mercoledì 8 luglio 2015

"LA BANCAROTTA DELL’ONCOLOGIA SCIENTIFICA"




di: ASCLEPIO

“Dio non gioca a dadi col mondo”.

         – A. Einstein

“Probabilmente lo fa, ma non sappiamo con quali regole”.

        – C. Jung e W. Pauli


Uno studio scientifico pubblicato nel gennaio del 2015 da due ricercatori della prestigiosa John Hopkins University, l’oncologo B. Vogelstein e il matematico C. Tomasetti dovrebbe far riflettere per il suo contenuto e le implicazioni del suo risultato assai più di quanto non si è fatto finora. Non solo invece esso è stato contestato da alcuni ambienti accademici (cosa assai ovvia in realtà), ma soprattutto abbiamo notato la totale indifferenza con cui è stato accolto sia dai cultori delle ‘scienze di frontiera’ sia dai tanti “esoteristi” da tastiera che amano presentarsi come dei grandi della “metapsichica”, ma curiosamente non sanno cimentarsi con i fatti concreti anche quando questi prospettano importanti conseguenze per il loro stesso ambito…
Lo studio che già nel titolo parla eloquentemente  di “cattiva fortuna” è sostanzialmente un’indagine di meta-analisi, condotta sulla letteratura riguardante l’incidenza di certi tumori, con l’applicazione di un modello matematico studiato per calcolare la correlazione con le mutazioni spontanee nel DNA. Si sapeva infatti che le mutazioni spontanee avessero un ruolo nella genesi delle patologie neoplastiche; lo studio ha avuto come scopo quello di quantificare l’incidenza di questo fattore. Il modello prevedeva di correlare l’incidenza statistica di certi tipi di tumori con la frequenza, nell’arco della vita, delle divisioni delle cellule staminali nel relativo tessuto. Lo studio ha incluso 31 tipi di tumori, purtroppo escludendo quelli al seno e alla prostata per la difficoltà di reperire in letteratura dati sufficienti sul rating di divisione delle cellule staminali in questi organi.


Lo studio dunque ha puntato a cercare la correlazione statistica fra incidenza di tumori a danno di un tessuto od organo e la rapidità di divisione cellulare e dunque di replicazione del DNA (con relativa possibilità di “errore”, cioè mutazione). Il tasso di correlazione lineare è stato calcolato essere il quadrato di 0.804, cioè approssimativamente il 65%.  In questa fase sono stati esclusi i fattori “esterni”, i fattori di rischio, ambientali,  l’esposizione a sostanze ritenute cancerogene o mutagene ecc… Ad esempio è stato trovato che il cancro al colon ha un’alta incidenza correlata linearmente, secondo il modello matematico impiegato, all’ ugualmente alta attività di divisione cellulare del tessuto. Il tessuto del colon che ha un tasso di divisione cellulare quattro volte superiore a quello dell’intestino tenue; chiaramente il cancro al colon è assai più frequente di quello a carico dell’intestino tenue. L’ipotesi che ciò possa essere dovuto ad una eventuale maggiore esposizione anatomica del colon a fattori ambientali ed inquinanti cade nel momento in cui si ritrova la condizione invertita, ad esempio nel topo, dove il cancro del tenue è più frequente, a fronte di un maggior tasso di divisione delle cellule staminali in questo organo. In pratica, l’andamento stocastico (= casuale o aleatorio) delle mutazioni in fase di replicazione del DNA è il fattore con un peso statistico di gran lunga maggiore rispetto a qualsiasi altro fattore considerato come cancerogeno.
Più nel dettaglio riportiamo che nei 31 tipi di tumore esaminati ben 22 hanno un’incidenza esattamente correlata al tasso di divisione delle staminali; i restanti 9 avevano un’incidenza maggiore di quella calcolata statisticamente con il modello. Questa maggiore incidenza può essere dovuta ai “fattori di rischio” fra cui lo stile di vita, il contatto con agenti tossici o fattori ereditari (difetti genetici) o una combinazione di questi. Il primo gruppo, quello ampiamente maggioritario, viene indicato come “tumori random” ed include neoplasie che colpiscono aree e organi come cervello (gliosarcoma), collo,  midollare della tiroide, esofago, polmone nei non-fumatori, fegato, duodeno, pancreas, ovaio e testicolo, ed anche l’osteosarcoma (testa, femore, bacino) ed il melanoma.


 Il secondo gruppo, comprendente ad esempio le neoplasie correlate a papillomavirus, virus dell’epatite, o poliposi familiare al colon (FAP), viene denominato come “tumori deterministici“, per indicare la correlazione di questi a fattori di rischio predittivi. Per la verità l’espressione “deterministici” è abbastanza forzata, perché si tratta comunque sempre di un andamento di tipo statistico-probabilistico e perché, anche in questo caso le mutazioni spontanee sono cruciali e i fattori esterni sono un elemento sopravveniente. Dunque l’aspetto di determinismo scientifico è  un po’ problematico. In primo luogo si nota che l’impatto di tutti i fattori che la scienza medica ha finora indagato e individuato come “cancerogeni” hanno un qualche ruolo solo in un terzo dei tumori studiati (ovviamente lo studio non è esaustivo ma si tratta già di un campione statisticamente significativo); ed anche in questo caso si tratta in sostanza di concause, che quindi non rendono meno cruciale il ruolo delle mutazioni casuali. Gli stessi autori evidenziano come la prevenzione legata agli “stili di vita” possa essere utile solo contro certi tipi di tumori. In pratica l’unica speranza sarebbe data dalla “diagnosi precoce” (sic).  Già questo è sufficiente a far capire quanto il ruolo dell’oncologo ( o del biologo molecolare) ne risulti ridimensionato, dato che se le cose stanno così non si  può disporre di un modello predittivo-esplicativo delle cause dei tumori, su cui progettare delle strategie e terapie eziologiche; non sorprende pertanto che alcuni oncologi abbiano accolto malissimo questo studio. In sostanza di fronte a questi risultati viene da pensare se l’oncologo non sia nulla più che un notaio che prende atto della patologia neoplastica e autorizza la somministrazione di chemioterapici che in fondo sono un aggressione farmacologica non particolarmente specifica, hanno effetti devastanti sul malato e scarse prospettive di cura anche perché, malgrado qualche locale miglioramento delle prospettive di vita, enfatizzato con toni trionfalistici dalla stampa scientifica finanziata dai colossi farmaceutici, il cancro è ad oggi una patologia dall’esito infausto.Ma questo è solo un aspetto “sociologico” del problema.
Si impone infatti una riflessione assai più ampia di natura epistemologica. In primo luogo questo studio dovrebbe cominciare a far riconsiderare se non altro il “senso” di quello che per la medicina potremmo definire il ‘paradigma genetico’. Semplicemente si è deciso che tutte le patologie non causate da fattori patogeni esterni o infezioni, e la cui eziologia non sia di fatto conosciuta, le cosiddette patologie “primarie” o “essenziali”, devono avere una spiegazione o una causa genetica, riferibile ad un difetto genetico ereditario o acquisito. La formulazione più restrittiva di questo postulato identifica questo livello di causazione nel solo DNA codificante cioè nel 2 % circa dell’intero DNA – il resto essendo privo di significato secondo le attuali formulazioni della biologia. Si tratta di un assunzione aprioristica ovviamente ma, dato che in realtà tutti i “paradigmi scientifici” di fatto lo sono, non è questa la critica. Si tratta però di prendere coscienza del fatto che, nel solco di questo paradigma, la scienza ha di fatto fallito nel tentativo di cercare un modello causale del cancro. Del resto era già evidente che, malgrado la continua espansione delle conoscenze sui processi patogenetici di ogni singola linea tumorale, ogni tentativo di trovare un’interpretazione eziologica unitaria del cancro è miseramente fallito (l’ultima grande ipotesi generale, quella degli oncovirus e dell’origine infettiva del cancro, è stata abbandonata negli anni ’70, allorché si scoprì che molti degli stessi onco-geni virali erano già presenti nello stesso genoma umano probabilmente da migliaia di anni). In pratica, sebbene si conoscano con sufficiente dovizia di particolari i meccanismi patogenetici delle neoplasie, quelli eziologici ci sfuggono. La scienza, estremamente efficiente nell’andare verso l’analisi, si mostra molto in difficoltà nel trovare una formulazione sintetica – e di questo non c’è a stupirsi, in realtà. Così implicitamente, sulla base di un modello statistico, si ‘ripiega’ sul solito deus ex machina della mutazione spontanea. Che è sì una spiegazione, ma non lo è sino in fondo. Il primo ostacolo concettuale per cui questo modello esplicativo non è pienamente soddisfacente è che in realtà esso è anti-probabilistico. Si noti che gli autori parlano, forse un po’ per provocazione, di “cattiva fortuna” (bad luck, in inglese) e sulle implicazioni dell’uso di questo termine, che vanno assai oltre quello che gli stessi autori possono aver pensato coscientemente, tornerò più avanti.


  A ben guardare la dottrina della mutazione spontanea lascia sul campo delle grosse anomalie e quella relativa al cancro ne è una in più. La biologia evoluzionista usa questo argomento per giustificare l’emergenza di nuovi caratteri biologici, cosa in effetti reale ma di fatto osservata solo negli organismi più semplici o nei batteri, negli altri restando una mera ipotesi. Nella realtà non è così semplice far emergere una nuova caratteristica biologica: non basta una sola mutazione puntiforme, servono delle modificazioni in più punti di un gene per dar luogo “casualmente” ad una nuova proteina in grado di svolgere diversamente un certo compito biologico; se poi questa mutazione risultasse vantaggiosa evolutivamente diventerebbe stabile nel corso delle generazioni. Sta di fatto però che negli ultimi migliaia di anni non sono stati riscontrati dagli antropologi e dai biologi nuovi caratteri emergenti nella razza umana. Possiamo immaginare o anche osservare mutazioni del DNA ma non è in effetti stata osservata finora una mutazione spontanea in grado di determinare effetti macroscopici o l’emergenza di caratteri fenotipici innovativi nella razza umana (se si esclude ovviamente l’effetto teratogeno delle radiazioni ionizzanti ad altissima concentrazione come nelle zone colpite da catastrofi nucleari; si tratta in quel caso di mutazioni non spontanee né di condizioni presenti normalmente nella biosfera terrestre ma indotte artificialmente ed “estreme” rispetto all’omeostasi = equilibrio interno- dei sistemi viventi). Per il resto possiamo dire che non è statisticamente frequente osservare l’emergenza di nuovi caratteri fenotipici in organismi pluricellulari complessi, per effetto di “mutazioni spontanee”. Come può allora il cancro essere causato da queste mutazioni?
Si tenga conto che far emergere un tumore maligno non sarebbe poi così facile in termini genetici. A fronte di mutazioni che potrebbero avvenire in tutto il DNA codificante e potrebbero portare all’emergenza di nuovi caratteri genetici utili o meno (cosa che di fatto non avviene o almeno negli ultimi millenni non è avvenuta nella razza umana), l’insorgenza di un tumore potrebbe avvenire solo se la mutazione colpisse un gene onco-soppressore, di fatto inattivandolo, oppure attivando un gene pro-oncogeno, o meglio le due mutazioni insieme accumulate nello stesso gruppo di cellule. Ecco dove sta l’anomalia anti-probabilistica di questo approccio esplicativo. Non si spiega insomma l’alta diffusione dei tumori che compaiono in media in circa 12 milioni di individui l’anno e sono la principale causa di morte, insieme all’infarto, nella popolazione mondiale. Parafrasando il gergo usato dagli autori verrebbe da dire che la “sfortuna” ci vede allora benissimo! Gli scienziati tuttavia non sembrano preoccuparsi di questa anomalia. Eppure se un fenomeno è più frequente di un altro dovemmo supporre che vi sia una causa e cercare di individuarla. Un secondo ordine di riflessioni, anche più generali, può focalizzarsi sull’idea stessa di “caso” e di casualità, su quanto questa possa rientrare nel dominio dei fattori esplicativi di una scienza normale e su quanto ciò sia compatibile con il determinismo scientifico e con la nozione stessa di leggi naturali. In realtà ciò sarebbe una palese contraddizione del principio di ragion sufficiente che afferma: “Nihil est sine ratione”. Ovvero, non può sussistere nulla che non abbia una causa. Poiché però il caso viene fatto valere come una causa non-causa ciò crea delle difficoltà enormi, non solo sul piano concettuale in genere, ma anche su quello epistemologico e sull’idea stessa di “scienza”. Se il caso dovesse valere come ordine esplicativo e causale ciò vanificherebbe non solo la nozione generale di “leggi naturali” ma anche la possibilità stessa di scienza. In realtà la biologia, soprattutto in conseguenza dell’indirizzo ricevuto negli ultimi decenni dalle riflessioni filosofiche del premio Nobel J. Monod (autore del best seller “Il Caso e la Necessità”) ha accettato un’idea di “caso” antideterministica. Nel voler ricondurre l’evoluzione biologica a mutazioni spontanee e casuali ha di fatto posto le basi per una regressione anti-deterministica di sé stessa. Monod era seguace di un pensiero non solo laico-materialista ma dichiaratamente ateo. La necessità ideologica di escludere ogni causa finalistica dalla biologia ha portato ad accettare una nozione ‘massimalista’ del Caso, così radicale che per bandire l’idea di un “ordine divino” ha dovuto bandire l’esistenza stessa di un ordine tout court . Di fatto, per creare la propria metafisica materialista e farla collimare con  l’idea di ‘evoluzione’ ha dovuto postulare un universo anarchico che rende piuttosto problematico il fondamento della ricerca scientifica che presuppone l’esistenza di leggi universali, fondamento solo in parte recuperato con la nozione di Necessità che, nel pensiero di Monod, renderebbe stabili  – senza spiegare perché – le acquisizioni dell’evoluzione casuale. Sarebbe peraltro più corretto parlare di “invarianza” che di Necessità, ma anche qui ci si accorge che questa nozione è del tutto ridondante, dato che non impedisce la possibilità di nuove mutazioni: in sostanza è una “necessità” sempre pronta a convertirsi nel “caso” e dunque aleatoria. La nozione di “caso” sarebbe ancora compatibile con l’ammissione di leggi universali se queste leggi fossero deterministiche in senso statistico. Tale infatti è il caso della fisica che, a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, ha sviluppato una meccanica statistica capace di prevedere in modo deterministico il comportamento di popolazioni ma non di singole particelle, come in termodinamica e successivamente nella fisica quantistica. Di ben diversa portata è quindi la nozione di ‘casualità’ nella fisica quantistica che formula ancora leggi deterministiche, sia pur ammettendo l’indeterminazione sullo stato di singole entità-particelle. Sebbene vi siano diverse interpretazioni filosofiche sul senso che ha il ‘caso’ in meccanica quantistica possiamo dire che per essa il Caso è ancora una misura legittima della nostra ignoranza, compatibile con la nozione di Ordine e con l’esistenza di leggi predittive, sebbene in una forma del tutto nuova per la conoscenza umana (leggi statistiche non individuali). La nozione “biologica” di Caso invece non ha gli stessi presupposti: i biologi che l’hanno sviluppata erano prevalentemente atei dichiarati, mentre i grandi fisici del XX secolo non lo erano ed avevano tutti in qualche modo dimostrato un profondo interesse per le questioni metafisiche ed una sensibilità quasi religiosa verso i problemi cosmologici. La nozione di “caso” in biologia è stata impiegata per escludere ogni finalismo ed ogni programma di ricerca o approccio metodologico che postulasse un paradigma finalistico. I biologi tendono anzi a rigettare il paradigma del “Disegno intelligente” addirittura come “pseudoscientifico”. È pur vero che sono dei biologi quelli che oggi sostengono una concezione finalistica della vita (pur senza aderire al “disegno intelligente” ingenuo in chiave teistica), parliamo di personalità come James Lovelock o il biochimico R. Sheldrake. Tuttavia la loro posizione è fortemente censurata dalla biologia ufficiale. Questa contrapposizione di sensibilità e di approccio fra fisica moderna e biologia si riscontra anche nel fatto che in generale i fisici non hanno nessun problema ad ammettere il postulato cosmologico detto Principio antropico, mentre questo viene accolto con una certa riluttanza dai biologi, dato che sembra sottendere l’idea di finalismo.


 La nozione di “casualità” come presupposta dalla biologia nega implicitamente qualsiasi programma di ricerca che implichi leggi generali dell’evoluzione, o una linea di sviluppo ed un ‘senso’ retto da un ordine nell’evoluzione. Cioè in ultima analisi non si vuole supporre l’esistenza leggi universali che guidano od “orientano” in qualche modo l’evoluzione.  Non c’è da stupirsi se questi presupposti hanno portato ad una ridondanza dei dati nel senso dell’analisi e ad una scarsa, se non nulla, convergenza nel senso della sintesi. Non solo manca una teoria unificatrice delle attuali conoscenze biologiche ma manca una comprensione generale dell’evoluzione e delle sue “leggi” tuttora non solo ignote, ma neppure postulate dalla biologia. La fisica quantistica non ha avuto questi problemi perché ha sviluppato un paradigma che pur lasciando l’indeterminazione sul singolo ha formulato leggi deterministico-probabilistiche sulle popolazioni. Vale la pena ricordare che mentre la fisica si è evoluta scrollandosi le concezioni meccanicistiche sette-ottocentesche della fisica classica, la biologia e la medicina sono ancora fortemente ottocentesche come visione di fondo, essendo ancorate ad una filosofia della natura che era quella positivistico-darwiniana. A parte il grande sviluppo di conoscenze acquisite, quanto a visione d’insieme la biologia attuale è un vero fossile vivente rispetto alla fisica e alla cosmologia, e in quanto a leggi generali essa non è andata molto avanti rispetto all’idea (a predittività 0) di “mutazioni casuali”. In biologia il Caso non è “la misura della nostra ignoranza” ma la cifra stessa dell’ignoranza e dell’incapacità di pensare leggi generali esplicative e predittive! Sarebbe il caso di cominciare a chiedersi cosa siano questi fenomeni (mutazioni) casuali, o più propriamente per noi apparentemente “casuali”. E di pensare se certi fenomeni casuali non siano retti da proprie “leggi”. Anche qui ci viene in aiuto, se non la fisica quantistica, almeno un certo suo presupposto metafisico. Come si sa è stato proprio un fisico quantistico, W. Pauli, a collaborare con C.G. Jung alla sistematizzazione rigorosa del Principio di Sincronicità. La Sincronicità é un principio in grado di permettere la comprensione di un ordine nei processi a-causali, cioè non deterministici, e dunque di far intravedere una legge, o un principio ordinatore sui generis, nei processi regolati dal caso. Una cosmologia inclusiva del Principio di Sincronicità sarebbe anche in grado di  conciliare il determinismo con la libertà, senza che questa significhi mancanza di una Legge ordinatrice. La nozione di sincronicità, soprattutto se “spiegata” in termini di risonanza morfica, può svolgere questo ruolo paradigmatico per un nuovo tipo di ricerca, volta ad indagare i principi ordinativi anche dietro la trama dei processi casuali e spontanei. Per arrivare a ciò occorre però quel mutamento concettuale e “coscienziale” del mondo scientifico che ho auspicato in un mio precedente articolo, e che è ancora molto lontano. Del resto se analizziamo l’espressione usata da Vogelstein e Tomasetti notiamo che essi parlano espressamente di fortuna (ingl. luck). Sicuramente hanno voluto giocare con una sorta di provocazione, dato che il termine da loro impiegato appartiene al linguaggio ordinario e al senso comune, ma non certamente al dominio scientifico. Il fatto che lo abbiano usato può però essere segnale di qualcosa di più…di un non voluto “lapsus freudiano” degli estensori dell’articolo che sono stati portati, forse dal loro inconscio, ad esprimere più di quello che rientra nei limiti semantici della parola “caso”. La Fortuna non è esattamente il “caso”, ed ha una portata metafisica maggiore. La Fortuna per gli Antichi era il principio metafisico che regolava le distribuzioni casuali, era dunque esattamente la stessa idea, esposta sopra, di ‘principio ordinatore’ dei fatti o variazioni casuali. Nella concezione degli antichi e nelle cosmologie tradizionali vi erano “forze”, collettivamente dette Fortuna, che regolavano fatti di ordine inferiore e anche gli spazi lasciati vuoti dal Destino (o Fato) che potremmo invece correlare alla nozione di Necessità, il cui riflesso analogico vediamo in atto nelle “leggi naturali”. La nozione di Fortuna non è un concetto banalmente neutrale; essa presuppone anzi – come anche l’idea junghiana di Sincronicità- un tropismo e una “direzionalità” di tipo psicologico e psichico (presenti nella definizione stessa di sincronicità), come è evidente anche dal fatto che essa può essere ‘buona’ o ‘cattiva’. Retti dalla Fortuna, i fenomeni “casuali” sarebbero saturabili di significati psichici, diventerebbero dei fatti sincronici.  Si è trattato probabilmente di una semplice provocazione degli Autori, tuttavia è un pericoloso autogol per la scienza riduzionistico-materialistica. Se si fossero limitati a parlare di “caso” non sarebbe stato così, ma scivolando sul termine “fortuna” ( che poi rimanda all’altro polo: quello di “destino”) essi non sono andati molto lontano dall’incappare nozione etico-metafisica del karma! È immaginabile che forse la scienza si stia di nuovo avvicinando al limite di cui ho parlato nel mio articolo precedentemente citato? Mi limito a prendere prendere atto di pochi dati essenziali: una teoria generale sulla de-differenziazione cellulare neoplastica non esiste (non sappiamo a quale ‘programma biologico‘ corrisponda il tumore).
I fattori deterministici sinora noti come sue cause sono stati fortemente ridimensionati da uno studio di meta-analisi. L’insorgenza di gran parte dei tumori ha una frequenza correlabile a quella della divisione cellulare (più una cellula si divide più rischia di sbagliare nel replicare il DNA).
Ciò implicherebbe che la causa ultima delle neoplasie sarebbero le mutazioni spontanee, sebbene in realtà questo vada ad impattare con una anomalia di non poco conto: come mai le mutazioni spontanee causano così frequenti tumori, ma non hanno finora causato l’apparire di altre nuove caratteristiche fenotipiche, che dovrebbero essere alla base della selezione evolutiva, ma di cui finora non è stato mai osservato e registrato un solo caso negli organismi superiori? Perché i nostri programmi biologici trovano più facile autodistruggerci che non far emergere nuove caratteristiche evolutive?
Il fatto che gli Autori abbiano impiegato un termine denso di significati etico-metafisici potrebbe aggiungere un elemento di riflessione in più, circa l’avvicinamento ad un limite critico. Ultimerei questa serie di riflessioni passando a critiche molto più concrete, osservando che purtroppo al momento la ricerca accademica non ha mai programmato esperimenti per osservare la correlazione fra insorgenza dei tumori ed eventi traumatici o esperienze psicologicamente stressanti del tipo di quelli ipotizzati come cause di tumori nella Nuova Medicina dal dr. Ryke Hamer. Eppure si tratterebbe di processi ed eventi facilmente “parametrizzabili” e controllabili; inoltre le cinque leggi biologiche ipotizzate nella Nuova Medicina da Hamer sono leggi del tutto scientifiche perché controllabili, postulano relazioni di tipo esclusivamente fisico di interazione psico-somatica e non coinvolgono concetti non ammessi dalla scienza quali ad esempio quelli di “energie sottili”. I biologi tuttavia non riescono a pensare nulla al di fuori dello schema mutazioneDNA-tumori o fattori di rischio-tumori. I fattori psicologici non sono neppure presi in esame per delle ricerche statistiche eppure: la correlazione psiche-soma sembra normalmente accettata persino dalla medicina ufficiale dopo che la correlazione è stata spiegata in termini PNEI (psico-neuroendocrino-immunologia)
La particolare formulazione delle leggi di Hamer rende facilmente oggettivabili i traumi psicologici riconducendoli a semplici e circostanziati “eventi”, e dunque facilmente manovrabili in termini di parametrizzazione statistica. Malgrado ciò nessuno studio statistico finora ha voluto includere gli aspetti psicologici fra i fattori di rischio. La biologia – e in questo anche la ricerca oncologica – si trova indietro di decenni rispetto sia al sentire comune, sia alla sensibilità generale di buona parte dell’umanità, ed anche all’esperienza clinica non solo di coloro che praticano la “medicina alternativa” o “non convenzionale” ma anche i tanti medici che hanno ormai compreso ed accettato il modello psicosomatico. Gli studi clinici tuttavia restano ancora al paradigma biologico-molecolare e meccanicista, restringendo così il campo di ricerca ad un livello di complessità inferiore a quello in cui andrebbe condotta una ricerca di natura psico-somatica.
E se le mutazioni spontanee fossero non esattamente casuali e correlate non a delle semplici  “fluttuazioni statistiche” imputabili a errori meccanici delle DNA-polimerasi ma agli eventi traumatici o agli stati psichici dei pazienti? Se ci fosse una correlazione sincronica fra quei fenomeni “casuali” e i processi psichici, ad esempio secondo un modello di “risonanza morfica” fra il campo psichico dell’organismo umano e l’attività di proteine ed enzimi? In un altro mio articolo su epigenetica e campi morfici avevo sintetizzato alcuni argomenti che sosterrebbero l’ipotesi di una genetica (ed epigenetica) funzionante anche secondo la nozione ‘complessa’ di risonanza morfica e non solo secondo meccanismi meccanicistici oggi ammessi dalla biologia molecolare.

Fintanto che la scienza medica e la biologia non si apriranno a un dimensione di “complessità” in più ( il concetto di complessità è già un paradigma scientifico per la fisica), lo scollamento fra gli studi e l’esperienza clinica di chi opera con la medicina psicosomatica, ed anche fra il sentire collettivo dell’umanità che sta sviluppandosi , da un lato, e dall’altro un mondo di ricercatori accademici sempre più autoreferenziali  diventerà sempre più grande, e forse continuerà a confermare lo ‘stallo’ che uno studio come questo ha rivelato.


Bibliografia

Johns Hopkins Medicine. (2015, January 1). ‘Bad luck’ of random mutations play predominant role in cancer, study shows. Science Daily. Retrieved January 11, 2015 from http://www.sciencedaily.com/releases/2015/01/150101142318.htm
Tomasetti, C., & Vogelstein, B. (2014). Variation in cancer risk among tissues can be explained by the number of stem cell divisions. Science,347(6217), 78-81. Retrieved January 11, 2015, from http://www.sciencemag.org/content/347/6217/78.full
Bad Luck of Random Mutations Plays Predominant Role in Cancer, Study Shows. (2015, January 7). Johns Hopkins Medicine News and Publications. Retrieved January 11, 2015.
J. Monod,  “Il Caso e la Necessità”, Mondadori, 1970.
W.Pauli, C.G. Jung, “Psiche e Natura”, Adelphi,2006.


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