"Io, primo uomo-robot.
Parleremo col cervello"
Anno 1998: Kevin Warwick si fa
impiantare un chip nel braccio, comincia una nuova era. Poi con gli elettrodi
mette in comunicazione il suo sistema nervoso e quello della moglie
Kevin Warwick, classe 1954, è un
professore universitario e ricercatore inglese di cibernetica e robotica
applicata all’essere umano. Oggi è vicerettore dell’Università di Coventry, ma
è diventato famoso vent’anni fa, nel 1998 con il ‘Progetto Cyborg’. Warwick fu
il primo uomo-robot, ovvero il primo uomo a impiantarsi un chip nel braccio. Un
esperimento che ha rivoluzionato la storia delle interazioni uomo-macchina.
"Prima di allora, quel tipo di impianto era stato provato solo su animali,
in particolare sui gatti, e sul loro sistema nervoso. E veniva tolto dopo tre
giorni".
Per quanto tempo ha avuto quel
chip nel braccio?
"Tre mesi. Solo il fatto di
averlo tenuto così a lungo ha avuto un enorme impatto sulle ricerche mediche,
perché ha dimostrato che non c’erano controindicazioni, che il corpo umano
poteva ‘sopportare’ e interagire per lunghi periodi. Il che ha aiutato a
superare le perplessità etiche sull’utilizzo in campo medico".
Tre mesi come primo uomo robot:
per fare cosa?
"In realtà, molto di più del
‘controllare un braccio-robot’, come è stato a lungo semplificato. Certo,
quella era la parte più facile da capire e da spiegare, e anche con più
applicazioni pratiche".
Quali sono state?
"Oggi lo stesso tipo di chip
aiuta molte persone paralizzate a recuperare almeno in parte i movimenti. In
molti casi di paralisi, il cervello funziona ma i moto-segnali, se appaiono,
non arrivano dove dovrebbero arrivare, causa le lesioni nel sistema nervoso o
nel midollo, o altri problemi. Il primo giorno del nostro esperimento
dimostrammo che si possono prendere segnali nervosi e ri-trasmetterli come se
lo facesse il sistema nervoso".
E negli altri 89 giorni, cosa
avete testato?
"Nuove forme di comunicazione
nervi-cervello, input extrasensoriali, controllo di parti robotizzate, e anche
‘giochini’ come cambiare il colore dei gioielli".
Con quell’esperimento è arrivata
la fama, la copertina di ‘Wired’… .
"Arrivarono anche moltissime
critiche, attacchi che non mi sarei mai aspettato, accuse di aver fatto tutto
ciò solo per la notorietà".
Poi però lei ha fatto una cosa
ancora più rivoluzionaria: mettere in comunicazione due sistemi nervosi, il suo
e quello di sua moglie, tramite due chip.
"È l’esperimento che mi ha
dato più soddisfazione in assoluto, in tanti anni di ricerche. Ho un background
nel campo della comunicazione e vedo che, come esseri umani, il modo in cui
mandiamo segnali da cervello a cervello è molto povero, rispetto a come
comunica la tecnologia. Quello che facemmo, con mia moglie, fu mandare segnali
dal sistema nervoso dell’uno a quello dall’altra. Abbiamo dimostrato che l’uomo
può espandere le proprie capacità sensoriali. Noi esseri umani saremo in grado
di comunicare solo attraverso il pensiero".
Una prospettiva affascinante e
paurosa allo stesso tempo.
"Cambierà completamente
l’essere umano. La domanda è proprio: quanto saremo ancora umani? Non lo so,
non siamo ancora in grado di comunicare così".
Quanto siamo lontani dal
‘comunicare solo attraverso la mente’? Lei ha salito il primo gradino.
"Siamo ancora su quel primo
gradino, anche se penso che in tutto ne serviranno tre o quattro. Facemmo il
primo passo, e anche quello fu cruciale. Credo che il prossimo esperimento sarà
cruciale: cercare di connettere due cervelli".
Però sono passati 15 anni, e
nessuno è andato avanti in questo filone di ricerca. Come se lo spiega?
"Ne sono sorpreso anch’io.
Perché la scienza funziona così, un esperimento dopo l’altro. Certo, noi
prendemmo dei rischi, che ora però non esistono più".
La scienza però incontra anche
tanti ostacoli.
"Ricordo la prima volta che
sono venuto a Napoli. Il taxi ha passato tre semafori rossi consecutivi. Per me
era impensabile. ‘Qui fermarsi al rosso è opzionale’, mi spiegò il tassista. Mi
è piaciuto molto come concetto, perché nelle ricerche che porto avanti, ci sono
molti semafori rossi: non puoi far questo, non puoi far quello. E se ti fermi
sempre a questi semafori rossi, non vai dove vuoi andare, la ricerca non procede".
Forse lo stop arriva dagli
aspetti etici del ‘connettere due cervelli’?
"Per far esperimenti di
questo genere devi avere approvazioni dal comitato etico, ma è proprio da un
punto di vista etico che la ricerca deve andare avanti: scoprire se una cosa si
può fare, se fa bene o se fa male".
Lei studia le connessioni fra
mente e chip, eppure da sempre sottolinea i pericoli dell’intelligenza
artificiale.
"Dico ‘attenzione a quel che
creiamo’ fin dal 1997, col il libro ‘La marcia della macchine’. Oggi lo dicono
anche Elon Musk e Stephen Hawking. È un bene che ci sia questa consapevolezza".
Ha paura di lasciare troppo
spazio alle macchine?
"In un certo senso sì.
Possono essere intelligenti in modi molto specifici e settoriali, ma non hanno
l’intelligenza generale che ha il cervello umano. Non capiscono le battute, le
sfumature, le emozioni".
Che cosa le piacerebbe
sperimentare?
"Non ho abbandonato l’idea
di connettere due cervelli, anche se mia moglie vorrebbe tanto che smettessi di
pensarci. Ma ne ho avuto abbastanza delle critiche di 15 anni fa".
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DI MARCO LA ROSA
SONO EDIZIONI OmPhi Labs
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