L'UCCISIONE DELLA SCUOLA ...OVVERO DELLA CULTURA E DELLA CONSAPEVOLEZZA.
E PROPRIO IN QUESTI GIORNI, IL TRAGICOMICO GOVERNO RENZI, STA CHIUDENDO CON UNA LAPIDE MUTA IL SEPOLCRO DELLA CULTURA ITALIANA.
MLR
Chi ha
ucciso il liceo classico?
di
Adolfo Scotto - Roberto I. Zanini
Fonte:
Avvenire
Tutto
è cominciato
quando hanno ucciso il liceo classico; quando si è
cominciato a pensare che il principale compito della scuola fosse di
fornire uno sbocco lavorativo ai giovani e, di seguito, quando si è pensato che la
scuola dovesse essere pensata in funzione delle esigenze dei giovani, dei loro
gusti, delle loro aspettative. È
l’immagine del fallimento del sistema scolastico
italiano che emerge leggendo "La scuola che vorrei"(Bruno Mondadori, pp. 122, ), l’ultimo libro di Adolfo Scotto di Luzio, docente
di Storia della Pedagogia all’Università di Bergamo,
nonché esperto
dei problemi della scuola e dell’insegnamento. E non si tratta di un semplice
grido d’allarme. È
come se si dicesse che l’intero sistema culturale e formativo italiano è all’ultima spiaggia e se non si cambia registro c’è il più che probabile
rischio del fallimento totale della nostra società civile.
Eppure
sono decenni che si parla di riforma...
«Ed è giunto
il momento di sfatare questo mito così
per come si è costituito.
A partire dagli anni ’60 si è
cominciata a diffondere l’idea che la scuola fosse in crisi. Un’idea di crisi permanente che è
stato l’espediente per smantellare le buone basi sulle
quali si era retta la scuola e che si erano andate formando fra l’unità d’Italia e la Riforma Gentile».
Smantellare?
«Sì.
Un vero e proprio sovvertimento progressivo, tanto che la scuola oggi è caduta in una
crisi di senso, che mette in gioco la sua essenziale funzione politica e civile».
Ma qual è il ruolo della scuola nella società?
«Ciò che
conta non è il
ruolo nella società, ma la sua funzione politica e civile. La scuola
è chiamata ad
assolvere un ruolo nel progetto di costruzione della comunità politica».
Può essere più esplicito?
«La scuola deve saper porre le basi della convivenza civile, del
nostro essere comunità. Invece si pensa che la scuola serva ad
assecondare gli interessi dei singoli, le loro ambizioni di carriera e di
guadagno economico creando sbocchi di lavoro. Ma se non c’è la scuola non c’è la nazione e
viceversa».
Vuol
dire che se il suo obiettivo diventa creare sbocchi di lavoro la scuola
fallisce?
«Bisogna distinguere due aspetti. Ogni singolo studente va a scuola
perché persegue
interessi personali. Ma la scuola non può
essere pensata per quegli interessi perché
altrimenti perde il suo ruolo di istituzione essenziale che ha a che
fare con le ragioni della Polis. Compito della scuola è di educare la
persona attraverso la cultura».
In
una società come la nostra se ne è perso il
significato: cosa significa educare?
«Significa formare la persona, nutrirne la personalità, dare la capacità al giovane di stare autonomamente nel mondo,
educandolo al giudizio, cioè
a quella capacità che ci permette di distinguere fra ciò che è bello e meritevole
della nostra ammirazione e ciò
che deve essere senz’altro rifiutato».
Il
relativismo dominante impedisce un simile approccio.
«Se nessuno ha più
il coraggio di dire quali sono i valori che contano tutto diventa
relativo. Ma possiamo senz’altro affermare che la scuola italiana è stata capace di
assolvere alla sua funzione fino a quando si è
fondata sulla cultura umanistica».
Perso
quel punto di riferimento si è
persa anche la scuola?
«Una crisi che è
cominciata negli anni ’60 e si è
acuita con la crisi della Repubblica degli anni ’90,
quando sono state messe in discussione le basi culturali della Repubblica
tirandosi dietro le eredità che ci venivano dal passato».
Lei
scrive che bisogna liberare la scuola dalla tirannia dei giovani.
«In questo Paese i giovani sono diventati un pretesto, un artificio
retorico. Ma l’idea che la scuola si debba costruire sulle
preferenze dei giovani, su ciò
che piace a loro è
un vero assurdo che si è
trasformato nel pregiudizio ideologico della scuola aperta al nuovo,
alla tecnologia. Ma in questo modo non fa che aggravare la sua crisi, perché abdica dalla sua
funzione educativa. I giovani vanno educati e sono gli adulti gli unici
abilitati a educare».
Ma la
crisi educativa parte proprio dall’incapacità di almeno un paio di generazioni di adulti di assolvere a questo
ruolo.
«Ed è
giunto il momento che gli adulti si assumano la responsabilità della loro crisi culturale, che è
spaventosa. Quando si parla di scuola non è
in gioco un ingranaggio burocratico, una tecnica pedagogica da mettere a
punto, ma occorre partire da una seria riflessione su cosa significhi essere
italiani e su cosa significhi educare giovani italiani».
Insomma,
manca un progetto culturale.
«Abbiamo mortificato il liceo classico che era il fiore all’occhiello del nostro sistema scolastico e sono nati tanti licei con
percorsi di studio sempre più
generici. Abbiamo abolito la scuola di eccellenza sostituendola con un’idea vaga e patetica di licealità. Il liceo
classico era il frutto di un’idea di scuola alla quale avevano contribuito sia
l’identità laica e liberale che l’identità cattolica; un’idea di scuola che garantiva che le élite del Paese si
potessero formare sul piano della scuola pubblica e allo stesso tempo
consentiva a chiunque non avesse altra ricchezza che il proprio talento di
frequentare una scuola di qualità. La falsa ideologia democratica che ha guidato
le riforme degli ultimi trent’anni ha tolto ai poveri una scuola di grande
valore autorizzando i ricchi a comprarsi la scuola migliore. E il discorso
sulla meritocrazia non ha alcun senso perché
non ci sono i luoghi dove applicarla, non ci sono i contenuti. Gli
stessi docenti venendo da un simile percorso depotenziato finiscono per
aggravare la situazione. È
il risultato paradossale di un Paese che ha demolito il proprio sistema
di istruzione. La riprova sono i flussi scolastici con sempre più giovani del Sud
che vanno a scuola e all’università al Nord e i giovani del Nord che se possono
vanno all’estero».
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