A volte mi sento un esule
in patria, altre volte mi sento proprio uno straniero.
Anzi, a pensarci bene ormai
mi sento davvero senza patria.
Quello che vedo e sento
tutti i santi giorni, riguardo l'andamento generale di questa disgraziata,
bellissima e dannata nazione, mi disgusta ed angoscia allo stesso tempo.
Trovo un lieve conforto,
quasi come una dose di morfina per un
malato terminale di cancro, aprire i
post di Sergio Di Cori Modigliani, il mentore o meglio la "guida spirituale" (mi si passi il termine) di tutti coloro che si sentono così:
un po' esuli un po' disperati, un po' profughi.
Leggendolo, mi sono commosso e
rincuorato; mi sono adirato ma anche rappacificato con me stesso e con parte
degli “altri”.
Ho avuto modo di conoscere
ed apprezzare sempre di più
il pensiero e quindi la persona di questo “criptide”
(= specie di cui si ipotizza l’esistenza
solo attraverso prove circostanziali; oppure di specie che sono estinte, ma di
cui ci siano stati alcuni supposti avvistamenti) del giornalismo e della cultura italiana, per questo voglio
condividerlo con chi sente il bisogno, come me, di dissetarsi alle “fonti della memoria”
per restare vivo…almeno
dentro.
Buona lettura.
MLR
La grande eredità per i
giovani italiani di oggi.
di Sergio Di Cori Modigliani
Venti anni fa moriva Federico Fellini.
La solita Italia ipocrita -la Rai in testa- oggi, si esibisce
con la sua consueta cinica trasformazione doppiogiochista nel celebrare un
grandioso artista italiano che loro hanno scelto di uccidere.
Perchè così è stato.
Bando agli equivoci, Federico Fellini è morto
di un malefico cancro cattivo che in poco tempo se l'è
mangiato vivo. Ma Giulietta Masina, la fedele compagna di tutta la sua vita,
non aveva alcun dubbio al riguardo "glie lo hanno fatto venire loro, che
siano maledetti tutti per l'eternità", così
parlava dei dirigenti della Rai e dei produttori italiani degli inizi anni'90
quando l'Italia, ormai, aveva imboccato la strada che l'avrebbe portata a
diventare ciò che oggi è.
Perchè negli ultimi anni della sua
esistenza, gli avevano fatto il vuoto intorno. I comunisti non gli perdonavano
il fatto che si era sempre rifiutato di schierarsi con loro. I fascisti non gli
perdonavano il fatto che avesse descritto l'antropologia della borghesia
italiana come un composto di becerume, mascalzonaggine e codardia esistenziale
e la Chiesa, infine, non gli perdonava il fatto che li avesse dileggiati
mostrando i vertici gerarchici come una banda di finanzieri edonisti e avidi
(nella celeberrima sequenza del film "Roma" in cui racconta
visivamente la sfilata di moda degli opulenti cardinali che spendono cifre
vertiginose per acquistare mantelline di lussuoso ermellino); anche i radicali
non gli perdonavano il fatto che si fosse rifiutato di appoggiarli. Pannella
aveva fatto carte false per portarselo dalla sua parte, costringendo Leonardo
Sciascia a raccomandarlo. Alla fine, Fellini -che non ne poteva più-
telefonò a Pannella e gli disse: "Senta Pannella, che cosa se
ne fa lei di un artista? A me non interessano proprio le sue cialtronerie da
basso impero, abbia pazienza, che cosa vuole da me?". Detestava tutti i
politici.
E' l'unico artista italiano, negli ultimi 100 anni, che si è
rifiutato (e ci è riuscito) di mettersi al servizio di
un potente, di un partito, di un raggruppamento, sostenendo questo o quello.
E' stato il regista più premiato e riconosciuto al mondo
nell'intera Storia del cinema, l'unico ad aver vinto ben cinque premi Oscar
insieme alla palma d'oro a Cannes e Venezia nello stesso anno. Ha vinto tutto ciò che
si poteva vincere, ed è tuttora considerato un grande maestro
di questa bellissima arte cinetica.
Ha trascorso gli ultimi anni della sua vita a fare anticamera
nei corridoi della Rai e in quelli della Pentafilm di Berlusconi. Nessuno
voleva più finanziarlo. "Il cinema italiano e il gusto del
pubblico sono cambiati" gli dicevano.
Si è visto.
Ce ne siamo accorti.
Nel 1992, quando era già malato, la moglie telefonò
al più famoso produttore cinematografico italiano, Dino de
Laurentiis, che si era trasferito da molti anni a Los Angeles. Erano sempre
stati molto amici, gli aveva prodotto quattro film. "Dino, Federico sta
morendo, ha ormai poco tempo da vivere" gli disse. Gli chiese,
implorandolo, di spendere tutte le sue conoscenze e il suo potere per fargli
avere il premio alla carriera organizzandogli una grande festa a Hollywood
"per farlo morire bene, perchè senta che non è stato
dimenticato, qui in Italia nessuno gli rivolge più la parola". In quegli anni,
infatti, nessuno osava neppure intervistarlo in seguito a una sua precisa
posizione riguardo la televisione italiana che aveva attaccato frontalmente,
sostenendo che avrebbe distrutto l'industria cinematografica nazionale.
E su di lui, l'intera classe dirigente politica -nessuno
escluso- aveva imposto la stesura del silenzio.
Ho avuto occasione di conoscerlo proprio in quell'occasione, a
Hollywood, nella primavera del 1993, dove lavoravo come corrispondente per i
quotidiani italiani e mi occupavo di cinema, quando era venuto a ritirare il
premio. De Laurentiis, infatti, era riuscito a convincere gli americani a
darglielo.
Era molto provato, stanco, si capiva che era molto malato.
E' stata la conferenza stampa più strana e indimenticabile alla quale
abbia mai partecipato.
Giulietta Masina non faceva che piangere. De Laurentiis si dava
dei pugni sulla testa dicendo di continuo "è tutta colpa mia". mentre Fellini
cercava di calmarlo. A un certo punto, prima che noi giornalisti cominciassimo
a fare delle domande, si erano aperte le porte e alla spicciolata, uno per uno,
a sorpresa, entrarono tutte le grandi star del cinema che il suo amico aveva
convinto a venire per omaggiarlo. Ciascuno portava un regalo, impacchettato in
maniera eclatante, con colori luccicanti, fiocchi di raso, brillantini, come se
fosse Natale, un'americanata insomma: ciò che Fellini adorava.
I giornalisti americani approfittarono per fare delle domande a
loro. Ricordo che Spielberg, rispondendo alla domanda se lo considerasse un
regista importante, rispose che "forse potrei fare il cameriere a casa
sua, io sono soltanto un professionista americano che ha avuto successo, tutto
qui, Fellini è qualcosa che va al di là,
o uno lo capisce oppure non lo capisce, nei miei film non c'è
niente da capire". Fellini era entusiasta di quella improvvisata, si
divertiva a spacchettare i regali abbracciando tutti. Quello che gli piacque di
più fu quello che gli portarono Robert Redford e Paul Newman:
un paio di stivali da cowboy che Redford aveva indossato nel film "Butch
Cassidy" un western cult della metà degli anni'60 che Fellini aveva molto
amato. Insistè per infilarli subito e non se li
tolse per tutta la sera. C'era un numero talmente grande di star che nessun
giornalista osò neppure fare una domanda. Stavamo
tutti lì in silenzio ad ascoltare Fellini che parlava con questi
attori, registi, produttori, come se non ci fosse nessun altro.
Una settimana dopo, quando era già ritornato in Italia, la CBS mandò
in onda una intervista in esclusiva che Fellini aveva rilasciato a una famosa
giornalista americana, della durata di un'ora e mezzo. Ebbe un tale successo
che venne acquistata da circa 1500 canali televisivi e poi mandata in onda nei
giorni successivi. A Los Angeles e New York due cinema, per un mese e mezzo di
seguito, proiettarono tutti i suoi film.
Ricordo che allora si parlava soltanto della Bella Italia, della
capacità immaginifica di questo popolo, ma soprattutto della
consapevolezza degli artisti italiani nell'essere in grado di saper sempre
raccontare se stessi -e l'intera società- con una profondità
leggera davvero ipnotizzante. Il made in Italy ebbe una gigantesca spinta da
questo evento. Fellini raccontò diversi episodi della sua carriera e
della vita italiana, spiegando che la grandezza dell'Italia dal punto di vista
artistico e culturale era arrivata al suo zenit e si era inceppata "noi
italiani siamo arrivati al limite della nostra frontiera, ma temo che il paese
non sarà in grado di oltrepassare quella linea e sceglierà
invece di ritornare indietro, già se ne vedono i segni
allarmanti".
Questa mattina mi sono svegliato e ho pensato che tutti gli
italiani che hanno meno di 40 anni non sono mai andati al cinema a vedere un
film di Fellini appena uscito.
Non sanno, quindi, che cosa volesse dire.
Se qualcuno mi chiedesse di sceglierne uno tra tutti, da vedere
subito, suggerirei "Fellini 8 e 1/2" il suo nono film, quello che
giustamente è considerato all'unanimità
la sua prova migliore.
Era un'Italia in cui gli scrittori e i registi e gli
intellettuali si interrogavano su se stessi e sulle relazioni d'amore, di
amicizia, sulla qualità della vita, riuscendo sempre a
scandagliare il vero nocciolo del problema.
Era un'Italia soprattutto viva, non ancora soggetta al pizzo
della politica, quando gli italiani erano ancora curiosi.
Riappropriarsi della sua eredità visiva narrativa mi sembra sia il
modo migliore per cominciare a ritrovare quel gusto spericolato nell'andare a
cercare il bandolo della matassa.
Alla ricerca del Senso esistenziale dell'essere italiani, al di
là delle solite chiacchiere ormai consunte su tutto ciò
di noi, che sappiamo, che conosciamo, che vediamo ogni giorno.
E' necessario andare al di là.
Come nella scena iniziale di "Fellini 8 e 1/2" quando
il protagonista (Marcello Mastroianni) si trova imprigionato dentro
un'automobile, incastrata in un ingorgo, ed esce dal finestrino tirato per i
piedi da una lunghissima corda infinita.
E lieve come un palloncino si libra nell'aria e si perde tra le
nuvole.
Per ritornare a credere che si possa davvero, ancora oggi, riuscire
a volare.
Un tempo lo facevamo.
Vuol dire che è possibile farlo di nuovo.
In memoriam
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