martedì 11 dicembre 2018

SULLA LUNA CON UN COMPUTER...SENZA MEMORIA


Don Eyles, l'hippie del software che salvò gli astronauti dell'Apollo: «Sulla Luna col computer senza memoria»


Don Eyles, 74 anni, informatico del Mit di Boston, appena laureato venne ingaggiato per inventare il software del primo computer usato per pilotare le navicelle della Nasa delle missioni Apollo che conquistarono la Luna. Ospite di Maker Faire e della sezione italiana della British Interplanetary Society, ha ricordato quegli anni pionieristici dell’informatica in cui giocò un ruolo decisivo la visionaria immaginazione della controcultura del '68.


Quel maledetto protocomputer continuava ad accendere lucette come un albero di Natale, ma i volti terrei degli astronauti sulla navicella Apollo e dei tecnici nella sala di controllo a Houston rimandavano piuttosto a veglie funebri. «Abort, abort» lampeggiava la spia principale: nella migliore delle ipotesi sarebbe fallita la missione che nel febbraio 1971 avrebbe dovuto portare l'uomo sulla Luna per la terza volta, nella peggiore i rocket-men Shepard, Roose e Mitchell sarebbero diventati polvere cosmica. Che disastro: l'Apollo 14 doveva rilanciare il programma lunare dopo il cosmico flop dell'Apollo 13.
Don Eyles, 27 anni, laureato al Mit di Boston ma a prima vista (quasi) un hippie, prese la matita e il solito metro cubo di carta perforata: due ore dopo passò alla sala di controllo la sequenza di 80 tasti che in meno di 70 secondi Shepard avrebbe dovuto digitare (con i guantoni da astronauta) sulla tastierina dell'Apollo Guidance Computer per permettere al suo nuovo software di battere il suo vecchio software e di pilotare navicella e modulo per l'allunaggio. Sì, abbiamo capito bene, noi che ci sentiamo virtuosi del pianoforte mentre digitiamo la combinazione ctrl+alt+canc: 80 tasti in sequenza in pochi secondi per vivere o morire. E funzionò alla perfezione consegnando un nuovo trionfo agli Stati Uniti sull'Urss nella corsa allo Spazio.
È che quel computer, con i primi circuiti integrati al posto di transistor o valvole, aveva solo 64 kb di memoria e quindi i programmatori come Eyles dovevano inventare eterne sequenze di comandi poi imparate come un mantra dagli astronauti.
Quanto sono impalpabili 64 Kb? Un Kb di memoria vale un milionesimo di un Gigabyte. E di Gigabyte, lo sappiamo, largheggiano già le schede dei nostri cellulari, per non dire dei laptop: 64 Kb come appunto il Commodore 64, antesignano delle consolle elettroniche per videogiochi in vendita solo dal 1982. A ricordare le ricadute delle missioni spaziali nella nostra vita di tutti i giorni, sempre più legata ai grandi progressi della tecnologia compiuti per quelle prime imprese e per quelle successive. Progressi che a 50 anni ancora si rivelano utili: alcune delle sequenze di comandi ideate da Eyles sono ancora usate sull'Iss da Luca Parmitano o Samantha Cristoforetti. 
 «Tutto ciò che facevamo in quei giorni, dal 1966 in poi, era nuovo - dice Eyles, occhi dolci che non si perdono un dettaglio - migliaia e migliaia di persone che ideavano nuove cose per realizzare qualcosa che nessuno aveva mai fatto in un ambiente ancora più misterioso dell'America per Colombo. Serviva preparazione tecnica, ma anche fantasia, gioco di squadra, intuizione, errori da cui imparare, orgoglio e coraggio».
Fantasia ?
«È la più importante quando si affronta l'ignoto, così come la condivisione delle conoscenze fra persone dagli studi diversi, questione non sempre scontata tra scienziati. Eravamo alla Nasa, simbolo supremo dell'establishment degli Stati Uniti, ma dovevamo vivere come in una comune se volevamo raggiungere il traguardo».
Non a caso dell'epopea di Eyles scrisse con enfasi, prima ancora di Science o Nat Geo, Rolling Stone in un memorabile pezzo del 1971: Il fricchettone che salvò l'Apollo 14. Il gruppo di Eyles venne ingaggiato per la Nasa nel 1966, con la corsa alla Luna affiancata dalla guerra in Vietnam e dalla diffusione della controcultura del 68. I programmatori di quei computer, senza i quali la conquista della Luna sarebbe restata un'utopia, galleggiavano insomma per conto della Nasa fra i livelli della coscienza, il terzo, in particolare, che esaltava libertà personale, ugualitarismo e droghe ricreazionali per espandere i limiti della comprensione, come raccontato nel best seller The greening of America nel 1970.

«ERO UN FRICCHETTONE CHE DOVEVA SPIEGARE AD ARMSTRONG COME SOPRAVVIVERE NELLO SPAZIO CON LE MIE PROCEDURE»
E la responsabilità per la vita degli astronauti e per i sogni di gloria degli Stati Uniti non era un tremendo fardello mentre ideava i programmi? Jobs, Gates o Torvalds questo peso non l'avevano di sicuro.
«No, a essere sinceri non ci si pensava, era più forte l'entusiasmo di avventurarsi in quel mondo ignoto».
Lei, lunghi capelli e baffi biondi, jeans scampanati, occhialetti alla Lennon, ha dovuto insegnare a usare quel pc ad Armstrong e compagni, quasi tutti piloti top gun dell'aviazione Usa, qualcuno reduce della guerra in Corea: gente tosta, armadi con i capelli a spazzola, Rayban specchiati, che affidavano lo loro vita a quella infinita sequenza di tasti.


«Già, erano incontri magnifici: la prima volta ci si guardava negli occhi, ci si stringeva la mano (ovvero la mia veniva stritolata) e poi cominciava lo scambio di informazioni. Esaltante: si capiva che, pur venendo da mondi diversi, bisognava mettersi uno a fianco dell'altro perché questo richiedeva la missione».
Proprio mentre lei si arrabatta per programmare quel protocomputer smemorato, Kubrik le fa vedere Hall 9000 in 2001 Odissea nello spazio (1968).
«Che macchina meravigliosa, affascinante, però mi sembra di ricordare che alla fine ebbe un fastidioso malfunzionamento».
Quanto era forte su di voi la pressione della Nasa per recuperare l'umiliante smacco subìto dall'Unione Sovietica con Sputnik e Gagarin?
«Fortissima, estenuante com'è logico che fosse perché eravamo in piena Guerra fredda. Spesso mi rifugiavo nella copia del Lem per isolarmi».

«QUEL SUCCESSO UNIVA LA CONTROCULTURA VISIONARIA DEL ’68 E IL RIGORE SCIENTIFICO ANCHE MARTE ERA ALLA NOSTRA PORTATA»
La tecnologia e l'informatica spaziale dei russi, tutt'ora così commoventemente essenziale, la incuriosisce?
«Accipicchia, la ammiro proprio. Se una cosa funziona bene perché accantonarla così in fretta come facciamo noi nell'ansia di migliorarla anche solo di un capello? Che spreco di tempo e di risorse. E' una grande lezione quella che viene dai russi: ci ricorda anche il grande errore dei primi anni 70, quando avevamo tutto ma proprio tutto, glielo garantisco, per arrivare su Marte. Invece, per miopia politica, perdemmo l'attimo e ora chissà quando ci riusciremo».
I suoi interessi spaziano dall'informatica alla scultura alla poesia. E alla scrittura: il suo ultimo libro Sunburst and Luminary, an Apollo memoir fa luccicare gli occhi.
«Grazie, ma guardi che scrivere un software è come comporre una poesia o una canzone (amo David Bowie): poi magari i lettori non saranno proprio gli stessi. Ma da sempre, fin dalla nascita della mitizzata cultura digitale, ho spinto perché i suoi obbiettivi fossero alti, artistici, intendo, e non solo funzionali».




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