bonificare (?) Marte…o comunque, in ambienti altamente radioattivi.


 Scoperta a dir poco straordinaria quella fatta nientemeno che all’interno del arcinoto reattore nucleare di Chernobyl, completamente distrutto nell’altrettanto noto disastro del 1986. Qui, come scoperto dagli scienziati, si sarebbe sviluppato un fungo in grado di proteggere dalle radiazioni e che, anche se per ora si tratta solo di ipotesi, potrebbe rappresentare la chiave per sopravvivere in futuro su Marte. Il pianeta rosso non è infatti ad oggi accessibile dall’uomo per via del livello di radioattività estremamente elevato. Ma grazie alla scoperta di un team di ricercatori dell’università di Stanford e già testata sulla Stazione Spaziale Internazionale, le cose potrebbero presto cambiare.

Si tratta di un fungo nero dello spessore di 21 centimetri.


Come riportato dal Daily Mail i dettagli della scoperta sono stati descritti su New Scientist: quello individuato sarebbe un fungo dello spessore di 21 centimetri in grado di “negare ampiamente l’equivalente dose annuale dell’ambiente di radiazione sulla superficie di Marte“, come sottolineato da Nils Averesch dell’università di Stanford a New Scientist. “Ciò che rende fantastico il fungo è che hai solo bisogno di pochi grammi per iniziare”. Già nel 1991 vennero scoperte le prime tracce di questo fungo nero, comparso sulle pareti del reattore cinque anni dopo l’esplosione. Le ulteriori scoperte hanno permesso di accertare che non solo è in grado di auto-replicarsi ma anche di auto-guarire. Qualora un bagliore solare dovesse danneggiare lo schermo radioattivo, dunque, esso sarebbe in grado di riformarsi nell’arco di pochi giorni. L’esperto ha infatti ricordato: “È già stato in grado di assorbire i dannosi raggi cosmici sulla Stazione Spaziale Internazionale e potrebbe essere potenzialmente utilizzato per proteggere le future colonie di Marte”.


Da:

https://va.news-republic.com/a/6853881241024856581?app_id=1239&c=sys&gid=6853881241024856581&impr_id=6854242070737127685&language=it&region=it&user_id=6699498745832932357

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venerdì 14 agosto 2020

I MISTERI DEL DNA A "QUATTRO" FILAMENTI (G4)


Trovato un dna umano a quattro filamenti.

La curiosa struttura di dna a quattro filamenti, chiamata G4, è stata osservata per la prima volta nelle cellule viventi. E poiché sembra essere più abbondante in quelle tumorali, le future osservazioni potrebbero fornire informazioni preziose per nuove terapie.

Il dna ha una struttura a doppia elica. Fin qui non ci sono dubbi, o forse sì. Perché oggi un team di ricercatori dell’Imperial College di Londra, in collaborazione con le università di Leeds e Cambridge, ha osservato in cellule umane un dna davvero molto strano, composto da ben quattro filamenti. Il loro studio, pubblicato sulla rivista Nature Chemistry, dimostra che questa particolare forma, già osservata in precedenza in esperimenti di laboratorio, è una dei tanti aspetti che può assumere il dna. “Per la prima volta abbiamo dimostrato che il dna a quadruplo filamento si forma nelle nostre cellule, come una struttura stabile creata da normali processi cellulari”, racconta l’autore dello studio Marco Di Antonio. “Una scoperta che ci spinge a ripensare alla biologia del dna” e che potrebbe migliorare la nostra comprensione su come il materiale genetico diffonde le sue informazioni.

Normalmente, una molecola di acido deossiribonucleico (o dna) è composta da quattro basi azotate, adenina, citosina, guanina e timina, che si legano tra loro per dar vita alla classica struttura a doppia elica. Quando crea una struttura a quattro filamenti, invece, le quattro basi di guanina, l’unica in grado di legarsi con se stessa, possono disporsi formando un quadrato e assumendo una forma chiamata dai ricercatori dna G-quadruplexes, o in breve G4. Per giungere a questa conclusione, i ricercatori si sono serviti di innovative tecniche di fluorescenza, ovvero hanno inserito un nuovo tipo di marcatore fluorescente al dna all’interno delle cellule umane osservando per la prima volta come si forma la struttura e quale ruolo può giocare nelle cellule. I risultati, raccontano i ricercatori, rappresentano un’ulteriore conferma che le strutture a quattro filamenti fanno parte della regolazione e funzione del dna e che la nostra conoscenza della doppia elica potrebbe non essere, quindi, più tanto aggiornata.

Già un paio di anni fa un team di ricercatori dell’australiano Garvan Institute of Medical Research era riuscito a osservare in provetta questa struttura del dna a quattro filamenti. Nei loro esperimenti di laboratorio, come vi avevamo raccontato, i ricercatori si erano accorti che in alcuni punti le molecole che lo compongono possono aggrovigliarsi e formare nodi composti da quattro ciocche, in una struttura chiamata dai ricercatori i-motif. Questa struttura, tuttavia, si forma e si disfa molto rapidamente, suggerendo quindi che svolge una specifica funzione e che, se dura troppo a lungo, potrebbe risultare tossica per i normali processi cellulari.

Ma perché il dna assume questa forma, per noi ancora così particolare? Probabilmente per divulgare meglio le informazioni genetiche. “Sappiamo esattamente cosa fa il dna”, spiega Di Antonio. “Ma come fa la cellula a sapere dove esprimere i geni e quante proteine produrre?” I ricercatori, in altre parole, ipotizzano che la struttura a quattro filamenti si formi per tenere momentaneamente aperta la molecola, in modo da rendere più facile la lettura del codice genetico (in un processo chiamato trascrizione) e, quindi, la produzione di proteine. Solitamente, questo compito viene svolto dai cosiddetti marcatori epigenetici, tag chimici sul dna che aumentano o diminuiscono l’attività dei geni, e sembra che questa forma del dna abbia un ruolo simile.

La forma G4, tuttavia, sembra essere associata più spesso ai geni coinvolti nel cancro, ed è stata infatti rilevata maggiormente all’interno delle cellule tumorali. Da qui, i ricercatori potrebbero identificare il suo ruolo all’interno di questi geni, e offrire perciò informazioni preziose per lo sviluppo di nuovi farmaci in grado di bloccare questo processo. “È una nuova area della biologia che potrebbe aprire nuove strade nella diagnosi e nella terapia di malattie come il cancro”, conclude l’autore. “Ora possiamo tracciare il dna G4 in tempo reale nelle cellule e possiamo studiare direttamente quale sia il suo ruolo. Sappiamo che è più diffuso nelle cellule tumorali e ora possiamo capire quale ruolo ricopre e potenzialmente come bloccarlo, escogitando nuove terapie”.

da:

https://www.wired.it/scienza/medicina/2020/07/21/dna-quattro-filamenti-cellule/


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martedì 11 agosto 2020

LE SCONOSCIUTE "FORME" DELL'ACQUA

Studio scopre l'esistenza di due diverse forme di acqua.




Roma, 17 lug. (askanews) - Un nuovo studio numerico, risultato di una collaborazione tra la Sapienza Università di Roma e la Princeton University, ha dimostrato per la prima volta l'esistenza di due diverse forme di acqua, ovvero di due distinte fasi liquide che a bassissime temperature si separano, galleggiando l'una sull'altra. Il lavoro, pubblicato sulla rivista Science, apre nuove strade alla comprensione dei misteri legati al liquido della vita.

Ogni liquido assume la forma del contenitore che lo accoglie. Sappiamo che è così perché riusciamo a osservarlo direttamente con i nostri occhi. Eppure questa affermazione vale solo a livello macroscopico. A livello molecolare infatti ogni liquido ha una forma propria determinata dalla posizione spaziale in cui si dispongono le molecole che lo compongono.

L'acqua, il liquido della vita, potrebbe invece essere differente e avere, non una, ma bensì due forme molecolari diverse: una forma in cui localmente ogni molecola è circondata da quattro altre molecole disposte con una geometria tetraedrica (ordinata) e con le quali forma dei legami particolarmente intensi (i legami idrogeno), e una in cui la struttura tetraedrica invece è significativamente distorta, ovvero una configurazione più disordinata, in cui alcune molecole formano solo tre o cinque legami idrogeno.

La competizione tra queste due strutture spiegherebbe le anomalie dell'elemento più prezioso e abbondante della Terra: l'acqua infatti ha un comportamento che differisce da quello di tutti gli altri liquidi esistenti in natura. Per esempio come solido ha una densità inferiore che come liquido (si spiega così il galleggiamento del ghiaccio), ha un calore specifico molto alto (è in assoluto il liquido che impiega più tempo per riscaldarsi), ha una tensione superficiale elevata (le gocce d'acqua rimangono integre su molte superfici, come sulle foglie delle piante, e non si espandono come gli altri liquidi).

Nonostante i molteplici lavori, teorici e sperimentali condotti negli ultimi venti anni, non sono state prodotte prove definitive del ruolo giocato da queste due strutture all'interno dell'acqua.
Un nuovo studio pubblicato sulla rivista Science fornisce una prova inequivocabile, basata sui più accurati modelli oggi disponibili, che l'unicità dell'acqua dipenda proprio dalla non univocità della sua forma. Il lavoro, frutto della collaborazione scientifica fra Francesco Sciortino del Dipartimento di Fisica della Sapienza di Roma e il team di Pablo Debenedetti della Princeton University (USA), ha dimostrato per la prima volta che a temperature bassissime la "competizione" tra le due strutture genera due fasi liquide ben distinte, con diversa densità e che il passaggio tra le due "acque" costituisce una vera e propria transizione di fase, esattamente come avviene, ad esempio, da una fase solida a una gassosa.

In particolare, i ricercatori hanno visto che al di sotto della temperatura di circa -180 gradi Kelvin, l'equivalente di -90 gradi Celsius, dove l'acqua è metastabile rispetto al ghiaccio, la densità del liquido comincia a oscillare fra due valori: liquido a bassa densità e liquido ad alta densità.
"Come il ghiaccio che galleggia sull'acqua - spiega Francesco Sciortino - sotto i 180 gradi Kelvin, l'acqua di bassa densità galleggia sopra l'acqua di alta densità. Abbiamo dimostrato, con modelli alquanto accurati, un punto critico per la transizione liquido-liquido: la prova teorica che serviva per convincere la comunità scientifica che è possibile avere un sistema puro (una sola componente) con più di una fase liquida".

Per raggiungere questi risultati sono state necessarie simulazioni estremamente lunghe di sistemi particolarmente grandi, un vero tour-de-force numerico che ha richiesto una enorme quantità di risorse di calcolo, sia a Roma che a Princeton. Gli autori infatti hanno risolto le equazioni del moto che descrivono l'evoluzione del liquido per ben 100 miliardi di volte di seguito coprendo così un intervallo temporale di circa 100 microsecondi, per osservare la transizione tra i due liquidi che avviene sulla scala di decine di microsecondi, prima che l'acqua cristallizzi.

"Grazie a questo lavoro - conclude Sciortino - disponiamo di un modello e di dati numerici accurati che ci consentiranno in futuro di osservare la struttura molecolare su scala subnanometrica, per dimostrare sperimentalmente questa transizione di fase e per scartare scenari termodinamici rivelatisi inadeguati a coglierne l'esistenza".

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