E se la velocità della luce non
fosse costante?
Che la velocità della luce nel
vuoto fosse la stessa per tutti i fotoni è da sempre uno dei pilastri della
fisica e della relatività. Ma alcune teorie alternative non la vedono così. I
risultati dello studio di un gruppo di ricercatori guidato da Maria Grazia
Bernardini forniscono un nuovo limite sull'energia dei fotoni oltre il quale
gli effetti di gravità quantistica diventano importanti
Rappresentazione artistica di due stelle di neutroni piccolissime, ma
molto dense, sul punto di fondersi e esplodere come kilonova. L’impulso di
radiazione emessa è un lampo di raggi gamma (Grb) corto. Crediti: Eso/L.
Calçada/M. Kornmesser
La velocità della luce nel vuoto
è una costante di natura. Anzi, non proprio. Alcune teorie quantistiche della
gravità minano questa certezza, suggerendo che i fotoni, i “quanti” di luce,
potrebbero viaggiare a velocità diverse che dipendono dalla loro energia. Per
indagare questa ipotesi e soprattutto provare a quantificare l’entità di questo
effetto, un gruppo di ricercatori guidati da Maria Grazia Bernardini, ora in
forza all’Università di Montpellier in Francia e associata Inaf, che ha visto
la partecipazione di colleghi dell’Istituto nazionale di astrofisica di Milano,
ha realizzato uno studio sulla luce emessa dai lampi di raggi gamma (Gamma-Ray
Burst, Grb) corti, potenti esplosioni cosmiche legate alla fusione di stelle di
neutroni. I risultati di questa indagine, pubblicati in un articolo sulla
rivista Astronomy & Astrophysics, forniscono un nuovo limite sull’energia
dei fotoni oltre il quale gli effetti di gravità quantistica diventano
importanti e rappresentano un passo importante per l’utilizzo dei GRB corti
come strumento per studiare gli aspetti più estremi della Fisica. Uno dei
concetti fondamentali della fisica moderna riguarda la cosiddetta duplice
natura della luce. La luce infatti si può descrivere come un’onda
elettromagnetica ma, allo stesso tempo, ha proprietà tipiche delle particelle,
che in questo caso vengono chiamate fotoni. Ad ogni determinata lunghezza
d’onda della luce corrisponde un’energia del fotone associato. La teoria della
relatività speciale di Einstein prevede che la luce nel vuoto viaggi ad una
velocità costante “c” circa uguale a 300mila chilometri al secondo, quale che
sia l’energia dei fotoni. Tuttavia, alcune teorie quantistiche della gravità
considerano il vuoto come un “mezzo gravitazionale”. Secondo queste teorie,
questo “mezzo gravitazionale” conterrebbe delle disomogeneità – o fluttuazioni
– estremamente piccole, dell’ordine della cosiddetta “lunghezza di Planck” pari
a 10-33 cm, ovvero 10 miliardi di miliardi di volte più piccola del diametro di
un protone. Una sorprendente conseguenza della presenza di queste disomogeneità
sarebbe che fotoni di diversa energia non viaggerebbero più tutti a alla stessa
velocità nel vuoto, ma potrebbero avere velocità differenti che dipendono dalla
loro energia: maggiore è l’energia del fotone, maggiore sarà l’effetto dovuto
alla gravità quantistica. Se così fosse, verrebbe però violata la cosiddetta
Invarianza di Lorentz, che è proprio il principio fisico alla base della
relatività speciale.
«Considerando l’ipotesi che
effettivamente la velocità dei fotoni sia anche legata alla loro energia,
avremmo che due fotoni emessi nello stesso momento con energia diversa e che si
propagano nel vuoto quantistico, accumulano un ritardo l’uno rispetto
all’altro» dice Bernardini. «Questo ritardo, se misurato, può essere usato per
studiare le proprietà dello spazio-tempo e della gravità quantistica». Il
problema è che questo effetto è talmente piccolo che è necessario che i fotoni
viaggino per miliardi di anni per accumulare un una separazione temporale
dell’ordine del millesimo di secondo. «Quindi, cosa ci serve per poter sperare
di misurare un effetto di gravità quantistica? Una sorgente molto luminosa,
distante da noi almeno qualche miliardo di anni luce e che emetta fotoni ad
alta energia» prosegue la ricercatrice. «Ma si deve anche comportare bene:
vorremmo che emettesse i fotoni allo stesso istante, quindi processi intrinseci
che comportino che alcuni fotoni partano prima o dopo altri non andrebbero
bene. Un modo per andare sul sicuro, è selezionare sorgenti astrofisiche che
abbiano processi di emissione elettromagnetica di durata il più breve possibile
e di avere molti oggetti, in modo da contaminare poco la nostra misura con
eventuali ritardi dovuti a processi intrinsechi”.
In questo contesto, i lampi di
raggi gamma rappresentano le sorgenti ideali per questo tipo di studi. Si
tratta infatti di esplosioni talmente potenti che è possibile osservarle fino a
distanze di decine di miliardi di anni luce. I ricercatori hanno così studiato
il ritardo di arrivo dei fotoni a energie di qualche decina-centinaia di
kiloeletronvolt emessi dai Grb corti rilevati dal satellite Swift, una missione
Nasa con partecipazione del Regno Unito e dell’Italia grazie al contributo di
Inaf e Asi. Conoscendo la distanza di questi eventi e potendo sottrarre
l’effetto intrinseco di ritardo dell’emissione dei fotoni il team ha ottenuto
un nuovo limite sull’energia oltre la quale gli effetti di gravità quantistica
diventano importanti. «Il lavoro mette in luce quanto sia necessario avere
satelliti che misurano con precisione l’energia e il tempo di rivelazione dei
fotoni emessi da queste sorgenti per misurare un effetto così piccolo come
quello indotto dalla gravità quantistica sulla velocità di propagazione della
luce» conclude Bernardini. Anche se il limite ottenuto non permette ancora di
convalidare o escludere alcuna teoria di gravità quantistica, il metodo di
analisi proposto mostra come in futuro sarà possibile usare i Grb corti come
sonde per studiare la ‘rugosità’ dello spazio-tempo con gli strumenti di nuova
generazione previsti per i prossimi anni. Ad esempio, con il Cherenkov
Telescope Array sarà possibile rivelare l’emissione elettromagnetica dei Grb ad
energie pari a qualche teraelettronvolt (migliaia di miliardi di elettronvolt),
dove fino ad ora queste sorgenti non sono ancora state rivelate, ma anche la
rete di microsatelliti Hermes potrà contribuire significativamente a questi
studi. Con le sue capacità di risoluzione temporale, Hermes rappresenterà
infatti una sorta di cronometro estremamente preciso per la misura di eventuali
ritardi nell’arrivo dei fotoni alle diverse energie emessi dai Grb.
Da:
http://www.media.inaf.it/2017/11/24/speed-light-bernardini/
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DI MARCO LA ROSA
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