IL RISVEGLIO DEL CADUCEO DORMIENTE: la vera genesi dell'Homo sapiens

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Con questo libro Marco La Rosa ha vinto il
PREMIO NAZIONALE CRONACHE DEL MISTERO
ALTIPIANI DI ARCINAZZO 2014
* MISTERI DELLA STORIA *

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LA NUOVA CONOSCENZA

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GdM

sabato 10 febbraio 2018

UN BARLUME DI SPERANZA PER LE VITTIME DELL'URANIO DEPLETO?


Uranio impoverito, «morti sconvolgenti tra i militari». E ora litigano tutti

Perché tutti quei morti di cancro tra i militari ma anche civili dentro o in prossimità di basi delle Forze Armate? Perché quei 1.101 tra morti e malati nella sola Marina Militare? E’ una relazione finale sconvolgente, quella dalla Commissione parlamentare che ha indagato sull’uso di uranio impoverito e di amianto nelle operazioni della Difesa. «Sconvolgente», è anche la parola usata dalla stessa commissione per definire le «criticità», l’approssimazione e le coperture delle autorità militari e di governo nel gestire una situazione che si è protratta troppo a lungo, quasi che vi fosse una presunzione di «impunità» da parte degli apparati militari. La relazione finale, passata con 10 voti a favore e 2 contro (quelli di Elio Vito e di Mauro Pili), è stata presentata oggi alla Camera dal presidente della Commissione, Gian Piero Scanu (Pd), che ha annunciato la trasmissione del documento (248 pagine) alla procura di Roma perché valuti eventuali ipotesi di reato.
Una relazione che diventa un atto di accusa pesantissimo, ma che ora fa litigare tutti. Litigano i politici, perché il centrodestra difende i capi delle Forze armate e definisce «antimilitarista» la relazione. Litigano i vertici della Difesa, infuriati e sdegnati per la relazione. Litigano persino gli scienziati, in maggioranza convinti che l’uranio sia un fattore cancerogeno, mentre altri (una minoranza) lo negano e addirittura uno degli esperti ascoltati dalla commissione nega di averlo detto.


La relazione:

«Mai più militari morti e ammalati senza sapere perché. Mai più una `penisola interdetta´, come quella Delta del Poligono di Capo Teulada. Mai più una gestione del territorio affidata in via esclusiva all’autorità militare, senza interlocuzioni con l’amministrazione dell’ambiente, con la Regione e con le Autonomie locali: ecco gli obiettivi perseguiti dalla quarta Commissione parlamentare d’inchiesta sull’uranio impoverito». È quanto si legge nella relazione finale sull’attività svolta dalla Commissione. «Garantire al meglio la sicurezza e la salute dei militari non è un sogno, ed è un atto dovuto alle nostre Forze armate per l’impegno e lo spirito di sacrificio dimostrati ogni giorno al servizio del Paese», si legge ancora. La commissione spiega: «La Penisola Delta del Poligono di Capo Teulada è diventata il simbolo della maledizione che per troppi decenni ha pesato sull’universo militare: utilizzata da oltre 50 anni come zona di arrivo dei colpi, permanentemente interdetta al movimento di persone e mezzi. Le immagini satellitari ritraggono una discarica non controllata: sulla superficie tonnellate di residuati contenenti cospicue quantità di inquinanti in grado di contaminare suolo, acqua, aria, vegetazione, animali. E l’uomo. Non sorprendono, a questo punto, le indagini condotte dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Cagliari per il delitto di disastro doloso. L’omessa bonifica per ragioni di `convenienza´ economica e il prosieguo delle esercitazioni sono scelte strategiche che stonano a fronte di un crescente e assordante allarme prodotto dalla penisola interdetta tra cittadini e istituzioni».
L’uranio, ma anche l’amianto ed i poligoni sono stati usati usati come «discariche non controllate». Nel settore della salute e della sicurezza sul lavoro delle forze armate sono state scoperte «criticità sconvolgenti», che «in Italia e nelle missioni all’estero hanno contribuito a seminare morti e malattie tra i militari», malgrado il «negazionismo» dei vertici della Difesa e gli «assordanti silenzi generalmente mantenuti dalle Autorità di Governo».


Lo sdegno delle autorità militari:

All’attacco frontale della Commissione parlamentare d’inchiesta sull’uranio impoverito replica con altrettanta durezza lo Stato Maggiore della Difesa: «accuse inaccettabili, noi tuteliamo la salute dei militari, adottando tutte le cautele e controlli sanitari periodici».
«I vertici militari - è scritto nel comunicato dello Stato Maggiore - sentono come prima responsabilità e dovere quello di preservare e difendere la salute del proprio personale in ogni circostanza». Lo Stato Maggiore ribadisce che le «Forze armate italiane mai hanno acquistato o impiegato munizionamento contenente uranio impoverito» e ciò è stato confermato «anche dalle commissioni tecnico-scientifiche ingaggiate dalle 4 Commissioni parlamentari che dal 2005 ad oggi hanno indagato su tale aspetto. Centinaia di ispezioni in siti militari, aree addestrative, poligoni con decine e decine di analisi di suoli e acque hanno concordemente escluso presenza di uranio impoverito da munizionamento e spiace che tale dato oggettivo e inoppugnabile sia stato omesso nelle dichiarazioni pubbliche della Commissione».


La polemica scientifica:

Il presidente della Commissione, Scanu, ha definito «pietra miliare» un passo del documento che parla di «nesso di causalità tra l’esposizione all’uranio impoverito e le patologie denunciate» dal personale in divisa. Ma proprio su questo punto si è aperta una polemica scientifica. La Relazione cita infatti l’audizione di Giorgio Trenta, presidente dell’Associazione italiana di radioprotezione medica, che ha «riconosciuto la responsabilità dell’uranio impoverito nella generazione di nanoparticelle e micropolveri, capaci di indurre i tumori che hanno colpito anche i nostri militari inviati ad operare in zone in cui era stato fatto un uso massiccio di proiettili all’uranio». Il professore parla però di «parole travisate, non ho mai detto che l’uranio impoverito è responsabile dei tumori riscontrati nei soldati». Scanu replica citando un passo di una perizia firmata da Trenta dove ricorda la responsabilità dei proiettili all’uranio impoverito «nel generare le nanopolveri, che sono, in effetti, la vera causa dell’induzione di molte forme tumorali. In conclusione, si può affermare, mutuando dalla criminologia, che l’uranio depleto è il mandante e le nano-polveri l’esecutore». Sul tema interviene poi un altro esperto, Carmine Pinto, past president dell’Associazione italiana di oncologia medica (Aiom), secondo cui «potenzialmente l’esposizione continua ed a basse dosi all’uranio impoverito, come quella che potrebbe essersi determinata a danno dei militari in missioni ed esercitazioni, può essere cancerogena».
«Ci sono già 72 sentenze a favore del nesso causa-effetto tra inquinamento bellico e patologie dei soldati e dei cittadini che stanno attorno ai poligoni». Così interviene la fisica Antonietta Gatti, esperta di nanopatologia e consulente di diverse commissioni parlamentari sull’uranio impoverito e del Pm Domenico Fiordalisi, che in Sardegna ha aperto il primo processo sui cosiddetti «veleni» di Quirra nel poligono militare di Perdasdefogu. «A Quirra - spiega - oltre ai soldati ci sono dei pastori e loro famiglie che si sono ammalati di tumore. Queste persone hanno respirato le polveri delle esplosioni. Anni fa per il Pm Fiordalisi avevo analizzato il cadavere di un pastore che il magistrato aveva fatto riesumare: all’interno del canale midollare della tibia ho trovato la testimonianza dell’inquinamento bellico che lui aveva respirato e mangiato nel corso della sua vita».

Le accuse alla magistratura:

La Relazione mette nel mirino anche la magistratura penale che non interviene sistematicamente a tutela della sicurezza e della salute dei militari ed il risultato è «devastante»: nell’Amministrazione della Difesa continua, infatti, «a diffondersi un senso d’impunità» mentre tra le vittime e i loro parenti un dilaga «uno sconfortante senso di giustizia negata». E non c’è solo l’uranio a minacciare la salute di donne e uomini in divisa: l’amianto è presente in navi, aerei, elicotteri. Tanto che la Commissione ha accertato che «solo nell’ambito della Marina Militare 1.101 persone sono decedute o si sono ammalate per patologie asbesto-correlate». Criticità sono emerse nei poligoni (con Capo Teulada «simbolo della maledizione che per troppi decenni ha pesato sull’universo militare») e desta poi «allarme» la situazione missioni all’estero, con «l’esposizione a inquinanti ambientali in più casi nemmeno monitorati».

APPROFONDIMENTO:

L'uranio impoverito è lo scarto del procedimento di arricchimento dell'uranio. La miscela di 235U e 238U, con arricchimento maggiore in 235U della concentrazione naturale (0,7110%), costituisce l'uranio arricchito utilizzato come combustibile nelle centrali nucleari e come principale elemento detonante nelle armi nucleari. Il materiale risultante consiste principalmente in 238U, che ha una minore attività specifica dell'uranio naturale. Il termine è una traduzione dall'inglese depleted uranium, che a volte viene tradotto gergalmente con il termine uranio depleto.


Utilizzi civili:

L'uranio impoverito viene utilizzato in vari campi dell'industria civile. Questo utilizzo è favorito da alcune caratteristiche:
la sua alta densità, che si traduce in un elevatissimo peso specifico;
il basso costo;
la relativa abbondanza (dovuta al fatto che da più di 40 anni si accumula nei depositi materiale di scarto radioattivo);
duttilità;
capacità di assorbire le radiazioni.
I suoi due usi civili più importanti sono come materiale per la schermatura dalle radiazioni (anche in campo medico) e come contrappeso in applicazioni aerospaziali, come per le superfici di controllo degli aerei (alettoni e piani di coda), e navali. Nel disastro aereo di un Boeing 747 ad Amsterdam, nel 1992, si accertò la mancanza di circa 150 kg dell'uranio impoverito, su un totale di 282 kg[4][5]. Esso è usato anche nei pozzi petroliferi come parte delle sinker bars, cioè pesi usati per fare affondare strumentazioni nei pozzi pieni di fango. È usato anche nei rotori giroscopici ad alte prestazioni, nei veicoli di rientro dei missili balistici, negli yacht da competizione come componente della deriva, nelle frecce per il tiro con l'arco e nelle mazze da golf.

Utilizzi militari:


Munizione APFSDS Americana M829; la parte in bianco (a destra) è composta da una lega all'uranio impoverito

Oltre che in applicazioni civili, l'uranio impoverito viene usato nelle munizioni anticarro e nelle corazzature di alcuni sistemi d'arma. Se adeguatamente legato e trattato ad alte temperature (ad esempio con 2% di molibdeno o 0,75% di titanio; temprato rapidamente a 850 °C in olio o acqua, successivamente mantenuto a 450 °C per 5 ore), l'uranio impoverito diviene duro e resistente come l'acciaio temperato (sollecitazione a rottura di ca. 1600 MPa). In combinazione con la sua elevata densità, se usato come componente di munizioni anticarro esso risulta molto efficace contro le corazzature, decisamente superiore al più costoso tungsteno monocristallino, il suo principale concorrente. Per questo, ed essendo inoltre estremamente denso e piroforico (capace di accendersi spontaneamente), negli anni sessanta le forze armate statunitensi iniziarono ad interessarsi all'uso dell'uranio impoverito. La tipica munizione all'uranio impoverito è costituita da un rivestimento (sabot) che viene perduto in volo per effetto aerodinamico e da un proiettile penetrante, chiamato "penetratore", che è la parte che effettivamente penetra nella corazzatura, per il solo effetto dell'alta densità unita alla grande energia cinetica dovuta all'alta velocità. Il processo di penetrazione polverizza la maggior parte dell'uranio che esplode in frammenti incandescenti (fino a 3 000 °C) quando colpisce l'aria dall'altra parte della corazzatura perforata, aumentandone l'effetto distruttivo. Le munizioni di questo tipo vengono chiamate nella terminologia militare API, Armor Piercing Incendiary, ovvero munizioni perforanti incendiarie. Circa 300 tonnellate di uranio impoverito sono state esplose durante la prima guerra del Golfo, principalmente dai cannoni GAU-8 Avenger da 30 mm degli Aerei da attacco al suolo A-10 Thunderbolt, ogni proiettile dei quali conteneva 272 grammi di uranio impoverito. L'uranio impoverito è stato usato anche nella guerra in Bosnia ed Erzegovina, nella guerra del Kosovo e, in misura minore, nella seconda guerra del Golfo.

Liceità dell'uso di uranio impoverito come arma:

I punti rossi indicano le zone in cui sono stati usati munizionamenti ad Uranio impoverito


Nel 2001 Carla del Ponte, allora a capo del Tribunale Penale Internazionale per l'ex-Jugoslavia affermò che l'uso di armi all'uranio impoverito da parte della NATO avrebbe potuto essere considerato un crimine di guerra. Tuttavia questo punto di vista non è però generalmente accettato, dato che non esiste un trattato ufficiale sul bando delle armi all'uranio impoverito, né leggi internazionali che le vietino espressamente, come fu concluso poco dopo da uno studio commissionato dal predecessore della del Ponte, Louise Arbour.









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giovedì 8 febbraio 2018

LE DIVERSE VELOCITA’ DEL CERVELLO


Individuate le differenze individuali nella "velocità" del cervello, almeno della velocità della percezione visiva, e la capacità delle persone di aumentare o diminuire la velocità di questa attività cerebrale, con un impatto sul comportamento, grazie ad una ricerca condotta dal Cimec dell'Università di Trento nell'ambito del progetto 'Erc CoPeST "Construction of Perceptual Space-Time" ("Costruzione dello spazio-tempo percettivo").

Un articolo è uscito sulla rivista scientifica statunitense Pnas. La ricerca è stata oggetto di oltre 30 pubblicazioni su riviste scientifiche internazionali. "Gli studi che abbiamo condotto - dice David Melcher, 'principal investigator' del progetto e professore del Cimec di Trento - mostrano la coesistenza di più ritmi nella nostra percezione visiva, e ciò potrebbe spiegare perché non percepiamo la realtà in maniera frammentata e discontinua, come avviene invece in alcuni disturbi psichiatrici (come la schizofrenia) o indotti da un danno neurologico".

http://www.ansa.it/trentino/notizie/2018/01/24/scoperte-le-diverse-velocita-del-cervello_042b9142-d4fe-4590-878b-c487ce200862.html


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lunedì 5 febbraio 2018

MISTERIOSI GENI RESISTENTI ALL'AIDS

            (Foto: Courtesy Yerkes National Primate Research Center, Emory University)

Come riescono queste scimmie a resistere all’Aids?

Segnalato dal Dott. Giuseppe Cotellessa (ENEA)

Una scimmia del vecchio mondo è resistente all’Aids, può essere infettata dallo stesso virus che causa la malattia nei macachi ma non si ammala. Come ci riesce? Uno studio su Nature identifica dei geni che potrebbero aiutare a capire perché.

Nella storia della lotta all’hiv si ricorda il caso del paziente di Berlino, una persona con hiv guarita dall’infezione in seguito a un trapianto di staminali per trattare la sua leucemia. Una guarigione eccezionale, imputabile alla resistenza delle cellule del donatore all’infezione da hiv. Un caso che, sotto alcuni aspetti sottolinea, come nella lotta all’hiv, studiare i bersagli del virus, i suoi ospiti, è fondamentale tanto quanto la caratterizzazione del virus. E un nuovo tassello nello studio dei bersagli del virus dell’Aids arriva oggi da una ricerca pubblicata su Nature.

Lo studio in questione però non riguarda l’hiv e la resistenza al virus, ma il simian immunodeficiency virus (Siv), un virus simile all’hiv, un suo parente, che infetta diversi primati, causando Aids. Con alcune eccezioni: nel cercocebo moro (Cercocebus atys), una scimmia del vecchio mondo,l’infezione da Siv non sviluppa Aids. Il virus c’è ma non causa immunodeficienza. Lo stesso non accade però nei macachi, in cui l’infezione da Siv evolve in una malattia simile all’Aids. In che modo questa scimmia riesce a convivere con il Siv, anche con elevati livelli del virus?

Per capirlo, un team di ricercatori guidati da Guido Silvestri dello Yerkes Research Center della Emory University di Atlanta ha deciso di analizzare il genoma del cercocebo moro e ha quindi confrontato i risultati con il dna di altre specie suscettibili all’Aids, come sono gli esseri umani e i macachi (modello di malattia per l’uomo). Scopo: identificare delle tracce, dei possibili geni con potenziale di influenzare le diverse suscettibilità all’Aids. Qualcosa però, come racconta Silvestri a Wired.it, era già noto: “I meccanismi generali per cui i cercocebi non sviluppano l’Aids sono stati descritti dal nostro gruppo, e consistono in ridotta attivazione immunitaria e infezione di sottopopolazioni di linfociti CD4+ (bersaglio del virus, nda) a vita più breve, quindi meno indispensabili per la funzione del sistema immunitario”. Malgrado alcuni aspetti dell’infezione da Siv siano noti dunque, i meccanismi con cui questi animali riescono ad evitare l’Aids rimangono poco chiari, scrivono i ricercatori. Per questo l’idea è stata quella di allargare lo sguardo analizzando i geni. 

E lo studio del genoma del cercocebo ha portato alla luce oggi nuovi aspetti. Nel dettaglio ha mostrato che esistono diversi geni implicati nel sistema immunitario che presentano differenze marcate nei cercocebi, rispetto a specie suscettibili di Aids. “I due geni principali che differiscono in modo drammatico tra cercocebi da una parte e uomini e macachi dall’altra sono il TLR4 e l’ICAM-2”, spiega Silvestri, “Il TLR4 è un gene che regola la risposta immunitaria a prodotti batterici, e l’ICAM-2 regola invece il traffico delle cellule immunitarie tra il sangue ed i tessuti”, riprende Silvestri. L’assenza di TLR4 funzionante comporterebbe una ridotta attività proinfiammatoria nell’ospite naturale.

                                             (foto: David Palesch e Steven Bosinger)

“Il prossimo passo”, riprende il ricercatore, “sarà quello di cercare di modificare in vivo la funzione di questi geni nei macachi, le scimmie che se infettate con Siv sviluppano l’Aids, così come gli esseri umani infettati con hiv, e vedere se questo approccio li possa rendere resistenti all’Aids”. La possibilità che caratteristiche di resistenza simili a quelle osservate nei cercocebi siano presenti in alcuni individui nella popolazione umana esiste, ed è uno degli aspetti su cui si concentra l’attenzione dei ricercatori: “In passato sia noi che altri gruppi avevamo identificato dei piccoli gruppi di persone infettate con hiv che hanno delle caratteristiche immunologhe simili ai cercocebi, ma sono rarissimi”, spiega il ricercatore. Persone cioè che, pur con elevati livelli del virus, non progrediscono nella malattia. “I risultati di questo studio ci danno la possibilità di indagare più a fondo questa ipotesi”, ci spiega Silvestri. “I cercocebi mori e altri ospiti naturali sono stati per gli scienziati per anni come una sorta di roadmap per la caccia a terapia contro Aids, ma finora eravamo in grado solo di guardare un pezzettino di mappa alla volta”, aggiunge Steve Bosinger, tra gli autori del paper, “Adesso, esaminando il genoma di intere specie, crediamo di poter accelerare scoperte che possono fare la differenza nella lotta contro hiv e Aids”.

Da:
https://www.wired.it/scienza/medicina/2018/01/03/scimmie-resistenti-aids/

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mercoledì 31 gennaio 2018

QUANDO E' NATA LA VITA SULLA TERRA?



Nuovo studio porta indietro l’orologio della vita a 3,5 mld di anni fa


Fossili antichi di 3 miliardi e mezzo di anni scoperti in Australia occidentale sono l’impronta dei più antichi micro-organismi conosciuti che abbiano abitato la Terra. L’hanno confermato gli scienziati, secondo i quali però la vita potrebbe essere apparsa sul pianeta ancora prima. Per i ricercatori, i lavori pubblicati dal bollettino dell’Accademia delle scienze Usa (PNAS) fanno anche pensare che la vita possa essere frequente nell’Universo, quanto meno nella forma di micro-organismi. Gli studiosi dell’Università di California e del Wisconsin hanno identificato, grazie a una nuova tecnologia di spettrometria di massa, le impronte chimiche di 11 campioni microbici che appartengono a cinque specie, alcune delle quali esistenti anche oggi. “E’ il primo luogo, il più antico sul pianete, dove abbiamo ottenuto l’impronta morfologica e chimica della vita”, ha spiegato John Valley, professore di geochimica e di petrologia all’Università del Wisconsin, principale co-autore dello studio. “Abbiamo anche scoperto – ha aggiunto – che esistevano diversi tipi di metabolismo e di diverse specie con funzioni biologiche differenti: certe producono metano, altre consumano o utilizzano energia solare per la fotosintesi”. Il metano doveva formare una parte importante dell’atmosfera della giovanissima Terra, frequentemente bombardata da comete, dove l’ossigeno era raro o assente. Certi di questi batteri, oggi estinti, appartenevano al gruppo degli archeobatteri, i procarioti più antichi. Altri sono organismi microbici simili a quelli esistenti oggi. Questo studio, ancora, lascia intendere che alcuni di questi micro-organismi, descritti per la prima volta nel 1993 dalla rivista Science in funzione della loro morfologia cilindrica o filamentosa, potrebbero essere vissuti in un momento in cui ancora non esisteva ossigeno sulla Terra. “Questi organismi, di larghezza di 0,01 millimetri, formavano una comunità di micro-organismi molto ben sviluppata che non costituiva probabilmente l’alba della vita”, spiega Valley. Differenti tipi di microbi erano già presenti 3,5 miliardi di anni fa e questo “ci indica che la vita è cominciata ben prima sulla terra, senza che nessuno sappia quando, e conferma quanto sia difficile per una forma di vita primitiva evolversi verso micro-organismi più avanzati”, puntualizza William Schopf, professore di paleobiologia all’Università di California, altro co-autore dello studio. Secondo lui, inoltre, queste scoperte suggeriscono che la vita potrebbe essere frequente nel cosmo. Degli studi pubblicani nel 2001 dalla squadra di Valley suggerivano che l’esistenza di oceani di acqua liquida potrebbero risalire a 4,3 miliardi di anni, più di 800 milioni di anni prima dei fossili descritti in questo ultimo lavoro. “Non disponiamo alcuna prova diretta che la vita esistesse 4,3 miliardi di anni fa, ma questo sembrerebbe essere il caso… è qualcosa che noi vogliamo assolutamente sapere” rileva Valley.

da:
http://www.askanews.it/esteri/2017/12/19/nuovo-studio-porta-indietro-lorologio-della-vita-a-35-mld-di-anni-fa-pn_20171219_00074/

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venerdì 26 gennaio 2018

COSA E' LA FEBBRE SPAZIALE?


Nello spazio gli astronauti hanno sempre la febbre.

La temperatura corporea degli astronauti della ISS è più alta del normale. Si tratta di un'incognita in vista di un futuro viaggio su Marte.


Uno studio pubblicato sulla rivista Scientific Reports rivela che gli astronauti che operano sulla ISS (la Stazione Spaziale Internazionale) sono affetti da una sorta di "febbre spaziale". In sostanza, quando il corpo umano è costretto a vivere a lungo in un ambiente di microgravità, la temperatura interna sale oltre i canonici 37 °C, con conseguenze per la salute tutte da decifrare, soprattutto in previsione della futura missione che dovrebbe portarci su Marte.

FEBBRE SPAZIALE:

La ricerca guidata dall'Ospedale universitario della Charité di Berlino ha coinvolto 11 astronauti, che sono stati monitorati con una serie di sensori durante il loro soggiorno a bordo della ISS. Le misurazioni hanno messo in luce che la temperatura corporea dei membri dell'equipaggio è costantemente aumentata nei primi due mesi e mezzo di missione, stabilizzandosi infine sui 38 °C, un grado in più della norma terrestre.

OLTRE IL LIVELLO DI GUARDIA:

I dati a disposizione degli scienziati mostrano inoltre che durante gli esercizi fisici di routine, necessari ad esempio per contrastare l'atrofia muscolare, il corpo di alcuni astronauti ha raggiunto temperature superiori ai 40 °C, una soglia che sulla Terra è considerata rischiosa per la vita.


PERCHÉ LA TEMPERATURA SI ALZA?

La "febbre spaziale" è sparita in tempi piuttosto rapidi una volta tornati sul suolo terrestre, ma le informazioni raccolte pongono ulteriori interrogativi su quelli che potrebbero essere i rischi per la salute nel corso di un viaggio verso Marte. "In assenza di peso, i nostri corpi trovano estremamente difficile eliminare il calore in eccesso", ha spiegato il coordinatore della ricerca Hanns-Christian Gunga: nello spazio il sudore fatica a evaporare, riducendo l'efficacia di uno dei meccanismi di raffreddamento chiave per l'organismo umano.


EVOLUZIONE DELLA SPECIE:

Gunga ritiene che il lavoro del suo team non guardi solo al futuro delle missioni spaziali, ma offra anche un possibile colpo d'occhio sul nostro passato. Osservare come reagisce il fisico in condizioni eccezionali, potrebbe infatti permetterci di capire il motivo per cui l'evoluzione ha settato la temperatura ottimale dell'uomo sui 37 °C.

Da:

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lunedì 22 gennaio 2018

IL MISTERO DI HYPATIA



Una piccola roccia scoperta nel 1996 nel sud-ovest dell’Egitto contiene composti micro-minerali che non sono noti sulla Terra, né altrove nel Sistema Solare, o in meteoriti o comete note. E’ quanto emerso dallo studio dei ricercatori dell’Università di Johannesburg, che non escludono la possibilità che la misteriosa pietra provenga da fuori il nostro Sistema Solare. Il professor Jan Kramers e il dottor Georgy Belyanin del Centro di ricerca PPM dell’Università di Johannesburg hanno dichiarato che l’analisi della pietra Hypatia (nome datole in omaggio all’astronoma, filosofa e matematica Ipazia d’Alessandria) ha sollevato domande significative sulla formazione della Terra e degli altri pianeti.


 “Quello che sappiamo è che Hypatia si è formata in un ambiente freddo, probabilmente a temperature inferiori a quella dell’azoto liquido sulla Terra (-196° Celsius)”, ha detto Kramers. “L’ origine dovrebbe essere ben oltre la cintura di asteroidi presenti tra Marte e Giove, da cui (per altro) provengono la maggior parte dei meteoriti noti”. Già nel 2013 i ricercatori avevano annunciato che la pietra non apparteneva alla Terra. Due anni più tardi, aggiunsero che non si trattava di un frammento di un meteorite o cometa noti. Per comprendere l’origine di Hypatia, i ricercatori dovranno studiare la pietra confrontandola con tutti i campioni di oggetti interstellari disponibili. E’ evidente che il sasso proviene da un ambiente freddo in cui le temperature scendono ben al di sotto del punto in cui l’azoto passa allo stato liquido. Ciò dimostra che la pietra proviene da un luogo al di fuori della fascia di Kuiper, quindi esterno al Sistema Solare.


https://www.diregiovani.it/2018/01/11/146675-hypatia-misteriosa-pietra-extraterrestre.dg/

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