Da:
Scienza e fede.
Nell'evoluzione il mistero
dell'uomo
Di:
Fiorenzo Facchini
Il rapporto fra creazione ed
evoluzionismo in seno al dialogo fra scienza e fede è spesso stato al centro di
interventi di Giovanni Paolo II.
Nel secolo XX una delle sfide più
grandi alla fede cristiana è venuta dall’evoluzionismo ateo, che esclude Dio
dal processo evolutivo della vita ispirandosi a una concezione materialistica
dell’uomo. Lo scientismo ha pervaso molti settori della cultura generando ideologie
riduzioniste. Il tema dell’evoluzione, se contrapposto a una visione di
creazione, diventa un terreno favorevole alle ideologie. Alcuni l’hanno anche
definita «la nuova questione galileiana». In campo cattolico questa lettura
materialista non è stata solo contrastata, ma ha stimolato sul piano teologico,
filosofico e scientifico una riflessione sul rapporto tra scienza e fede che
apre la strada a una visione armonica tra i dati e le suggestioni della scienza
e l’insegnamento della fede. Giovanni Paolo II si è occupato in varie occasioni
di questi problemi affrontando alcuni nodi importanti, così da rendere
possibile un dialogo e un’armonia tra la scienza e la riflessione teologica.
Premesse e considerazioni importanti circa i rapporti tra scienza e fede erano
venute dal Concilio Vaticano II con la Gaudium et Spes e le precisazioni della
Dei Verbum sui generi letterari nella Bibbia. Essi si inseriscono nel più ampio
quadro del rapporto tra scienza e ragione, sviluppato in seguito nell’enciclica
Fides et ratio del 1998.
Sul tema specifico di creazione
ed evoluzione si possono riconoscere nel pensiero di Giovanni Paolo II alcuni
chiarimenti fondamentali circa tre questioni: gli inizi dell’universo, la
teoria evolutiva, l’identità dell’uomo. La teoria del Big Bang per gli inizi
dell’universo, proposta negli anni 40 del Novecento dallo scienziato belga
Georges Le- maître, un sacerdote gesuita, teoria oggi largamente accettata,
viene vista da non pochi come prova della creazione. Giovanni Paolo II in una
lettera del 1 giugno 1988 al direttore della Specola Vaticana, padre Georges
Coyne, dopo avere richiamato, citando Galilei, il necessario dialogo tra
scienza e fede, osserva che il concetto di creazione è filosofico, non
appartiene al dominio della scienza, e mette in guardia dalla tentazione di
identificare la creazione col Big Bang. Il concetto di creazione non appartiene
al dominio della scienza. Esso indica la dipendenza radicale di ciò che esiste
da Dio ed esige l’intervento divino all’origine delle cose. Si può ritenere che
la creazione si accordi con la teoria del Big Bang, ma il suo concetto è molto
più vasto e di altro ordine. Anche il bosone di Higgs, scoperto nel 2012, che
ha la capacità di dare massa e collegare le particelle infime della realtà, denominato
per questo “particella di Dio”, va visto come metafora dell’interazione tra Dio
e la realtà, non come ultima spiegazione della realtà. La distinzione dei piani
di conoscenza, che è di ordine epistemologico, resta fondamentale.
Un altro punto importante nel
magistero di Giovani Paolo II sul rapporto tra scienza e fede, in tema di
evoluzione, riguarda la spiegazione dello sviluppo della vita sulla terra.
Quale rapporto tra creazione ed evoluzione della vita? Nel messaggio del 22
ottobre 1996 alla Pontificia Accademia delle scienze Giovanni Paolo II
riconosce che sono tante e congruenti le osservazioni provenienti dai vari
campi della scienza, per cui l’evoluzione può considerarsi non una mera ipotesi
(Pio XII nella Humani generis parlava, appunto, di ipotesi), ma una teoria, o
forse si potrebbe parlare di “teorie dell’evoluzione”, per la pluralità delle
spiegazioni proposte. In precedenza, anche in altre occasioni, Giovanni Paolo
II aveva sfiorato l’argomento del rapporto tra evoluzione e creazione. Nel
discorso al Simposio internazionale su fede ed evoluzione (”Osservatore
Romano”, 27 aprile 1985) aveva affermato: «Una fede rettamente compresa nella
creazione e un insegnamento rettamente inteso dell’evoluzione non creano
ostacoli… L’evoluzione infatti presuppone la creazione; la creazione si pone
nella luce dell’evoluzione come un avvenimento che si estende nel tempo – come
una creatio continua – in cui Dio diventa visibile agli occhi del credente come
creatore del cielo e della terra».
Nell’evoluzione il nodo forse più
grande è l’uomo. Anch’egli si è evoluto come le altre specie? Dai Primati? E la
sua identità spirituale? Come si riconosce nel corso della evoluzione? C’è da
ricordare che nel corso del secolo XX non sono mancati filosofi e teologi disponibili
ad ammettere l’evoluzione, anche dell’uomo, dopo le grandi aperture di Pierre
Teilhard de Chardin: da Bergson a Maritain, a Guitton, da Chenu a Rahner, Haag,
De Fraine, De Lubac, Moltmann, Martelet, Marcozzi, Flick, Alszeghy, Ratzinger,
Ganoczy, Molari… Un’affermazione importante e chiara di Giovanni Paolo II al
questo proposito si trova in un una catechesi tenuta in piazza San Pietro nel
1986 (”Osservatore Romano”, 17 aprile di quell’anno): «Si può dunque dire che
dal punto di vista della fede non si vedono difficoltà nello spiegare l’origine
dell’uomo, in quanto corpo, mediante l’ipotesi dell’evoluzione… È cioè
possibile che il corpo umano, seguendo l’ordine impresso dal Creatore nelle
energie della vita sia stato gradatamente preparato nelle forme di esseri
viventi antecedenti. L’anima umana però da cui dipende in definitiva l’umanità
dell’uomo, essendo spirituale, non può essere emersa dalla materia».
Un’osservazione non nuova, perché
nella sostanza risale a Pio XII, alla Humani generis, in cui si afferma che
anche in una ipotesi evoluzionista si deve ritenere «la creazione speciale
dell’anima da parte di Dio». Ma la riflessione di Giovanni Paolo II appare più
articolata. Questa considerazione sta alla base del concetto di «salto
ontologico» che Giovanni Paolo affermò nel già citato messaggio del 22 ottobre
1996 alla Pontificia Accademia delle scienze, che in due parole definisce una
discontinuità evolutiva la specificità dell’essere umano, arricchito dallo
spirito. Questo concetto rappresenta una precisazione importante, pur lasciando
interrogativi sul quando e sul come il passaggio sia avvenuto. Sul piano
empirico possiamo cercare i segni di questo passaggio nella documentazione di
comportamenti che denotano una discontinuità: i comportamenti progettuali e
innovativi, con significato, e quindi a carattere simbolico, in una parola le
espressioni della cultura. Ma qui si apre il campo alle interpretazioni degli
studiosi che hanno inevitabilmente qualche carattere di soggettività, almeno
fino a quando le manifestazioni della cultura sono tali da non lasciare dubbi.
Certamente col tempo le discontinuità rispetto alle precedenti forme non umane,
si fanno più evidenti. Molti autori propendono a riconoscere la discontinuità
in Homo habilis di due milioni di anni fa, artefice della cultura olduvaiana, e
ancora di più in Homo erectus (Homo ergaster) che realizzava utensili
bifacciali.
Ma non si deve dimenticare che il
tema dell’identità umana resta fondamentale anche nella generazione di ogni
uomo. C’è una discontinuità ontologica tra la struttura biologica e lo spirito
in ogni essere umano che si forma, anche se strettamente intrecciati nell’unità
della persona. La discontinuità è colmata da Dio con l’animazione nel grembo
materno. Ogni essere umano è tale perché arricchito dallo spirito che lo rende
intelligente e libero, capace di rapportarsi col suo Creatore.
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SONO EDIZIONI OmPhi Labs
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