IL RISVEGLIO DEL CADUCEO DORMIENTE: la vera genesi dell'Homo sapiens

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VIDEO SINOSSI DELL'UOMO KOSMICO

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Con questo libro Marco La Rosa ha vinto il
PREMIO NAZIONALE CRONACHE DEL MISTERO
ALTIPIANI DI ARCINAZZO 2014
* MISTERI DELLA STORIA *

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LA NUOVA CONOSCENZA

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GdM

giovedì 17 luglio 2014

ALL’UFO, ALL’UFO ! QUANDO L’A.M.I. PRENDE… LUCCIOLE PER LANTERNE .



del Dr. Giorgio Pattera

giorgio.pattera@alice.it

Parma, 6 luglio 2014

Questa studio serve a dimostrare che gli ufologi, quelli seri (pochi), non gridano sempre "all'UFO, all'UFO", ma sanno distinguere il grano dal loglio: lo dimostrano e lo scrivono... a differenza dei negazionisti (prezzolati) che starnazzano, ma “non sanno distinguere il ramo da una foglia" (come cantava Ivan Graziani in “Pigro”). Dunque, sarebbero queste le persone che sorvegliano lo spazio aereo italico? Sono questi gli "esperti" addetti alla tutela della sicurezza nazionale? Sono questi i militari che studiano i resoconti degli avvistamenti OVNI e ne redigono la catalogazione? Possibile che un Comandante con 20.000 ore di volo (e con lui i tecnici della fotografia, che senz'altro l'A.M.I. detiene nei suoi quadri) NON sappia distinguere un riflesso lenticolare da un UFO (di cui proprio la stessa Aeronautica NEGA L'ESISTENZA)? Viene quindi il sospetto (vòlto ben presto in certezza) che anche nella fattispecie si possa applicare la massima latina: "Excusatio non petita, accusatio manifesta"... USTICA DOCET !...

Ma veniamo ai fatti.

Nella prima pagina della rivista “AERONAUTICA” (n.°4, aprile 2007), capitatami fra le mani per caso, osservo una fotografia corredata da un titolo tanto intrigante quanto sorprendente, considerato l’ambito editoriale che la supporta ed il target di lettori cui si rivolge: “E’ un … UFO?” (cito testualmente).
La foto in oggetto, come indicato nel testo della didascalia a lato della stessa, è stata scattata con un telefono cellulare da un Comandante dell’A.M.I. di provata esperienza (all’epoca, 20.000 ore di volo) alle 12.15 del 9 marzo 2007 in Val di Fassa, a 2.100 m. di altitudine.
Nel fotogramma appaiono rispettivamente (da sx a dx): una cresta innevata, la cima d’un monte e, in minima parte coperto da quest’ultimo, il disco solare. Ma il particolare interessante, che ha chiamato in causa, anche se con l’interrogativo finale, il tanto discusso acronimo anglofono, consiste in quell’immagine di color giallo-verde che si osserva sul lato sinistro del frame, a 2/3 del lato minore dal basso, sopra la cresta innevata (in posizione “h.21.50” circa) e che, per dare l’idea, ricorda “l’esombrella” d’una medusa o un “calice” a stelo corto, inclinato di 45° a sx.
A questo punto, il testo prosegue con le dovute considerazioni, prendendo in esame le varie ipotesi interpretative: escluso il parapendio (che mi trova concorde: si sarebbe notato al momento dello scatto, dato il suo lento movimento; senza contare l’eccessiva altitudine di lancio, la strana foggia e l’aspetto “traslucido” del particolare) ed esclusa anche “l’ipotesi che possa trattarsi d’un riflesso, scartata da vari esperti”, non resta che interrogarsi: “dato che sono visibili anche tre globi luminosi, è un UFO?”.
Non è dato sapere quali “esperti” ed in base a quali argomentazioni abbiano potuto escludere “sic et simpliciter” l’ipotesi “riflesso”, che invece (a mio modesto parere, ché nessuno possiede la verità…) ritengo essere la probabile, se non l’unica, interpretazione possibile.
In base a che cosa?
Lo vedremo subito, grazie a basilari concetti di fisica ottica, ad una minima conoscenza della struttura d’un obiettivo e, soprattutto, all’esperienza maturata in quasi 35 anni di attività foto-amatoriale, sia analogica che digitale.
Prima di addentrarci nei dettagli, ritengo sia utile fare alcune doverose premesse.

1)            – E’ sempre sconsigliabile effettuare riprese CONTRO SOLE, in quanto l’intensa radiazione luminosa dell’astro “acceca” il sensore della fotocamera, la quale, se si lavora in “automatico” (nel caso del cellulare), “chiude” il tempo di esposizione per contrastare l’eccessivo irraggiamento luminoso. Risultato: scarsa resa (sia in definizione che in luminosità) dei particolari compresi nel campo visivo e probabilità assai elevata di penetrazione di fasci luminosi “parassiti” che, attraversando le lenti dell’obiettivo, raggiungono il substrato sensibile (film o SD). Questo inconveniente, con le reflex che permettano di lavorare in “manuale”, può essere attenuato da fotografi esperti, “ingannando” o disabilitando temporaneamente l’automatismo del sensore.

2)            – E’ comunque molto arduo analizzare fotogrammi scattati mediante un cellulare datato (sotto i 2 MPX), causa la scarsa risoluzione dell’immagine, il tempo di posa dettato dall’automatismo e la lunghezza focale dell’obiettivo, super-grandangolo, decisamente inadatta. Tuttavia, nella fattispecie, risulta evidente che il particolare (il presunto UFO) che si osserva sopra la cresta innevata NON è un OGGETTO VOLANTE NON IDENTIFICATO, bensì il risultato di uno dei numerosi e noti fenomeni di rifrazione luminosa, che in fisica ottica vengono raggruppati nella definizione di “aberrazioni ottiche”. In particolare: questo tipo di aberrazione, frutto di un curioso “gioco a rimbalzo” attraverso le lenti dell’obiettivo della radiazione luminosa proveniente dalla fonte di luce principale (ed in questo caso anche “violenta”, cioè il disco solare), viene riconosciuto col termine tecnico di “ABERRAZIONE SFERICA” (cfr. schema sottostante). E’ un’aberrazione tipica dei sistemi ottici con lenti sferiche: queste portano alla formazione di un’immagine distorta. E’ causata dal fatto che la sfera non è la superficie ideale per realizzare una lente, ma è comunemente usata per semplicità costruttiva.

Più specificatamente:


 A conforto di quanto espresso, alleghiamo alcuni fotogrammi realizzati in condizioni simili (sorgente luminosa principale – sole - al centro o quasi dell’inquadratura, che “spara” nell’obiettivo) e scattati anch'essi mediante un cellulare di marca (Nokia 5800 Xpres).
Nel primo compare, in prossimità del margine inferiore dx del cartello in controluce, la stessa conformazione "a calice”, di color verde brillante, con nucleo luminoso all’estremità opposta (simile ai “globi” individuati nella foto del Comandante). La posizione del sole (al centro dell’immagine, ma a filo orizzonte, essendo al tramonto) giustifica la formazione dell’aberrazione sferica in posizione diagonalmente opposta rispetto alla foto pubblicata sulla rivista, ma sempre inclinata di circa 45°. Se si trascurano questi minimi particolari, appare pressoché IDENTICA ! Analogo discorso anche per il colore, che dipende sempre dalla posizione del sole: notoriamente, al tramonto, il disco solare è prossimo o tangente la linea dell’orizzonte ed assume la tipica colorazione arancio-infuocata o rossastra.


Negli restanti frames, altri esempi del fenomeno dell’aberrazione ottica, sempre con il sole in posizione (troppo !) centrale, sia alto che basso rispetto all’orizzonte, ma con i medesimi “risultati”.



Ribadiamo il concetto che con la ns. expertise non si vuole assolutamente mettere in discussione il contributo e la buona fede di alcuno. Vogliamo solo dimostrare che ciò che è stato memorizzato dalla SD, del cellulare in oggetto come da quella di tutti gli altri, non è riconducibile ad un “oggetto”, nel senso “solido” del termine, bensì, ripetiamo, ad un effetto di “aberrazione ottica”, con buona probabilità (anche se l’errore è sempre dietro l’angolo) di tipo “sferico”.

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martedì 15 luglio 2014

2014 : Le conseguenze ambientali dell'incidente di Chernobyl


Segnalato dal Dr. Miguel Lunetta

Ventotto anni fa, il 26 aprile 1986, a Chernobyl si verificò il più grave incidente che abbia mai coinvolto una centrale nucleare, e ancora oggi si sta combattendo per arginare gli effetti delle radiazioni. E' stata finita da poco la prima metà della nuova struttura, il New Safe Confinement, che verrà sovrapposta al vecchio “sarcofago” in cui era stato confinato il reattore numero 4, che mostra da tempo segni di deterioramento. Purtroppo già si sa che per problemi tecnici e finanziari  il completamento dell'opera, previsto per la fine dell'anno prossimo, avverrà in ritardo, non prima del 2017, sempre che l'attuale crisi in Ucraina non comporti ulteriori ritardi.
Nel frattempo continuano il monitoraggio e gli studi sulla cosiddetta Zona di esclusione, in cui si registrano ancora livelli di radioattività migliaia di volte superiori a quelli del fondo naturale. Anche le ricerche più recenti hanno confermato l'elevato tasso di mutazioni nella flora e nella fauna dell'area, e uno studio appena pubblicato dalla rivista «Oecologia» ha dimostrato che interessano anche i microrganismi, tanto che i batteri che normalmente decompongono gli organismi morti procedono nel loro lavoro a un ritmo lentissimo.




Miguel Lunetta commented on the film A TERRA ULTRAJADA

È un film di estremo interesse, mostra quanto può essere disastrosa la proliferazione di centrali nucleari. L'uomo, prima ancora di dominare la “forza” deve capire la “distruzione” che può provocare l'energia atomica. L’uomo sarà causa della sua estinzione? Alla fine saremo costretti ad abbandonare il nostro pianeta per nuovi mondi? Ma saremo poi in grado di farlo oppure ci estingueremo?
Questo film è anche un severo monito alla velleità belligerante e distruttiva di tutti i paesi del globo, che non si curano affatto del consiglio divino di “far guerra alla guerra” e dedicarsi all'amore .


Miguel Lunetta


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lunedì 14 luglio 2014

È ITALIANO IL MICROSCOPIO CHE SCOPRE I MELANOMI


SEGNALATO DAL DR. GIUSEPPE COTELLESSA (ENEA)

Il procedimento del brevetto RM2012A000637 potrà potenziare notevolmente il campo delle applicazioni ed i risultati conseguibili nelle singole applicazioni del microscopio brevettato dal pool congiunto di ricercatori del CNR e dell’Università La Sapienza di Roma.
G.C.

È ITALIANO IL MICROSCOPIO CHE SCOPRE I MELANOMI

Esame istologico addio, è ora di andare in pensione. Sembra infatti che tra qualche tempo, in dermatologia, il caro vecchio prelievo di tessuti non sarà più così necessario per la diagnosi precoce di melanomi e altre affezioni cutanee. A sostituirlo, uno strumento rivoluzionario che proprio nell’ultimo quinquennio è stato brevettato e messo a punto da un pool congiunto di ricercatori del CNR e dell’Università La Sapienza di Roma. Si tratta di un microscopio speciale, confocale, a laser bianco e ad ampio spettro, capace di restituire, in modo non invasivo, immagini caratteristiche della morfologia della pelle, anche di piccolissimi campioni. L’auspicio è quello di arrivare a realizzare un’impronta completa di singole porzioni di epidermide umana, correlando poi la risposta quadridimensionale dell’analisi allo stato patologico connesso alla caratterizzazione spettroscopica.
Il prototipo, ancora in fase di sviluppo e in cerca di finanziatori per un’applicazione clinica su larga scala, è dunque frutto di un attento studio interamente made in Italy e può contare sul sostegno statale nonchè sui finanziamenti della Commissione Europea nell’ambito del programma Ideas 2007-2013, iniziativa finalizzata a promuovere la ricerca e a valorizzare l’eccellenza e la creatività nel mondo. Fra i numerosi progetti presentati nel corso degli anni dai vari Paesi, lo European Research Council ha scelto di finanziarne tredici italiani. “E il nostro è uno di questi, l’unico legato alla dermatologia. Gli altri, infatti, riguardano diverse branche della scienza, dalla fisica all’ingegneria, dalla chimica alla biochimica” – spiega il Professor Antonio Costanzo dell’Unità dermatologica del dipartimento NESMOS dell’Università La Sapienza, il principale investigator del progetto.

Quando avete iniziato concretamente a lavorare sul progetto del microscopio?

L’idea ci è venuta tra il 2005 e il 2006 ed è nata da una disquisizione con alcuni ricercatori del CNR, appunto, che sostenevano che le proprietà spettroscopiche fornissero maggiori informazioni rispetto all’espressione genica. Paragonando le due cose, è emerso che entrambi gli approcci possono rivelarsi utili per la diagnosi precoce delle malattie della pelle. Già nel 2006, quindi, scrivemmo un progetto simile a quello attuale che abbiamo poi rivisto e riproposto nell’ambito del programma ERC-IDEAS nel 2007.

E allora conosciamolo meglio questo microscopio: di cosa si tratta esattamente?

Il nostro è un microscopio confocale ad ampio spettro a laser bianco. Confocale significa che non vede le cose su un unico piano, ma è come se facesse una TAC ad alta risoluzione dell’oggetto che sta analizzando, ovvero la pelle. In sede diagnostica, questo consente di osservare dall’esterno le alterazioni cellulari che l’epidermide subisce in caso di malattia, senza dover necessariamente ricorrere al prelievo di tessuti. Non solo: si possono anche desumere, a livello della singola cellula, parametri spettroscopici particolari che a loro volta sono indici di stati funzionali specifici. Certo, esistono diversi aspetti che ne condizionano l’utilizzo, ma il potenziale è davvero enorme.

 In che senso?

Nel senso che, ad esempio, se una cellula va incontro ad apoptosi (processo di morte cellulare), tramite il microscopio sarà possibile osservare delle alterazioni spettroscopiche, caratteristiche del fatto che la cellula sta effettivamente morendo; e questo prima ancora che ciò sia evidente a occhio nudo. In sostanza è un macchinario che, in maniera non invasiva, consentirà di vedere di più e di ottenere un maggior numero di indicazioni rispetto a quelle fornite dai comuni esami istologici. Un microscopio a laser bianco, infatti, possiede fino a 2500 lunghezze d’onda, ognuna delle quali restituisce uno spettro completo. Alcune penetrano in profondità, altre sono superficiali. Pertanto, poiché parliamo del genoma, la quantità di dati a disposizione è davvero enorme, nell’ordine di 30 milioni di informazioni: su ogni milionesimo cubo di pelle, quindi, avremo ben 2500 spettri e saranno poi dei programmi specifici a selezionare quelli rilevanti per la diagnosi.

In cosa consiste il valore reale del microscopio?

Il valore sta proprio nell’aver messo a punto un sistema che permette di osservare lo spettro completo di ogni singolo frammento di pelle in maniera confocale e tridimensionale e di ottenere molte più informazioni per la diagnosi delle malattie, non solo a livello superficiale, ma anche del citoplasma e del nucleo. Con le opportune modifiche, che lo renderanno fruibile in un contesto clinico, il microscopio arriverà a fare anche la mappatura completa dei nei. Ma non solo, c’è anche un interessante e fondamentale risvolto umano.

Ovvero?

Questo progetto è un esempio perfetto di ricerca multidisciplinare, la stessa che tanto piace alla Comunità Europea: non ciascuno chiuso nel suo settore di competenza, ma una proficua cooperazione di menti in grado di generare conoscenza. Ed è un ottimo modo per trattenere in ambiente universitario risorse preziose e validissimi ricercatori che altrimenti, in un periodo difficile come quello attuale, sarebbero costretti a fare altro.

Concretamente come funzionerà l’applicazione clinica del microscopio?

Il macchinario è molto grande e certo non potrà essere posto su un tavolo come accade con i normali microscopi. Ad oggi lo stiamo testando proprio in vista di una futura applicazione ospedaliera. Basterà avere un braccio mobile a fibre ottiche che porterà l’obiettivo dello strumento direttamente sopra la porzione di pelle interessata dall’analisi. In verità, già esiste un prototipo di microscopio confocale utilizzato in ambito clinico, ma sfrutta una sola lunghezza d’onda. Noi siamo in contatto con la ditta produttrice che a sua volta ci sta aiutando a sviluppare il nostro.

A che punto siete con la ricerca?

Il microscopio è stato brevettato ed è in fase di prototipo industriale. L’abbiamo testato su diversi modelli e anche sulla pelle di pazienti che avevano in precedenza subito dei prelievi cutanei. Il prossimo step sarà quello di chiedere ulteriori finanziamenti alla Commissione Europea per lo sviluppo clinico e scientifico.
  
E quanto tempo ci vorrà per arrivare a un uso clinico diffuso?

È difficile fare una stima perché tutto dipende da chi deciderà di comprare il brevetto e da chi ci aiuterà a svilupparlo. In una parola, dalla volontà delle companies di commercializzarlo e costruirlo su larga scala basandosi sulle nostre indicazioni. Per il resto, il know-how c’è e il microscopio è scientificamente e tecnologicamente pronto. Il ruolo del ricercatore è quello di arrivare fino al confine con il mercato. Il compito di portare il progetto alla fruibilità clinica spetta invece all’industria. Proprio per questo con il CNR ci stiamo attivando, nella speranza di trovare quanto prima un acquirente.

E i costi?

Il costo di un normale microscopio confocale a uso clinico oggi si aggira intorno ai 70-80mila euro. Questo, con ogni probabilità, comporterà una spesa leggermente superiore, ma non essendo ancora arrivati alla fase della commercializzazione vera e propria non abbiamo idea dell’importo effettivo. Ci sono poi da considerare i costi di gestione che dipendono, ad esempio, dall’affidabilità del laser. Ripeto: noi abbiamo fornito il modello, sono poi le varie ditte a doversi ingegnare nella scelta e nell’utilizzo di materiali buoni e resistenti.

Il microscopio è stato studiato per un uso clinico, ma può avere anche altre applicazioni?

Certamente sì. Sarà molto utile, ad esempio, a tutte quelle aziende che producono apparecchi elettronici di alta precisione e che pertanto hanno bisogno di verificare ogni singolo componente in maniera ultrasensibile. Potrà essere sfruttato per identificare micro-difetti dei chip dei computer e per la cosiddetta failure analysis, l’analisi solitamente effettuata quando un dispositivo si rompe. Si tratta di un business che solo in Europa vale 8 miliardi di euro. Basti pensare al mercato dei led che oggi è il più ampio che ci sia nel mondo. Qualsiasi oggetto esca da una catena produttiva, infatti, necessita di specifici controlli di qualità. Essi possono essere eseguiti subito, oppure in sede di guasto. Trovare un modo per individuare ed eliminare fin dal principio eventuali vizi di fabbricazione senza peraltro aprire i chip dall’interno, consentirà alle imprese di migliorare la qualità della produzione con tutte le conseguenze del caso.

FONTE:


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venerdì 11 luglio 2014

IL MISTERO DEL LABIRINTO DI "MERIDE"

IL LABIRINTO DI MERIDE CONSERVA I SEGRETI DELLA STORIA DELL’ANTICO EGITTO?

(TESTO E VIDEO)

Diversi autori antichi, tra cui Erodoto, Strabone, Diodoro e Plinio, scrivono di un leggendario labirinto egizio, nel quale sarebbero conservati i segreti più importanti della storia egiziana e dell'umanità intera. Molti ricercatori credono che il Labirinto di Meride, scoperto nel 1888, corrisponda a quello descritto dagli autori antichi.

 Un labirinto sotterraneo perduto nelle nebbie della storia, pieno di geroglifici scolpiti sulle sue mura di pietra, dove sarebbe contenuta tutta la conoscenza dell’antico Egitto, è oggetto di leggenda millenaria. Autori come Erodoto, Strabone, Diodoro e Plinio ne hanno descritto i particolari nelle loro opere. Tuttavia, l’età del labirinto e le sue origini non sono chiare. Erodoto, autore del 5° secolo a.C., afferma che al suo tempo il labirinto era antico già di 1300 anni e così lo descrive nella sua opera:

«Ed io ho visto; è superiore a qualsiasi cosa si possa dire in merito; già le piramidi sono al di sopra di ogni possibile descrizione, ma il Labirinto vince il confronto anche con le piramidi».

Quali segreti conteneva questo leggendario complesso sotterrano gigante? La sua scoperta potrebbe essere una delle più importanti per la storia dell’umanità?
Molti autori pensano che il Labirinto di Meride, costruito in Egitto ad Hawara presso il lago di Meride nel Fayyum , possa corrispondere alle descrizioni trasmesse dagli autori antichi. Scoperto nel 1888 dall’archeologo Flinders Petrie , della struttura originaria purtroppo ci sono pervenute solo poche rovine e frammenti di colonne in granito. 

L’area nella quale fu costruito, a sud della piramide di Amenenhat III, doveva aggirarsi intorno ai 7 mila m², su cui furono edificate 3 mila stanze in due piani, uno dei quali sotterraneo e dodici cortili. Sembra che il suo scopo principale fosse di tipo religioso. Studi archeologici in corso stanno cercando di ricostruire la complessa e complicata planimetria dell’edificio.
La descrizione di Erodoto sembra combaciare molto bene alle rovine scoperte da Flinders Petrie:

  «Vi sono dodici cortili coperti, che hanno porte opposte tra loro e sono: sei rivolti verso nord e sei verso sud, contigui. Lo stesso muro li chiude tutt’intorno dall’esterno. Vi sono stanze in doppio ordine. Quelle a livello del suolo che ho visitato, attraversato e quelle sottosuolo, 3000 in numero, 1500 per ciascun ordine».

Erodoto scrive anche che il leggendario complesso contenesse i feretri dei dodici re che hanno costruito il labirinto, più un luogo di riposo per i coccodrilli sacri. Ma, finora, nessuna mummia è stata ancora trovata all’interno dello scavo.
Secondo gli archeologi, il Labirinto di Meride era parte integrante del Tempio funerario di Amenemhet III (1842 a.C.-1797 a.C.) . Quando Flinders Petrie esplorò il sito prima e durante il 1911, rinvenne i nomi di Amenemhet III e della figlia Sebeknofru. Nel complesso sono stati ritrovati frammenti di due colossali statue del sovrano assiso ma delle quali, ora,  rimangono solo i piedistalli.
Per molti anni, nessun ricercatore ha mai messo in dubbio che il labirinto descritto dagli antichi autori greci corrisponda al Labirinto di Meride;  solamente Erich von Däniken, nel suo libro “Gli occhi della Sfinge” scritto nel 2003,  analizza nel dettaglio gli studi di Petrie, concludendo che il vero labirinto non è stato ancora scoperto, e forse aveva ragione! Nella sua opera, Erodoto scrive:

«Accanto all’angolo del Labirinto vi è una piramide alta quaranta orge sulla quale vi sono scolpiti animali di grandi dimensioni. Vi si accede da una strada sotterranea. Al centro del lago si elevano due piramidi. Ognuna si erge per circa 50 orge e la parte sotto le acque conta altrettanto.
Sopra le piramidi si trova una statua colossale di pietra che siede in trono. Il soffitto dei locali è di pietra come le pareti piene di figure scolpite, mentre ogni cortile è circondato da colonne di pietre bianche connesse fra loro alla perfezione. Il tetto di tutte queste costruzioni è in pietra e così pure i muri ricoperti da iscrizioni».

Nel 2008, la Mataha Expedition ha eseguito una scansione del suolo di Haware, rilevando numerosi indizi di camere e spessi muri posti a notevole profondità sotto la superficie. I risultati della scansione, eseguite a sud della piramide, mostrano pareti verticali di uno spessore medio di diversi metri, collegate per formare un certo numero di ambienti chiusi, caratteristiche che non sembrano assomigliare alla planimetria di un labirinto.
Scavando, i ricercatori, si sono imbattuti in muri e strutture a circa 2,5 m di profondità. Non c’era nient’altro che  muri e case di mattoni di fango. Questo strato, secondo gli archeologi, risale al periodo romano e tolemaico. Sotto questo strato, è stato rilevato un blocco di pietra gigantesco, che già Petrie aveva segnalato. Gli scienziati hanno quindi scansionato l’area sotto il blocco e quello che hanno trovato ha confermato la loro ipotesi: sotto ci sono centinaia di stanze. Quello che Petrie credeva essere il pavimento, in realtà era il soffitto!
La Mataha Expedition aveva fatto una delle più grandi scoperte della storia: la sotto si trova il leggendario Labirinto d’Egitto. Purtroppo, questa sorprendente scoperta non è stata divulgata in maniera appropriata per l’ostracismo incomprensibile del governo egiziano.
I risultati della scoperta sono stati pubblicati nel 2008 sulla rivista scientifica del NRIAG, i cui dettagli sono stati illustrati in una conferenza pubblica tenuta all’Università di Gand. Immediatamente dopo, il dottor Zaghi Hawass, all’epoca Segretario del Consiglio Supremo delle Antichità d’Egitto, ha chiesto la sospensione della divulgazione per non incappare nelle sanzioni dettate dalla legge sulla sicurezza nazionale.
I ricercatori hanno atteso pazientemente che l’ex segretario generale divulgasse la scoperta al grande pubblico, ma ciò non è mai accaduto. Così, il team ha creato un sito web e ha pubblicato i risultati della ricerca. Non si comprende se gli archeologi egiziani nascondano deliberatamente qualcosa, oppure se temono semplicemente di perdere il controllo (redditizio) sulle scoperte archeologiche nel loro paese.
Ad ogni modo, la scoperta della Mataha Expedition è straordinaria anche se, al momento, non ci sono in programma altri sopralluoghi o scavi per capire cosa si nasconde sotto il plateau di Hawara. Molti ritengono che lì ci sia il leggendario Labirinto d’Egitto, il luogo dove sono custoditi i segreti più importanti della storia egizia.

Da:

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mercoledì 9 luglio 2014

NUOVE FRONTIERE DELLA SCIENZA: L'UOMO BIONICO E L'AUTO AD ARIA COMPRESSA


Un chip nel cervello, un ragazzo paralizzato muove la mano

Sperimentata per la prima volta grazie a un team della Ohio University una tecnica in grado di bypassare il midollo spinale e comandare il movimento con il pensiero.

Segnalati dal Dr. Giuseppe Cotellessa (ENEA)

Un meccanismo articolato permette di muovere le mani col pensiero, bypassando il midollo spinale. È la tecnologia Neurobridge, della quale si parla da tempo che è dedicata a coloro che hanno subito lesioni midollari alte o ictus e che sono dunque impossibilitati nel movimento. Ora è stata testata per la prima volta da un ragazzo tetraplegico e si sono registrati i primi piccoli grandi successi.

Come funziona:

Si tratta di un chip con 96 elettrodi e grande 0,4 cm che viene inserito nel cervello: gli elettrodi leggono i comandi di movimento impressi dalla sezione del cervello specifica e li trasmettono via cavo a un supporto nel cranio, collegato a sua volta a un computer. Il primo paziente in assoluto a sperimentala è Ian Burkhart, un ragazzo ventitreenne tetraplegico. Un chip dunque è stato impiantato nel cervello del giovane paralizzato da un team della Ohio State University e Ian è entrato ufficialmente nell’era che i medici definiscono bionica, regalando speranze a molte persone, sia mielolese che colpite da ictus. I suoi pensieri vengono tradotti in impulsi e nonostante la lesione midollare i comandi cerebrali possono comunque giungere alle mani. Come ha spiegato Chad Bouton, ricercatore della Ohio University, il concetto che sta alla base di Neurobridge non è poi così diverso da quello del bypass aorto-coronarico. Dopo l’intervento per impiantare il chip nel cervello, gli scienziati di Battelle, l’ente di ricerca no-profit ideatore di Neurobridge, sono entrati nel cervello del ragazzo e l’hanno collegato, mentre Ian osservava i movimenti di una mano digitale, pensava di replicarli e il computer leggeva nella mente del giovane. I primi movimenti reali sono avvenuti al Wexner Medical Center di Columbus, in un clima di emozione generale.

L’esperimento:

Il ragazzo nell’esperimento ha dimostrato di poter aprire la mano e di stringerla poi in un pugno, afferrando un cucchiaio. Un piccolo gesto, ma enormemente significativo per una persona che non è più in grado di pilotare i movimenti degli arti: “«a cosa che mi manca maggiormente – ha spiegato Ian – è l’autonomia: è molto frustrante dipendere dagli altri anche per i gesti e le necessità più semplici». La fantascienza diventa realtà, scrive ilWashington Post, mentre il giovane Ian ha iniziato rivivere piccoli spazi di autonomia che per lui sono un regalo prezioso. Da quando nel 2010, in seguito a un’immersione, si è rotto la spina dorsale è rimasto completamente paralizzato. Aveva deciso di festeggiare la fine del primo anno all’università dell’Ohio con una giornata di mare e fu proprio lo schianto contro un banco di sabbia nascosto dalle onde ad aver causato la lesione. Le speranze per il momento sono tiepide e la cautela doverosa, ma l’era bionica è comunque iniziata.

http://www.corriere.it/methode_image/2014/06/25/Salute/Foto%20Salute%20-%20Trattate/neurobridge-kNg-U43020747508285VKD-180x140@Corriere-Web-Sezioni.JPG?v=201406251727

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AirPod la prima autovettura alimentata ad aria compressa, esempio di mobilità sostenibile, parte dal centro del Mediterraneo.
Mentre Tata Motors è in fase di predisposizione dei suoi modelli su tecnologia MDI per il mercato indiano, la Sardegna si è candidata per la prima produzione europea del veicolo, prevista per il tardo autunno del 2014.
L’autovettura ideata dall’ingegnere francese Guy Nègre (MDI, Motor Development International) sarà prodotta e distribuita a Bolota-na (NU) da Airmobility, una società di imprenditori sardi che ha scommesso su questa innovativa tecnologia. La scelta di questa tecnologia consentirà un’alternativa realmente sostenibile al trasporto urbano a combustibile convenzionale verso una nuova era ecocompatibile e rispettosa dell’ambiente.
Nel 2014 AirPod segna la versione 2.0 e passa da prototipo a veicolo di serie commerciabile nella comunità europea. Le novità salienti riguardano il suo design esterno ancora più moderno e accattivante, una dotazione di interni paragonabile a un’auto di fascia medio-alta e la nuova soluzione two-seater (due posti a sedere) per venire incontro alla normativa europea (n° 168/2013 in materia di omologazione di veicoli a motore) che vieta dal primo gennaio 2016 vetture con posti a sedere contrari al senso di marcia.
Il nuovo modello sarà prodotto in due versioni: motore 7 KW (guida con patente B) 80 km/h con autonomia di circa 120 km (circuito urbano); motore 4 KW (guida con patente A, motocicli) 45km/h e stessa autonomia, entrambi dotate di un bagagliaio da 500 litri con incluso uno scomparto refrigerato da trenta litri. Si guida tramite joystick o in opzione può essere richiesto il volante.
Nel luglio 2012 la città di Cagliari è stata la prima in Italia ad accogliere la prova dimostrativa dell’AirPod. Nel settembre 2013 in occasione della settimana della mobilità sostenibile Airmobility ha annunciato il progetto di costruire un impianto di produzione a Bolotana (NU), una delle zone più depresse della Sardegna, dove lo sviluppo industriale degli anni ‘80 ha lasciato delle ferite profonde. Unendo il concept industriale MDI (che prevede una produzione meno massiva) con una microfabbrica totalmente autosufficente dal punto di vista energetico, AirMobility intende perseguire coerentemente una reale idea di mobilità sostenibile, dalla costruzione del veicolo sino alla commercializzazione e alla messa su strada.
Airpod entrerà sul mercato con un modello base dal costo di € 7.500 e sarà destinata al trasporto passeggeri. La vettura ecologica avrà costi di alimentazione e manutenzione contenuti: un pieno da 4 euro permette di percorrere 100 km alla velocità massima di 80 km/h. Il rifornimento di ariacompressa può avvenire tramite stazioni abilitate (2,5 minuti per un pieno) o presa di corrente domestica da almeno 10kw (3,5 ore per un pieno).
La vettura pesa complessivamente 280 kg ed è realizzata in materiale composito di fibra di vetro e resina poliestere. La combinazione oltre ad avere un basso impatto ambientale, in caso di incidente ha una capacità di assorbimento dell’urto da due a quattro volte superiore alla carrozzeria di un veicolo tradizionale. MDI è costantemente alla ricerca di soluzioni alternative e a basso impatto ambientale, attualmente sono in corso test su materiali quali sisal e lino, come alternativa alla fibra di vetro.




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lunedì 7 luglio 2014

ACRILAMMIDE : LE FORZOSE RETICENZE E LA MANIFESTA IMPOTENZA DELL'EFSA !

Un Biologo di Parma ha "preceduto" le conclusioni dell'EFSA...

giorgio.pattera@alice.it

LA NOTIZIA DALL’EFSA:

Efsa: allarme acrilammide. Biscotti e patate a rischio cancro




L’Efsa, l’autorità europea per la sicurezza alimentare con sede a Parma, lancia un allarme sull’uso di una sostanza assai diffusa nell’industria alimentare, l’acrilammide, che serve a dare un aspetto migliore ai cibi, conferendo una piacevole doratura. Efsa ha confermato sospetti da tempo diffusi su legami fra l’acrilammide e i tumori.

“L’Efsa – afferma un comunicato della stessa agenzia – ha confermato le valutazioni precedenti secondo cui, sulla base degli studi sugli animali, l’acrilammide negli alimenti aumenta potenzialmente il rischio di cancro per i consumatori in tutte le fasce d’età. L’acrilammide negli alimenti è prodotta dalla stessa reazione chimica che conferisce al cibo la “doratura” – rendendolo anche più gustoso – durante la normale cottura ad alta temperatura (+150°C) in ambito domestico, nella ristorazione e nell’industria alimentare. Caffè, prodotti fritti a base di patate, biscotti, cracker e pane croccante, pane morbido e alcuni alimenti per l’infanzia rappresentano importanti fonti alimentari di acrilammide. Sulla base del peso corporeo, i bambini sono la fascia d’età maggiormente esposta. Le autorità europee e nazionali già raccomandano di ridurre al minimo la presenza di acrilammide nei cibi e forniscono consulenza a consumatori e produttori alimentari sulla dieta e sulla preparazione degli alimenti”. Efsa non ha poteri tali da poter cambiare le norme sull’uso di questa sostanza, ma auspica che i propri studi possano servire da “supporto per i decisori europei e nazionali nella valutazione delle possibili misure per ridurre ulteriormente l’esposizione dei consumatori a questa sostanza negli alimenti”.“L’acrilammide consumata per via orale viene assorbita dal tratto gastrointestinale, si distribuisce a tutti gli organi e viene ampiamente metabolizzata – spiega Diane Benford presidente del gruppo di esperti scientifici impegnato sull’acrilammide -. La glicidammide, uno dei principali metaboliti derivati da questo processo, è la causa più probabile delle mutazioni geniche e dei tumori osservati negli studi sugli animali. Finora gli studi sull’esposizione professionale e alimentare all’acrilammide condotti nell’uomo hanno fornito prove limitate e discordanti in merito all’aumento del rischio di sviluppo di tumori”. Gli studi proseguiranno nei prossimi mesi, per arrivare ad un parere definitivo entro fine anno.


ORA LO STUDIO DEL BIOLOGO GIORGIO PATTERA DATATO 2013:

"Considerazioni sul referto delle analisi effettuate sul contenuto dei  campioni di "perle" gelatinose (poli-acril-ammide)(1), cadute in una proprietà  privata di Lugo di Romagna (RA) il 3 settembre 2012, in concomitanza di un forte temporale. (Ricerche e analisi a cura del Dr. Giorgio Pattera, Biologo;  15-02-2013).

E' opportuno ricordare che le nubi si formano grazie alla presenza in quota di nuclei di condensazione (2), cioè di particolato finissimo e/o sostanze gassose, particelle elettriche, ecc. (equazione di Mason, 1971).
Non essendo comprensibile né tantomeno giustificabile il rinvenimento all'interno delle suddette "perle", in quantità non trascurabili, di individui chimici (rame, bario, manganese) del tutto estranei alla composizione d'un piccolo appezzamento sito in proprietà privata, si deve forzatamente ricorrere all'ipotesi che tali elementi siano stati già presenti in quota e che il suddetto polimero, fungendo da ulteriore nucleo di condensazione, li abbia successivamente "inglobati", precipitando al suolo per gravità.
In teoria, infatti, acqua piovana ed acqua distillata (= demineralizzata) sarebbero la stessa cosa, se non esistesse all'interno delle gocce di pioggia la presenza "sine qua non" dei nuclei di condensazione. Tali n.d.c. sono costituiti da granelli di polvere, particelle di terreno, sale marino, sabbia del deserto, particolari tipi di
argilla (Caolinite, Montmorillonite), microrganismi, pollini, spore, sostanze chimiche, ecc. Tutti questi n.d.c. sono trasportati nella troposfera, la cui altitudine media si attesta intorno ai 12.000 metri, a causa dei moti ascensionali e discensionali atmosferici, causati dal riscaldamento solare sulla diversificata morfologia della superficie terrestre.
 A questo punto penso sia lecito porsi la domanda: se le "perle gelatinose" di "KRILIUM" (= poli-acrilammide), cadute a Lugo dopo un violento temporale in una proprietà privata recintata, rinvenute INTEGRE (= senza alcuna soluzione di continuità della superficie), raccolte INTATTE con la massima cura ed introdotte in contenitore STERILE acquisito in farmacia, contenevano quantità non trascurabili (a differenza dell'Alluminio, rivelatosi al di sotto del limite di quantificazione(3)) di BARIO, MANGANESE e RAME, come facevano questi ultimi tre elementi a trovarsi nella troposfera, tanto da essere "inglobati" dai nuclei di condensazione del "Krilium" ? L'interrogativo ci pare legittimato anche dal fatto che nella nostra litosfera (= crosta terrestre, uno dei serbatoi dei n.d.c.) i tre elementi citati non compaiono certo fra i più abbondanti, sia come % in peso sia come %, sempre in peso, delle medesime forme di ossidazione (cfr. allegati).
 Invocare sbrigativamente, come sospetta causa della presenza in quota di tali (più che insoliti) n.d.c., l'inflazionato problema "inquinamento", ci sembra oltremodo riduttivo, se non qualunquistico. Ad ogni buon conto, anche etichettando l'eventuale, più che mai ipotetico, residuo di trattamento industriale come genesi dei suddetti n.d.c., "qualcuno" dovrebbe almeno giustificare la presenza nella troposfera di questo insolito "intruso" (il "KRILIUM") e motivare lo scopo dell'inseminazione delle nubi con la poli-acril-ammide (Peter Cordani, Patent US 6,315,213 B1 - 13/11/2001), la quale, come recita la nota n.°1, "L'acrilammide è una potente neurotossina e nella forma non-polimerizzata è facilmente assorbita
attraverso la pelle. Una volta avvenuta la gelificazione, perde la sua pericolosità, in quanto non è più assorbita...".
 "QUALCUNO" si è mai chiesto quali potrebbero essere le conseguenze, dirette o indirette, se la poli-acril-ammide, per motivi ancora non studiati, DOVESSE PERDERE LA POLIMERIZZAZIONE e/o LA GELIFICAZIONE ?
 Il "gel" di Krilium, sottoposto in laboratorio ad una fonte di energia termica, tende a "raggrinzirsi", cedendo all'ambiente circostante il proprio contenuto acquoso e trattenendo gli elementi "sequestrati", riducendosi ad una pellicola omogenea e trasparente.
E' stato pubblicizzato dalla "Monsanto Company" come un "condizionatore del suolo" ed è, almeno formalmente, impiegato per uso agricolo e orticolo, con vari nomi commerciali. La forma anionica (poliacrilammide-reticolata) viene spesso utilizzata come ammendante sui terreni agricoli. Le funzioni primarie di ammendanti a base di poliacrilammide sono l'aumento della produttività delle coltivazioni, l'aerazione e la porosità dei terreni e la riduzione della compattazione, polverosità e dilavamento. Funzioni secondarie sono l'aumento di vigore, colore, aspetto, profondità di radicamento e lo sviluppo dei semi delle
piante, diminuendo il fabbisogno d'acqua ("Le poliacrilammidi reticolate possono assorbire acqua, ormando dei gel con svariate proprietà", cfr. nota 1), le malattie, le spese di manutenzione e l'erosione da parte delle acque.
 Vista così, la MONSANTO sembra essere una benefattrice dell'Umanità...,

sennonché...

 RICADUTE sull'AMBIENTE

Molte riserve sono state sollevate circa l'uso di poliacrilammide in agricoltura: esiste un potenziale rischio di contaminazione degli alimenti con la neuro-tossina acrilammide.
La poliacrilammide è relativamente non-tossica, ma è noto che i prodotti commercialmente disponibili contengono alcune quantità di acrilammide, residuate dal suo ciclo di sintesi, di solito intorno allo 0,05%.
Inoltre, si teme che la poliacrilammide possa de-polimerizzarsi per formare acrilammide. In uno studio condotto nel 2003 presso il Central Science Laboratory di Sand Hutton, Inghilterra, la poliacrilammide è stata trattata al pari di alimenti da consumarsi previa cottura (= somministrazione di energia termica, circa 200°C, n.d.r.). E' stato appurato che tali condizioni non causano la de-polimerizzazione in modo significativo. Tuttavia lo Stato della California richiede (dal 2010) che i prodotti contenenti acrilammide siano etichettati con l'indicazione secondo cui "...l'ingrediente è una sostanza chimica nota nello Stato della California come causa di cancro".
In uno studio condotto nel 1997 alla Kansas State University , sono stati testati gli effetti delle condizioni ambientali sulla poliacrilammide ed è stato dimostrato che, in determinate circostanze, la degradazione di poliacrilammide determina il rilascio di acrilammide, potente neurotossina."

 FONTE :

NOTE:

(1) - Il gel di poliacrilammide è un copolimero cross-linked della acrilammide (derivato dell'acido acrilico). L'acrilammide è una potente neurotossina e nella forma non polimerizzata è facilmente assorbita attraverso la pelle. Una volta avvenuta la gelificazione, perde la sua pericolosità, in quanto non è più assorbita. È un supporto molto usato perché ha una porosità omogenea e riproducibile. Le poliacrilammidi reticolate possono assorbire acqua, formando dei gel con svariate proprietà.
 (2) -Il fenomeno della CONDENSAZIONE (che innesca la formazione delle nubi) avviene grazie alla presenza in atmosfera dei Nuclei di Condensazione, sui quali le molecole di vapore acqueo si vanno ad aggrappare.  I Nuclei di Condensazione sono "particelle igroscopiche che si trovano in sospensione nell’aria, con dimensioni variabili da < 4/10 di millesimo di mm. a 10 millesimi di mm.; a partire da circa 20/25 millesimi di mm. in poi, tendono a ricadere per effetto gravitazionale" (Aitken, 1880). Le nubi sono costituite quindi da un ammasso di goccioline d’acqua e/o cristalli di ghiaccio così numerosi da diventare visibili ed hanno un diametro che oscilla (per convenzione) da pochi micron a 100 micron; oltre i 100 micron (1/10 di millimetro) si inizia a parlare di gocce di pioggia.
(3) - LQ = Limite di Quantificazione: è la minima concentrazione di analita nel campione in esame che possa essere individuata con accettabile precisione ed accuratezza. Di contro, va specificato che ogni risultato espresso come "

FONTE:
...E PER CHIUDERE UN ALTRO CASO DEL 2012…

sabato 4 febbraio 2012

Sfere dal cielo

28 gennaio 2012 - Inghilterra - Un uomo, nel Dorset, è rimasto sconcertato dopo che alcune piccole sfere gelatinose di colore blu sono cadute dal cielo nel suo giardino. Steve Hornsby, cittadino di Bournemouth, ha spiegato che erano del diametro di tre centimetri. Le sfere erano piovute nel tardo pomeriggio di giovedì nel corso di una grandinata.
L’uomo, che ha trovato circa una dozzina di sfere nel giardino, ha precisato: “Erano difficili da prendere: ho dovuto usare un cucchiaio per riporle in un vasetto di marmellata. Avevano un guscio esterno con uno interno più morbido, ma non sprigionavano alcun odore, non erano appiccicose e non si scioglievano. L’ufficio meteorologico ha asserito che la sostanza gelatinosa "non è di origine meteorologica".
Josie Pegg, assistente scientifico della Bournemouth University, ipotizza che si tratti di "uova di invertebrati marini trasportati da volatili”. Altri scienziati dello stesso ateneo hanno annunciato di aver risolto l’enigma. Le sfere blu sono composte da sodio poliacrilato, un polimero asciugante usato nei pannolini e dai giardinieri per assorbire l’umidità. Le sfere sarebbero poi cadute, insieme con la grandine. Questa spiegazione è interessante, poiché si potrebbe pensare che siano stati impiegati polimeri igroscopici.
La dottoressa Hildegarde Staninger, prima che si pronunciassero gli ordinari britannici, aveva già intuito che si potesse trattare di polimeri. La ricercatrice californiana, infatti, ha ventilato l’ipotesi che siano capsule formate da idrogel: un idrogel è un colloide formato da catene polimeriche di molecole disperse in acqua, il cui contenuto in acqua può superare il 99%. Possono formare idrogel diversi composti naturali, come nel caso dell'alga, nota come agar agar e di varie molecole polisaccaridiche, ma anche composti artificiali come i siliconi e la poliacrilammide, un polimero brevettato dalla nefasta Monsanto con il nome commerciale di
“Krillium” ed adoperato in agricoltura, ufficialmente per favorire la crescita delle piante. Sia come sia, non saremo molto lontani dalla verità, se, nel singolare fenomeno, vedremo lo zampino dei soliti noti...


Fonti: S. Morris, Blue balls mystery solved by scientists, 2012; Terrarealtime, Inghilterra:  misteriose sfere gelatinose , 2012

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sabato 5 luglio 2014

CELLULE IMMORTALI ?


Di che cosa sono capaci le cellule “immortali” trovate per caso negli anni ’50 del secolo scorso?

Segnalato dal Dr. Giuseppe Cotellessa (ENEA)

Si usa ritenere che il corpo umano sia mortale come qualsiasi organismo vivente.  Studiando un tumore cancerogeno maligno mezzo secolo fa è stata ritrovata per caso ciò che è diventata una delle più grandi scoperte scientifiche nel campo delle medicina. E' la linea della coltura cellulare immortale HeLa, la più famosa ed utilizzata su vasta scala, coltivata in laboratorio per condurre  ricerche mediche e sperimentazioni.
Perché queste cellule possono essere considerate immortali? In esse è avvenuta “in un modo ancora inspiegato”, una mutazione della divisione che ha annullato il cosiddetto limite di Hayflick con il quale avviene un graduale invecchiamento e la morte delle cellule. Prima della comparsa di HeLa era incredibilmente difficile condurre le ricerche in diversi campi della biomedicina poiché le colture cellulari morivano precocemente.
Oggi, le cellule HeLa sono utilizzate in tutti i laboratori del mondo come il più semplice ed efficiente "analogo umano" per testare una nuova medicina o verificare la reazione a qualsiasi fattore irritante. Proprio grazie a HeLa è stato testato il  vaccino contro poliomielite ed è stato possibile l'inizio della medicina genetica, della clonazione,  della fecondazione extracorporea ecc... Senza la casuale, fortuita (?) scoperta di  HeLa  all'inizio degli anni '50 del secolo scorso la medicina molto probabilmente, non sarebbe progredita. (?)

Ecco La Storia:

…Nel febbraio del 1951 al Johns Hopkins Hospital di Baltimora fu ricoverata la trentenne afroamericana Henrietta Lacks. Dopo la biopsia le fu diagnosticato un cancro del collo dell'utero. La malattia si sviluppò in modo fulmineo e, nonostante le cure, nell'ottobre dello stesso anno Henrietta morì. Le sue cellule tumorali, prelevate durante la biopsia, furono inviate per analisi al Dr. George O. Gey, responsabile del laboratorio per lo studio delle cellule. Fu proprio lui a notare che le cellule di Henrietta non morivano, ma continuavano a dividersi senza sosta  contravvenendo a quello che era il normale comportamento cellulare. Gay avviò la ricerca e si rese conto che le cellule HeLa (acronimo del nome e cognome di Henrietta Lacks) avrebbero aperto un nuovo fronte di studio dalle prospettive mai viste prima.
In quel periodo nel mondo scoppiò una pandemia di poliomielite senza precedenti. Il virologo americano Jonas Edward Salk nel febbraio del 1952 elaborò il primo vaccino contro questa malattia, ma non poteva somministrarlo ai pazienti senza un riscontro accurato dell’ efficacia. Ciò richiedeva cellule coltivate su scala industriale. Il tempo stringeva e la gente moriva. Entrò quindi in scena il Dr. George O. Gey che mise a disposizione le colture HeLa.
L'unicità delle cellule immortali HeLa consiste nella loro assoluta adattabilità. Non hanno bisogno per la crescita di  una capsula di Petri, ma possono essere coltivate in grandi vasche con ambiente nutritivo riducendo di molto i costi per la loro produzione. Così fu attivata la fornitura del materiale biologico per il vaccino contro poliomielite e fu costituita la Microbiological Associates che tuttora si occupa delle grandi ricerche e forniture nel campo della biomedicina . Per contro, di tutto questo, alla famiglia Lacks non fu corrisposto nemmeno un centesimo. Negli anni '50 negli USA non esisteva ancora la legge sul consenso del paziente per l'utilizzo del suo materiale biologico. La società suddetta, ha mantenuto per molti anni il segreto sul nome del "donatore" delle cellule ma quando il nome di Henrietta Lacks fu reso di dominio pubblico è iniziata una lunga causa che, soltanto nel  nuovo secolo, dopo la decodifica del genoma, la famiglia Lacks ha parzialmente vinto. Ora l'accesso al genoma è possibile soltanto dopo aver inoltrato la richiesta al National Institues of Health degli USA e con il consenso personale dei Lacks.
Anche se le cellule immortali HeLa sono in sostanza cancerogene, hanno tutte le proprietà delle normali cellule umane. Producono energia e sono sensibili alle infezioni. Tutto ciò le rende tuttora straordinariamente diffuse e richieste nella biomedicina ma anche nelle organizzazioni governative segrete che sperimentano su di esse diversi tipi di armi biologiche.
Gli scienziati sperano ancora che, grazie a queste cellule, potranno capire come fermare il processo di invecchiamento e morte delle stesse, scoprendo finalmente il tanto agognato “elisir di lunga vita”.



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