lunedì 4 novembre 2013

"La grande eredità per i giovani italiani di oggi": in memoria di FEDERICO FELLINI


A volte mi sento un esule in patria, altre volte mi sento proprio uno straniero.
Anzi, a pensarci bene ormai mi sento davvero senza patria.
Quello che vedo e sento tutti i santi giorni, riguardo l'andamento generale di questa disgraziata, bellissima e dannata nazione, mi disgusta ed angoscia allo stesso tempo.
Trovo un lieve conforto, quasi come  una dose di morfina per un malato terminale di cancro, aprire  i post di Sergio Di Cori Modigliani, il mentore o meglio la "guida spirituale" (mi si passi il termine)  di tutti coloro che si sentono così: un po' esuli un po' disperati, un po' profughi.
Leggendolo, mi sono commosso e rincuorato; mi sono adirato ma anche rappacificato con me stesso e con parte degli altri”.
Ho avuto modo di conoscere ed apprezzare sempre di più il pensiero e quindi la persona di questo criptide (= specie di cui si ipotizza lesistenza solo attraverso prove circostanziali; oppure di specie che sono estinte, ma di cui ci siano stati alcuni supposti avvistamenti) del giornalismo e della cultura italiana, per questo voglio condividerlo con chi sente il bisogno, come me,  di dissetarsi alle fonti della memoria per restare vivoalmeno dentro.

 Buona lettura.

MLR





La grande eredità per i giovani italiani di oggi.


di Sergio Di Cori Modigliani

Venti anni fa moriva Federico Fellini.

La solita Italia ipocrita -la Rai in testa- oggi, si esibisce con la sua consueta cinica trasformazione doppiogiochista nel celebrare un grandioso artista italiano che loro hanno scelto di uccidere.
Perchè così è stato.
Bando agli equivoci, Federico Fellini è morto di un malefico cancro cattivo che in poco tempo se l'è mangiato vivo. Ma Giulietta Masina, la fedele compagna di tutta la sua vita, non aveva alcun dubbio al riguardo "glie lo hanno fatto venire loro, che siano maledetti tutti per l'eternità", così parlava dei dirigenti della Rai e dei produttori italiani degli inizi anni'90 quando l'Italia, ormai, aveva imboccato la strada che l'avrebbe portata a diventare ciò che oggi è.
Perchè negli ultimi anni della sua esistenza, gli avevano fatto il vuoto intorno. I comunisti non gli perdonavano il fatto che si era sempre rifiutato di schierarsi con loro. I fascisti non gli perdonavano il fatto che avesse descritto l'antropologia della borghesia italiana come un composto di becerume, mascalzonaggine e codardia esistenziale e la Chiesa, infine, non gli perdonava il fatto che li avesse dileggiati mostrando i vertici gerarchici come una banda di finanzieri edonisti e avidi (nella celeberrima sequenza del film "Roma" in cui racconta visivamente la sfilata di moda degli opulenti cardinali che spendono cifre vertiginose per acquistare mantelline di lussuoso ermellino); anche i radicali non gli perdonavano il fatto che si fosse rifiutato di appoggiarli. Pannella aveva fatto carte false per portarselo dalla sua parte, costringendo Leonardo Sciascia a raccomandarlo. Alla fine, Fellini -che non ne poteva più- telefonò a Pannella e gli disse: "Senta Pannella, che cosa se ne fa lei di un artista? A me non interessano proprio le sue cialtronerie da basso impero, abbia pazienza, che cosa vuole da me?". Detestava tutti i politici.
E' l'unico artista italiano, negli ultimi 100 anni, che si è rifiutato (e ci è riuscito) di mettersi al servizio di un potente, di un partito, di un raggruppamento, sostenendo questo o quello.
E' stato il regista più premiato e riconosciuto al mondo nell'intera Storia del cinema, l'unico ad aver vinto ben cinque premi Oscar insieme alla palma d'oro a Cannes e Venezia nello stesso anno.  Ha vinto tutto ciò che si poteva vincere, ed è tuttora considerato un grande maestro di questa bellissima arte cinetica.
Ha trascorso gli ultimi anni della sua vita a fare anticamera nei corridoi della Rai e in quelli della Pentafilm di Berlusconi. Nessuno voleva più finanziarlo. "Il cinema italiano e il gusto del pubblico sono cambiati" gli dicevano.
Si è visto.
Ce ne siamo accorti.
Nel 1992, quando era già malato, la moglie telefonò al più famoso produttore cinematografico italiano, Dino de Laurentiis, che si era trasferito da molti anni a Los Angeles. Erano sempre stati molto amici, gli aveva prodotto quattro film. "Dino, Federico sta morendo, ha ormai poco tempo da vivere" gli disse. Gli chiese, implorandolo, di spendere tutte le sue conoscenze e il suo potere per fargli avere il premio alla carriera organizzandogli una grande festa a Hollywood "per farlo morire bene, perchè senta che non è stato dimenticato, qui in Italia nessuno gli rivolge più la parola". In quegli anni, infatti, nessuno osava neppure intervistarlo in seguito a una sua precisa posizione riguardo la televisione italiana che aveva attaccato frontalmente, sostenendo che avrebbe distrutto l'industria cinematografica nazionale.
E su di lui, l'intera classe dirigente politica -nessuno escluso- aveva imposto la stesura del silenzio.
Ho avuto occasione di conoscerlo proprio in quell'occasione, a Hollywood, nella primavera del 1993, dove lavoravo come corrispondente per i quotidiani italiani e mi occupavo di cinema, quando era venuto a ritirare il premio. De Laurentiis, infatti, era riuscito a convincere gli americani a darglielo.
Era molto provato, stanco, si capiva che era molto malato.
E' stata la conferenza stampa più strana e indimenticabile alla quale abbia mai partecipato.
Giulietta Masina non faceva che piangere. De Laurentiis si dava dei pugni sulla testa dicendo di continuo "è tutta colpa mia". mentre Fellini cercava di calmarlo. A un certo punto, prima che noi giornalisti cominciassimo a fare delle domande, si erano aperte le porte e alla spicciolata, uno per uno, a sorpresa, entrarono tutte le grandi star del cinema che il suo amico aveva convinto a venire per omaggiarlo. Ciascuno portava un regalo, impacchettato in maniera eclatante, con colori luccicanti, fiocchi di raso, brillantini, come se fosse Natale, un'americanata insomma: ciò che Fellini adorava.
I giornalisti americani approfittarono per fare delle domande a loro. Ricordo che Spielberg, rispondendo alla domanda se lo considerasse un regista importante, rispose che "forse potrei fare il cameriere a casa sua, io sono soltanto un professionista americano che ha avuto successo, tutto qui, Fellini è qualcosa che va al di là, o uno lo capisce oppure non lo capisce, nei miei film non c'è niente da capire". Fellini era entusiasta di quella improvvisata, si divertiva a spacchettare i regali abbracciando tutti. Quello che gli piacque di più fu quello che gli portarono Robert Redford e Paul Newman: un paio di stivali da cowboy che Redford aveva indossato nel film "Butch Cassidy" un western cult della metà degli anni'60 che Fellini aveva molto amato. Insistè per infilarli subito e non se li tolse per tutta la sera. C'era un numero talmente grande di star che nessun giornalista osò neppure fare una domanda. Stavamo tutti lì in silenzio ad ascoltare Fellini che parlava con questi attori, registi, produttori, come se non ci fosse nessun altro.
Una settimana dopo, quando era già ritornato in Italia, la CBS mandò in onda una intervista in esclusiva che Fellini aveva rilasciato a una famosa giornalista americana, della durata di un'ora e mezzo. Ebbe un tale successo che venne acquistata da circa 1500 canali televisivi e poi mandata in onda nei giorni successivi. A Los Angeles e New York due cinema, per un mese e mezzo di seguito, proiettarono tutti i suoi film.
Ricordo che allora si parlava soltanto della Bella Italia, della capacità immaginifica di questo popolo, ma soprattutto della consapevolezza degli artisti italiani nell'essere in grado di saper sempre raccontare se stessi -e l'intera società- con una profondità leggera davvero ipnotizzante. Il made in Italy ebbe una gigantesca spinta da questo evento. Fellini raccontò diversi episodi della sua carriera e della vita italiana, spiegando che la grandezza dell'Italia dal punto di vista artistico e culturale era arrivata al suo zenit e si era inceppata "noi italiani siamo arrivati al limite della nostra frontiera, ma temo che il paese non sarà in grado di oltrepassare quella linea e sceglierà invece di ritornare indietro, già se ne vedono i segni allarmanti".
Questa mattina mi sono svegliato e ho pensato che tutti gli italiani che hanno meno di 40 anni non sono mai andati al cinema a vedere un film di Fellini appena uscito.
Non sanno, quindi, che cosa volesse dire.
Se qualcuno mi chiedesse di sceglierne uno tra tutti, da vedere subito, suggerirei "Fellini 8 e 1/2" il suo nono film, quello che giustamente è considerato all'unanimità la sua prova migliore.
Era un'Italia in cui gli scrittori e i registi e gli intellettuali si interrogavano su se stessi e sulle relazioni d'amore, di amicizia, sulla qualità della vita, riuscendo sempre a scandagliare il vero nocciolo del problema.
Era un'Italia soprattutto viva, non ancora soggetta al pizzo della politica, quando gli italiani erano ancora curiosi.
Riappropriarsi della sua eredità visiva narrativa mi sembra sia il modo migliore per cominciare a ritrovare quel gusto spericolato nell'andare a cercare il bandolo della matassa.
Alla ricerca del Senso esistenziale dell'essere italiani, al di là delle solite chiacchiere ormai consunte su tutto ciò di noi, che sappiamo, che conosciamo, che vediamo ogni giorno.
E' necessario andare al di là.
Come nella scena iniziale di "Fellini 8 e 1/2" quando il protagonista (Marcello Mastroianni) si trova imprigionato dentro un'automobile, incastrata in un ingorgo, ed esce dal finestrino tirato per i piedi da una lunghissima corda infinita.
E lieve come un palloncino si libra nell'aria e si perde tra le nuvole.
Per ritornare a credere che si possa davvero, ancora oggi, riuscire a volare.
Un tempo lo facevamo.
Vuol dire che è possibile farlo di nuovo.

In memoriam

Da: http://sergiodicorimodiglianji.blogspot.it/2013/10/la-grande-eredita-per-i-giovani.html?m=0

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